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Basta giochi di parole: il Concilio fu la rivoluzione

Sono cinquant’anni che ci tocca sentire i funambolismi verbali dei laudatores del Concilio, ben decisi a dimostrare l’indimostrabile, cioè che il Concilio non fu una rottura, non spezzò la continuità del Magistero e non sovvertì la Tradizione; mentre è vero l’esatto contrario: il Concilio fu una rivoluzione; di più: il Concilio fu la rivoluzione nella Chiesa cattolica, come gli Stati Generali del 1789 furono la rivoluzione nell’Ancien Régime. E questo perché Giovanni XXIII, nel convocarlo, anche se forse non se ne rendeva pienamente conto — questo punto non è stato sufficientemente chiarito; molto dipende se si riuscirà a provare oltre ogni ragionevole dubbio che egli era affiliato alla massoneria — accettava nondimeno, implicitamente e in via preliminare, tutte le principali acquisizioni della civiltà moderna: il liberalismo, la democrazia, la teoria e la pratica assembleare, la sovranità superiore delle Nazioni Unite, il laicismo, la cultura dei diritti della persona e dei diritti dei popoli, la libertà religiosa e il conseguente pluralismo e l’indifferentismo religioso. Pertanto, anche se non ci fosse stato — e invece c’era, eccome! — un complotto dei vescovi modernisti, giudaizzanti e filo-protestanti, ben decisi a sfruttare l’occasione per introdurre, col cavallo di Troia del rinnovamento pastorale e liturgico, un radicale mutamento della dottrina, vale a dire a realizzare un colpo di stato, ma in maniera dolce e inavvertita, Giovanni XXIII era comunque ben deciso a consegnare la Chiesa e i cattolici a tutte le richieste, per loro natura anticristiane e anti-umane, della modernità, sia pure ammantate di belle parole e di espressioni demagogiche e trionfalistiche, tali da confondere le idee agli ingenui e veicolare la pestilenza dell’eresia e dell’apostasia, senza però che i fedeli, in buona sostanza, se ne rendessero conto.

Si provi, infatti, a porsi la domanda: senza il Concilio, i cattolici avrebbero preso posizione a favore del divorzio e dell’aborto, nel decennio successivo, o avrebbero considerato tali questioni come afferenti la fera della libertà privata, e rispetto alle quali loro, i cattolici, dovevano astenersi o essere favorevoli, per rispetto a chi cattolico non era? Se qualcuno avrà il coraggio di rispondere che non esiste alcuna relazione fra il clima instaurato dal Concilio fra i cattolici, e il loro comportamento privato e sociale nell’ambito della morale sessuale, allora noi possiamo anche ammettere che il Concilio non fu una rivoluzione e che non fu una resa a discrezione al mondo moderno. Ma se si risponde in senso affermativo; se si riconosce che, senza il Concilio, padre David Maria Turoldo non avrebbe osato schierarsi a favore di quelle leggi, distinguendo fra il suo essere cattolico (fatto privato) e l’essere cittadino italiano (fatto pubblico e, a quanto pare, decisivo), allora bisogna avere l’onestà intellettuale di ammettere che il Concilio è stato una rivoluzione; qualcosa di simile agli Stati Generali francesi del 1789. E questa valenza modernizzatrice, liberale e quindi intrinsecamente contraria al vero Magistero e alla Tradizione, non è sfuggita agli studiosi più avveduti, ancorché partigiani del liberalismo e della modernità: per essi è sempre stato chiaro ciò che stranamente, pare che non sia chiaro affatto a tanti cattolici, e cioè che da quelle premesse non poteva che uscire un Concilio liberale, modernista, giudaizzante e filo-protestante, mirante a sospingere la Chiesa, negli anni seguenti, sempre più addentro sul terreno del liberalismo, del modernismo, del giudaismo e del protestantesimo. E tutto ciò che sta accadendo ai nostri dì, sotto il terribile pontificato del falso papa Bergoglio, non è che l’approdo logico e inevitabile di quelle premesse e quegl’indirizzi politici, culturali e spirituali.

Ecco cosa osservava in proposito Edward E. Y. Hales, che fu docente di Storia moderna alla Yale University, nel suo libro significativamente intitolato La rivoluzione di papa Giovanni, scritto"a caldo", cioè senza nemmeno aspettare la conclusone del Concilio, coi suoi tre documenti più significativi e più controversi: la Dignitatis humanae, la Nostra aetate e la Gaudium et spes (titolo originale: Pope John and his Revolution, 1965; traduzione dall’inglese di Elisabetta Rispoli, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp. 232-235):

Ed ecco che un giorno, mentre curiosava tra i libri della biblioteca vaticana, nell’autunno del 1960, gli capitò tra e mani uni dei trattai del Mazzini. Sfortunatamente era uno dei più anticlericali. Se avesse invece letto le pagine, diciamo, di "Fede e avvenire" o de "I doveri dell’uomo" vi avrebbe trovato riflessa nient’altro che la sua visione sociale. Tuttavia il trattato che gli capitò tra le mani era "dal Concilio a Dio", nel quale, al tempo del Concilio Vaticano I, il patriota deluso e invecchiato si esprimeva con amara ironia alle spalle di una Chiesa che tuttora ostacolava la libertà d’Italia.

Roncalli pensò che le commissioni preparatorie del Concilio Vaticano II avrebbero dimostrato interesse per questo trattato e così disse loro ciò che aveva scoperto (…).

Dopo aver condannato il Mazzini per la sua apostasia e la sua eresia e l’insolenza del suo trattato, Roncalli continuò ad esprimere, in numerose occasioni, la profondità della sua devozione per Pio IX, il papa del 1870, e la speranza di poterlo canonizzare nel corso del Concilio Vaticano II. "Io penso sempre — scrisse nel suo diario — a Pio IX di santa e gloriosa memoria, ed imitandolo nei suoi sacrifici, vorrei essere degno di celebrarne la canonizzazione". Come sarebbe stato bello se i Padri della Chiesa, riuniti in un nuovo Concilio generale, successori dei Padri del 1869-70, avessero potuto in questo modo rendere omaggio a quel papa che aveva resistito all’assalto e aveva mantenuto accesa la fiaccola rendendo possibili i gloriosi avvenimenti del 1962!

Sul piano religioso nulla avrebbe potuto essere più naturale da parte di Roncalli della sua esaltazione di Pio IX o della condanna del Mazzini. E tuttavia sul piano politico la posizione è (o dovrebbe essere) inversa. Pio IX, infatti, fu il più risoluto oppositore dei suoi tempi proprio di quelle libertà (e specialmente della libertà italiana) auspicate da papa Giovanna nella "Mater et Magistra" e nella "Pacem in Terris". Né le profezie politiche del Mazzini erano state insensate o la sua visione "falsa et stulta". Anzi, le sue visioni e quelle dei suoi compagni liberali avevano creato un mondo nuovo, un mondo che Roncalli accolse come migliore del precedente, insistendo che gli uomini avevano DIRITTO a quelle libertà che il Mazzini aveva rivendicato e Pio IX aveva respinto. Se il mondo avesse seguito i consigli politici di Pio IX anziché quelli del Mazzini, papa Giovanni non avrebbe potuto accogliere o istruire popoli liberi. Roncalli non era in grado di capirlo, ma di fatto il suo mondo era stato creato dal Mazzini e dagli altri liberali. Senza di essi il progresso, il liberalismo e la civiltà moderna, accolti favorevolmente da papa Giovanni e condannati da Pio IX, non sarebbero strati immaginabili. Storicamente parlando, Roncalli non fu l’erede di Pio IX ma del Mazzini. Così, lungi dall’essere "falsa et stulta", la visione politica del futuro nutrita dal Mazzini si era rivelata sorprendentemente esatta: l’Italia libera, unita e repubblicana; un mondo di popoli indipendenti, costruito sulle rovine degli antichi imperi, e tuttavia unito dalla partecipazione ad una società internazionale comune; l’insistenza sui diritti dell’individuo, della famiglia, della religione, in breve sui diritti dello statuto delle Nazioni Unite o su quelli adombrati da papa Giovanni. Nessuno dei profeti della metà del secolo XIX, neppure Montalembert (il quale pensava che il papati avrebbe sempre avuto bisogno dell’appoggio degli stati pontifici), fu giustificato più di quanto lo sia stato il Mazzini dagli avvenimenti del XX secolo.

E tuttavia egli aveva sbagliato riguardo alla Chiesa supponendo che il papato e, per meglio dire, il cattolicesimo fossero moribondi. In questo senso era l’erede dell’illuminismo del XVIII secolo e della rivoluzione francese; il risveglio cattolico dei suoi tempi non cessava di stupirlo e maggiormente stupito sarebbe rimasto dalla capacità di recupero cattolica nel XX secolo e dalla celebrazione del Concilio Vaticano II. Seriamente religioso, con un senso giansenistico del dovere, egli non arrivò mai a sospettare la perenne vitalità del cattolicesimo ortodosso della Chiesa di Roma.

L’analisi di Edward Hales ha una sua coerenza rigorosa e dovrebbe fare l’effetto di una manciata di sale versato sulla ferita dei cattolici, se solo costoro si rendessero conto che la loro ferita si chiama Concilio Vaticano II. È verissimo, infatti, che, una volta accettati tutti i punti chiave della civiltà moderna, liberalismo, diritti, ideologia del progresso, non ha molto senso sbandierare la propria ammirazione per Pio IX, mentre sarebbe più coerente riconoscere il proprio debito verso Mazzini e tutti i liberali (Hayes tace, forse per pudore, l’espressione massoni) del XIX secolo. D’altra parte, il ragionamento di questo storico fa acqua laddove pare non accorgersi che è a sua volta incoerente accusare i cattolici d’incoerenza se non plaudono alle conquiste del liberalismo, dopo aver riconosciuto che ciò afferisce la sfera del politico, mentre nella sfera del religioso aveva ragione Pio IX, e quindi aveva ragione anche Roncalli a volerlo canonizzare. La distinzione fra politico e religioso, per un cattolico, è, in effetti, una tipica distinzione moderna: chi l’accetta è per prima cosa un modernista, poi, forse, un cattolico, o sedicente tale; mentre il vero cattolico nega una tale distinzione quando subentrano le questioni morali: ed ecco perché aveva torto marcio padre Turoldo e con lui tutti i cattolici, laici e sacerdoti, che negli anni ’70 non si opposero, o persino favorirono, le leggi sul divorzio e l’aborto, con la motivazione che non potevano, né volevano imporre ad altri le proprie convinzioni religiose. Su questa strada ha ragione il signor Bergoglio a negare la benedizione cattolica ai fedeli, con la motivazione che forse, tra loro, ci potrebbe essere qualche non credente, o qualche seguace di altre religioni; o quando il suddetto Bergoglio fa un viaggio apostolico in Paesi pagani ed evita perfino di nominare Gesù Cristo, per non offendere la sensibilità di quelle popolazioni. Tale l’albero, tali i frutti. E bisogna essere sciocchi o ipocriti per non vedere che se l’albero è buono, non potrà mai dare frutti cattivi; ma che se i frutti sono cattivi, allora ciò significa che l’albero non era buono. Ma è evidente che Hayes, da studioso moderno, non si pone neanche il problema che un vero cattolico non potrà mai accettare il suo paradigma culturale come base per una ricostruzione storica del cattolicesimo. Quando dice, ad esempio, che senza Mazzini e gli altri liberali, né il progresso, né il liberalismo, né la civiltà moderna, accolti favorevolmente da papa Giovanni e condannati da Pio IX, sarebbero strati immaginabili, dà per scontato ciò che non lo è: che per un cattolico le parole progresso, liberalismo e civiltà moderna abbiano lo stesso significato e la stessa valenza, totalmente positiva, che hanno per un non cattolico, laicista e progressista. Se liberalismo, ad esempio, significa libertà di divorziare, di abortire, di praticare l’eutanasia, di sposare una persona del proprio sesso, di consumare liberamente le droghe, o almeno quelle giudicate "leggere", allora è più che evidente che un cattolico non può essere d’accordo con nessuna di queste cose. Se poi lo è, come ai nostri dì vediamo sempre più frequentemente, anche da parte di "autorevoli" esponenti del clero, vescovi e cardinali compresi, allora c’è qualcosa che non quadra: qualcuno sta barando; qualcuno sta adoperando la parola cattolico per intendere un insieme di credenze che col cattolicesimo non hanno niente a che fare, semmai ne sono l’esatta e diabolica contraffazione. In questo, infatti, sta la profonda disonestà di quei signori che si dicono cattolici e vestono da pastori della Chiesa cattolica, ma pensano, parlano e si comportano piuttosto come i seguaci della Sinagoga di Satana.

Là dove Hayes sbaglia completamente nel formulare un giudizio storico, però, è nella parte finale del suo discorso. Egli afferma che Giovanni XXIII non ebbe abbastanza fiducia nelle capacità di ripresa del cattolicesimo e anzi pensava, da erede dell’illuminismo, che il cattolicesimo fosse ormai moribondo. Senza rilevare, in apparenza, la contraddizione fra il definire Roncalli animato da un senso giansenista del dovere e presentarlo come un buon papa (un buon papa evidentemente non può essere eretico, e i giansenisti lo furono; ma ciò è tipico della storiografia filo-protestante, che apprezza nei cattolici tutto ciò che è poco o niente cattolico), afferma che il cattolicesimo di Roma possiede una intrinseca, indistruttibile vitalità. Egli ebbe troppa fretta di esprimere questo parere: nel 1965 tutti, cominciando dai cattolici, si aspettavano, proprio grazie al Concilio, una formidabile ripresa, che invece non ci fu. Si costruirono chiese, conventi e semiari che già nella prima metà degli anni ’70 restarono vuoti e furono venduti alle pubbliche amministrazioni. Aspettavamo la primavera, invece è venuto l’inverno, osservò malinconicamente Paolo VI, pochi anni dopo la chiusura (trionfalistica) del Concilio. Pertanto, se Giovanni XXIII volle il Concilio – rifiutando le obiezioni che avevano trattenuto i suoi predecessori – per rivitalizzare una Chiesa che credeva moribonda, sbagliò nella scelta dei mezzi. Se invece volle il Concilio per attuare i piani della massoneria, cioè sapendo quel che faceva e quali conseguenze avrebbe avuto, allora agì da nemico: un nemico occulto e perciò subdolo, che si spacciava per il papa buono. Ai posteri l’ardua sentenza.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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