Il continuo mutamento causa il crollo demografico?
10 Dicembre 2019La lontananza e l’infinito nella geografia di tacito
11 Dicembre 2019Sarebbe difficile sopravvalutare il significato e l’importanza dell’archetipo rappresentato dal personaggio di Robinson Crusoe, anzi, dalla sua irruzione sulla scena della cultura moderna: pochi altri possono stargli alla pari quanto a rappresentatività e forza di propagazione. Solitario, laborioso, tenace, imperturbabile, certo del suo destino e della missione da svolgere: Robinson è il tipico self made man, l’uomo che si fa da sé e che riesce a raggiungere alte mete partendo dal basso, o, come in questo caso, letteralmente dal nulla, perché nel naufragio della sua nave — che, sia detto fra parentesi, era adibita al poco onorevole commercio degli schiavi — ha perso ogni cosa ed è stato isolato, nello stesso tempo, dal consorzio umano, potendo contare solo sulle proprie risorse fisiche, intellettuali e morali. Per certi aspetti, Robinson è la modernità: e non è un caso che simbolicamente — anche se di fatto passa oltre un secolo fra l’uscita della prima parte del romanzo di Cervantes, nel 1605, e quella del romanzo di Daniel Defoe, nel 1719 — egli entra in scena dopo che don Chisciotte, malinconicamente, ne è uscito. Don Chisciotte rappresenta il vecchio mondo che muore: quello della civiltà cristiana, quello delle certezze e dei valori, come oggi si direbbe, non negoziabili; mentre Robinson è duttile, astuto, multiforme, tanto quanto il valoroso hidalgo spagnolo è lineare, trasparente, intransigente — e, perciò, in un certo senso, anche più fragile. Entrambi hanno la tempra dei lottatori, ma don Chisciotte è un lottatore-sognatore, mentre Robinson è un lottatore-utilitarista, che unisce sempre la convenienza personale con gli alti ideali da lui professati. Don Chisciotte è accompagnato da Sancho Panza, uno scudiero volontario che resta pur sempre un uomo libero ed è anche un amico, il quale, come ha fatto notare giustamente Miguel De Unamuno, non è affatto l’opposto del suo signore, ma la sua parte complementare, e in fondo è un sognatore come lui. Robinson invece si procura uno schiavo che, per il fatto di essere volontario – si è offerto come tale in un impeto di gratitudine per essere stato salvato dai cannibali — non diviene per questo meno schiavo, e la sua sottomissione è sottolineata dal fatto razziale di appartenere a un popolo selvaggio e perciò inferiore.
Abbiamo già avuto occasione di evidenziare l’importanza del personaggio di Robinson per la costruzione dell’autocoscienza della civiltà moderna (cfr. gli articoli: Robinson Crusoe è l’uomo in fuga da se stesso approdato sull’isola della modernità, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 16/08/11 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 02/02/18). Ora vogliamo puntare l’attenzione su un aspetto particolare, non tanto di Robinson, quanto della concezione complessiva del romanzo di Defoe e, più in generale, della visione del mondo propria dello scrittore inglese: vale a dire la natura e il ruolo che vi esercita la divina Provvidenza.
Scrive Aldo G. Ricci nella introduzione al Robinson Crusoe (Milano, Garzanti, 1976, 1992; traduzione Riccardo Mainardi; pp. XIV-XVI):
La salvezza di Robinson sull’isola avviene dall’incontro di due elementi: la Provvidenza — e quindi la predestinazione — da un lato, e la disciplina senza oscillazioni che egli applica alle proprie attività. La realizzazione dei propri programmi costituisce la più efficace riprova della forza della fede del puritano. Non vi è dubbio che si tratta di una religiosità in grado di contribuire in modo determinante allo sviluppo economico-sociale. De Foe dimostra a più riprese di avere piena coscienza di questa circostanza. A questo proposito basta ricordare il ruolo che affida ai quacqueri nei suoi romanzi. In "Moll Flanders", "Lady Roxana" e, soprattutto, nel "Capitano Singleton", il quacquero viene introdotto sempre come elemento correttivo di un possibile cedimento mistico-sentimentale del protagonista; tali personaggi sgombrano subito il campo dalle oscillazioni tra pentimenti e rimorsi che sono sul punto di impadronirsi degli eroi del romanzo e rimettono immediatamente sui giusti binari della razionalità la loro condotta; inoltre si rivelano sempre i più efficaci consiglieri commerciali e finanziari, insegnano che è male consumare le ricchezze e adagiarvisi, non accumularle. Veniamo così introdotti a un punto essenziale del discorso di De Foe: il ruolo del commercio nel mondo nuovo che sta nascendo. Nulla può essere più efficace delle parole dello steso De Foe. "Un autentico mercante — egli scrive — è un enciclopedico, la sua cultura supera quella del mero erudito, che conosce soltanto il greco e il latino, nella stessa misura che questi supera l’illetterato, il quale non sa né leggere, né scrivere. Egli intende le lingue senza bisogno di libri; la geografia senza bisogno di carte; i suoi diari e viaggi d’affari delineano il mondo; i suoi scambi con l’estero, i suoi protesti e le sue procure parlano tutte le lingue. Siede nel suo ufficio contabile e conversa con ogni nazione, e si tiene in corrispondenza universale cn la parte più eletta e più vasta della società umana. Lo qualifica per ogni sorta di funzione nello stato la sua generale conoscenza degli uomini e delle cose; rimette e riscuote somme di tale rilevanza che ha un movimento di capitali superiore a quello di un grande bilancio statale. Grazie al numero dei mercanti città sorgono dal nulla e decadono nuovamente a villaggi" ("Elogio del commercio").
Egli è lo strumento più efficace della Provvidenza, senza il quale il mondo languirebbe e tornerebbe alla barbarie Infatti è la Provvidenza stessa che ha predisposto il mondo il commercio fiorisca e il piano divino di commercio si realizzi. "Ma quel che basta — scrive ancora De Foe — è mostrare alla gente irriflessiva come la Provvidenza stessa favorisca il commercio e sembri aver preparato il mondo in vista di esso; come ci assiste nella diligente ricerca di un doveroso progresso, e sembri aspettarsi da noi che si perseveri nel lavoro, facendolo progredire ed estendendolo con ogni mezzo".La disposizione dei fiumi, dei mari, dei monti, delle pianure, tutto si rivela veicolo utile per lo sviluppo del commercio, in particolare in questo tempi fortunati. "La mano della Provvidenza — conclude lo scrittore — è stata più del consueto visibile nel portare alla luce, in questi ultimi tempi della storia del commercio, tesori che i nostri antenati non conoscevano; e senza dubbio essa ci riserva ancora un’inesauribile quantità di vantaggi, non ancora prevedibili, sia ai fini del commercio steso, sia al fine di saziare il desiderio di conoscenza dei posteri, ad alcuni dei quali questi fogli potranno forse, almeno in parte, tornare utili". Il mercante persegue il proprio interesse personale e nello stesso tempo realizza un piano della Provvidenza divina, dal quale l’intera umanità potrà trarre vantaggio. Questa è l’affascinante contraddizione dello sviluppo borghese, analizzata in seguito dettagliatamente da Mandeville e Smith, ma già interamente presente agli occhi di De Foe.
La sede ideale di questo progetto divino è l’Inghilterra, il "paese più ricco e fiorente del mondo", come lo definisce lo scrittore. Il "Viaggio attraverso la Gran Bretagna" è appunto l’inventario accurato delle risorse inglesi, di quelle circostanze che fanno dell’isola il centro del mercato mondiale. La vista di un paese pieno di filatori, di gente operosa, di fabbriche in attività, costituisce per il viaggiatore De Foe il "più bello spettacolo" che egli abbia mai contemplato; al contrario la vista di un paese con potenzialità economiche non sfruttate lo rende "triste".
Per Robinson/Defoe, dunque, l’isola disabitata alle foci del gran fiume Oorenoco in cui il fato, cioè la Provvidenza calvinista, lo ha fatto sbarcare, è l’occasione per mettere a frutto le potenzialità della natura creata da Dio: un Dio che non vuole vedere gli uomini languire nella pigrizia e aborre dallo spettacolo di una terra non sfruttata sino al massimo delle sue potenzialità economiche e produttive. Ecco dunque da dove i filosofi utilitaristi delle generazioni successive, da Adam Smith a Jeremy Bentham a John Stuart Mill, hanno pescato la strana idea che sta alla base del capitalismo moderno, secondo la quale più si persegue il proprio utile privato e più si contribuisce, misteriosamente, al benessere e al progresso dell’intera comunità (Adam Smith arriva a parlare di una "mano invisibile" che scioglie il mistero, senza meglio specificarla, anche se è chiaro che essa svolge la stessa funzione della Provvidenza divina): dall’idea protestante, e più specificamente calvinista, che l’uomo, per avere qualche indizio di essere destinato alla salvezza e non alla dannazione, deve impegnarsi al massimo nel lavoro e nel commercio, perché sarebbe illogico — guarda dove vanno a mettere la logica costoro — che Dio permetta a qualcuno di guadagnare un sacco di soldi per poi precipitarlo all’inferno. Del resto, un contemporaneo di Daniel Defoe, Bernard de Mandevlle, aveva pubblicato qualche anno prima del Robinson Crusoe, nel 1605, il suo capolavoro poetico-filosofico, La favola delle api, per forzare il senso del concetto religioso della Provvidenza e, spingendolo ancora più in là, rovesciarlo e approdare a un concetto laico, anzi libertino, di segno pressoché opposto, ma in effetti di significato pressoché uguale: i vizi, paradossalmente, sono necessari al progresso della società, mentre le virtù le sono d’impaccio (cfr. il nostro articolo: Qual è il vero significato della "favola delle api" di Bernard Mandeville?, pubblicato su sito di Arianna Editrice il 30/09/13 e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 04/02/18). Mandeville è olandese, ma il clima culturale e religioso in cui si muove è simile a quello dell’Inghilterra negli anni successivi alla Glorious Revolution del 1688-89 e ai trionfi del liberalismo, della Banca’Inghilterra e della Massoneria.
La Provvidenza, dunque, per Robinson Crusoe, ha creato il modo così com’è perché potesse trionfarvi il commercio; e ha stabilito, nei suoi sapienti decreti, che il cento del commercio mondiale avrebbe dovuto essere l’Inghilterra: ragion per cui non si può disattendere il progetto divino ma bisogna darsi da fare al massimo per valorizzare ogni terra (come l’isola disabitata) e ogni persona (come gli schiavi africani che il Nostro si proponeva di acquistare per rivenderli poi sui mercati del Brasile). Mirabile convergenza d’intenti – e d’interessi – fra ciò che ha stabilito l’Onnipotente e ciò che torna a vantaggi degli uomini, specie di quelli nati nella ricca e meravigliosa Albione, popolo predestinato al commercio e perciò popolo predestinato a realizzare il disegno divino. In quest’ottica si vede bene come gli inglesi — e Defoe è il vate di questo supremo destino nazionale — siano gli strumenti privilegiati dell’ordine divino e, nello stesso tempo, i destinatari della ricchezza mondiale, messa a loro disposizione per la maggior gloria di Dio. Non si sa se ammirare di più i sottili ragionamenti coi quali questo popolo di mercanti, al tempo della monarchia parlamentare nata dalla cacciata dell’ultimo re cattolico (Giacomo II Start nel 1688) , ha giustificato una serie di svolte rivoluzionarie, iniziate con il processo e la decapitazione di Carlo I, nel 1649, o la straordinaria faccia tosta con la quale esso pretende di ammantare il perseguimento dei propri interessi di natura commerciale e finanziaria, sovente con metodi briganteschi, dietro il paravento della gloria dovuta al Creatore. Probabilmente è questo secondo aspetto a colpire di più un cattolico, il quale non sa darsi ragione di come si possa strumentalizzare la religione, e in perfetta buona fede — la buona fede dei puritani! — fino a un tal punto: sostenere che la spoliazione d’interi continenti, il commercio degli schiavi, il genocidio dei popoli indigeni più refrattari al progresso e perciò "inutili" (come i tasmaniani), le guerre preventive contro le rivali commerciali (come l’attacco proditorio alla flotta danese a Copenaghen nel 1807 o a quella francese a Mers-el-Kebir nel 1940) e perfino la pulizia etnica e la deportazione di popolazioni "scomode" (i coloni francesi dell’Acadia nel 1755-63), siano tutti passaggi non solo giusti e leciti, ma addirittura santi, attuati al servizio della divina Provvidenza. Un’altra cosa risulta evidente da queste circostanze: gli inglesi, a partire dall’età della regina Elisabetta, dopo le spettacolari imprese corsare di Francis Drake ai danni delle colonie spagnole del Sud America e dopo la sconfitta dell’Invincibile Armata nel 1588, si consideravano il nuovo popolo eletto, in quanto Dio stesso aveva messo il mondo a loro disposizione per arricchirsi. In ogni azione politica e commerciale inglese, così come in molte opere letterarie, come appunto nel Robinson Crusoe, si nota la stretta unione di motivazioni materiali ed egoistiche e di motivazioni religiose di segno calvinista. Inutile ripetere cose già dette da Max Weber nel suo classico L’etica protestante e lo spirito del capitalismo. Ci preme piuttosto evidenziare che questa mentalità messianica si è poi trasferita ai coloni dei futuri Stati Uniti, i quali consideravamo un intero continente, l’America, messo a loro disposizione dalla divina Provvidenza, sempre a maggior gloria di Dio. Si noti la differenza con la mentalità spagnola: i conquistatori iberici vedevano la gloria di Dio nella conversione degli indigeni; gli anglosassoni nella creazione di una Nuova Gerusalemme in una terra "nuova", i cui abitanti originari non rientravano nel quadro e pertanto dovevano essere in qualche modo resi inoffensivi. Gli inglesi lo fecero in Irlanda, sulla quale si accanirono per secoli, fino quasi a spopolarla; gli americani con i pellirosse. Gli uni e gli altri agivano in perfetto sincronismo con l’altro popolo eletto, il più antico di tutti: quello che, alla fine del XIX secolo, col sionismo, volle far valere i diritti mai scordati conferitigli da Dio stesso…
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