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La negazione della legge è la morte della società

Ogni società si fonda sulla legge. La società cristiana si reggeva sul duplice fondamento della legge divina e della legge morale naturale, che sostanzialmente coincidevano, caso unico nella storia (il che vorrà pur dire qualcosa, se ci si prende il disturbo di riflettervi sopra). Il cristianesimo non negava e non nega la legge naturale, anzi la conferma, salvo completarla e perfezionarla. In questo senso — e non nel senso degli illuministi, ad esempio di Locke o di Toland — si può parlare di una ragionevolezza del cristianesimo. L’essenza del cristianesimo come Rivelazione, infatti, è e resta infinitamente misteriosa: Dio che si fa uomo; che vive, soffre e muore come uomo, non cessando di essere Dio; che risorge e che apre, con il suo Sacrificio, la possibilità della Redenzione agli uomini, non però automaticamente, ma stimolandoli ad essere perfetti come lo è stato Lui, quando era Uomo oltre che Dio, nell’aderire alla volontà del Padre Suo. Invece la morale del cristianesimo si fonda sugli stessi presupposti della legge naturale, arricchendola e perfezionandola, immettendovi quella capacità di perdonare, quella mitezza e quella benevolenza verso l’altro, che non si trovano in alcun’altra legge morale di tipo meramente naturale, e promettendo agli uomini di donare loro gli strumenti soprannaturali necessari a perseverare in un tale stile di vita, ciò che essi, da soli, non saprebbero fare. Onora il padre e la madre, oppure: non mentire, non rubare, non uccidere, sono precetti del cristianesimo, ma lo sono anche per la legge naturale, e infatti li si ritrova, con qualche piccola variante, anche nelle altre culture e nelle altre religioni. Ciò che in esse non si torva — nel giudaismo o nell’islamismo, ad esempio — è quel "di più" di comprensione, di sollecitudine, di capacità di perdonare le offese che è la carica specifica del Discorso della Montagna (Avete udito che fu detto… ma io vi dico). Peggio: lo si trova, ma solo nei confronti dei membri del proprio gruppo e della propria fede; per gli altri; verso gli altri, i goyim, gli infedeli, non vi è che disprezzo, e la liceità di agire come se appartenessero ad un’umanità inferiore. Vadano a leggersi certi versetti del Talmud e certe sure del Corano i banditori del dialogo integrale, dell’interreligiosità d’accatto così cara al falso papa Bergoglio, e vedranno cosa si dice dei goyim e degli infedeli, e come si giustifica, nei loro confronti, ogni genere di violenze e crudeltà — per non parlare delle bestemmie riservate al Dio dei cristiani. Nulla di ciò si potrebbe trovare nel Vangelo e in tutto il Nuovo Testamento, anche a passarlo con la lente d’ingrandimento: e basterebbe la parabola del Buon Samaritano a chiarire il concetto, considerando che i Samaritani, per gli Ebrei, erano solo degli infedeli e dei disprezzatissimi nemici: nemici al punto che era rischioso recarsi dalla Galilea a Gerusalemme passando per il loro territorio. Dunque, nelle altre religioni e negli altri sistemi di leggi vi è una doppia morale, ma non nel cristianesimo. E per favore non si tirino fuori, per contestare questa affermazione, né i roghi dell’Inquisizione, né gli eccessi delle Crociate, né le azioni sanguinose dei conquistadores: perché le violazioni alla morale di Gesù Cristo, che pure vi furono, anche se non nella misura caricaturale sostenuta dai nemici professionali del Vangelo, non solo non smentiscono, ma confermano, facendola ulteriormente risaltare, quella morale, e dimostrano solo che gli uomini, anche se si dicono cristiani, se non hanno realmente Gesù nel cuore, se non hanno una fede viva e intatta, sono sempre e soltanto uomini, come tutti gli altri, e in quanto tali sono capaci di commettere peccati di ogni sorta, perché non li sostiene, non li illumina e non li consiglia la luce soprannaturale dello Spirito Santo.

Ma la società moderna si è allontanata dalle sue radici, le ha rifiutate e disprezzate, le ha respinte e insultate, e ha voluto costruire una legge del tutto nuova, fondandola, assurdamente, su una vera e propria contro-legge: Fa’ quel che vuoi. Beninteso, specialmente all’inizio, quei signori si sono premurati di aggiungere: Fa’ quel che vuoi, ma restando nell’ambito di ciò che la legge ti permette, affinché tu non rechi danno agli altri. Tale era la morale degli illuministi, di Voltaire e del già citato Locke; e tale l’essenza della concezione liberale, incentrata sulla libertà della persona e quindi tale da respingere, per sua stessa natura, ogni "imposizione" morale proveniente dall’alto o dall’esterno. Poi, un po’ alla volta, la prima parte del messaggio, Fa’ quel che vuoi (era il motto della cosiddetta abbazia di Thelema, fondata dal satanista e mago nero Aleister Crowley; ma era anche il motto dei signorini Beatles, di tutta la musica leggera a partire da quegli anni e di tutta la generazione del ’68) ha preso totalmente il sopravvento e ha fatto quasi scomparire la seconda, ma restando nell’ambito di ciò che la legge ti permette. E se quest’ultima non è scomparsa dal codice, è scomparsa però dall’orizzonte mentale delle persone e perciò dal loro agire pratico. Da ultimo, per sua vergogna suprema e imperitura, è scomparsa anche dalle parole del clero che si dice ancora cattolico, ma che cattolico non lo è più, da quando ha spalancato porte e finestre alla cultura liberale moderna e ha trasformato le chiese in luoghi di spettacoli osceni, e il pulpito in uno strumento per la diffusione di dottrine pestifere e immorali. Potremmo pertanto definire la società moderna come la prima società della storia che si fonda, ci si perdoni l’ossimoro, sul rifiuto e sulla negazione della legge: la sua legge, almeno al livello pratico dei suoi membri, è quella di non avere una legge, di non riconoscere una legge e di aborrire dall’accettazione di una legge. Esaltando l’individualismo, la cultura liberale ha favorito anche il rifiuto della legge, perché questa si esplicita sempre in un insieme di norme che riguardano tutti i membri della comunità e che s’innalzano al disopra della decisione strettamente individuale su ciò che è giusto e ciò che non lo è. Invece, nella società moderna ciascuno si arroga il diritto di stabilire da sé la propria legge e quindi anche di respingere le richieste degli altri, in quanto non riconosce ad alcuno il diritto di prescrivergli ciò che è libero e ciò che non è libero di fare. E anche qui brilla tristemente, tra gli alfieri della dissoluzione, il clero della contro-chiesa del signor Bergoglio, specie da quando il falso papa ha dichiarato a Eugenio Scalfari che, in caso di dubbio morale, ciascuno deve seguire la propria coscienza e quella soltanto; e ciò fin dalla sua prima intervista al capo del partito massonico e anticristiano, cioè a pochi mesi di distanza dalla sua illegittima elezione. Con quelle parole, anche il sedicente capo della chiesa cattolica ha dato la sua brava picconata all’universalità e alla ragionevolezza delle legge cristiana, che conferma, per la parte terrena, semmai addolcendola e mitigandola, la legge naturale: e se il papa non difende più, ma anzi abbandona, l’universalità della legge, chi mai la potrà sostenere? In questo appunto sta la tristezza più profonda dei discorsi di Bergoglio, Paglia, Galantino, Sosa, Kasper, Schönborn, Martin, Kräutler, Zuppi, Bianchi, nonché dei mille e mille preti che cantano Bella ciao a Messa, che fanno dormire e mangiare i rifugiati dentro le chiese, che benedicono le unioni omosessuali e che inveiscono contro chi prega affinché Dio apra i loro cuori e li faccia rinsavire. Essi proclamano infatti esattamente le stesse cose degli illuministi di tre secoli fa, abolendo, di fatto, la specificità cristiana e dissolvendo totalmente l’elemento sacro e soprannaturale, per abbassare il cristianesimo al livello di una sistema fra i tanti, oltretutto con una morale liquida, esattamente come lo è quella di tutti gli altri sistemi moderni.

Vale la pena di rileggersi quel che pensava Aristotele, filosodfo pagano però ben radicato nell’idea della legge naturale quale fondamento della legge umana, a proposito del rapporto esistente fra legge e società; ne riassumiamo al massimo i termini servendoci delle parole di William David Ross (1877-1971), uno dei maggiori filosofi e filologi britannici del Novecento, grande studioso del pensatore greco (da: W. D. Ross, Aristotele; titolo originale: Aristotle, London, Methuen e Co., 1923; traduzione di Altiero Spinelli, Bari, Laterza, 1946, e Milano, Feltrinelli, 1971, pp.155-156):

La negazione della legge deve essere o totale o parziale. Se è parziale si ammette che la legge regga in certi casi. Se è totale, allora a) qualsiasi cosa possa affermarsi si può negare e qualsiasi cosa possa negarsi si può affermare; oppure b) qualsiasi cosa si possa affermare si può negare, ma non ogni cosa che possa essere negata si può affermare. Ma quest’ultima alternativa implica che qualcosa in modo definito non è, e che il suo opposto in modo definito è; cioè si ammette che la legge abbia valore in alcuni casi. E se il nostro avversario adotta la prima alternativa, egli dice con ciò che nulla possiede una natura definita, cioè che nulla è. È come se dicesse che tutte le asserzioni sono vere e che tutte (inclusa la propria negazione della legge) sono false. Non sta dicendo nulla di definito e non ci si può aspettare di ragionare con lui.

A quanto pare, per la logica impeccabile di Aristotele era chiaro ed evidente ciò che, si direbbe, non arriva neppure a scalfire il durissimo comprendonio dei moderni, siano essi politici e pubblici amministratori, o sedicenti artisti e uomini di cultura, o addirittura specialisti del pensiero, vale a dire (ma in teoria: molto, molto in teoria) filosofi. Aristotele dice, ed è buon senso elementare: una cosa o è, o non è. Se si pretende che una certa cosa sia e non sia allo stesso tempo, la si descrive come indefinita: ma una cosa del genere esiste solo nel regno delle parole, non in quello dei fatti. Nel regno dei fatti, che è quello in cui ci muoviamo, le cose sono oppure non sono. Ora, se si pretende di negare la legge, bisognerebbe essere coerenti e negarla totalmente, perché la sua negazione parziale conduce al vicolo cieco sopra descritto: affermare e negare qualcosa nello stesso tempo. La legge non è una galassia vagante e sempre mutevole; è una collana armoniosa, e se si sfila una perlina, la collana si rompe e tutte le perline si disperdono. Non si può dire, ad esempio, che un determinato soggetto è sia maschio che femmina, perché oltre a essere una contraddizione in termini, le due affermazioni simultanee sullo stesso soggetto creano delle situazioni ingestibili: la maestra lo dovrà chiamare lui o lei? Andrà nel bagno dei bambini o in quello delle bambine? Molti fautori della modernità più spinta a arrivano a teorizzare la società liquida permanente, cioè l’abolizione radicale e definitiva di ogni senso compiuto delle parole e dei relativi concetti; ma questo è impossibile. La sola conseguenza di una simile filosofia, se venisse adottata, sarebbe l’implosione rovinosa dell’intero edificio sociale. Di fatto, questo è ciò che sta incominciando ad accadere: è già da tempo che la nostra società si è messa su questa strada, e il ritmo si fa sempre più veloce. Sono sempre più numerosi gli artisti, gli scrittori, i registi, le persone di spettacolo, gli psicologi, i sociologi, i filosofi (o sedicenti tali) i quali teorizzano una società dove ciascuno è libero d’inventarsi ciò che vuole essere, e dove nessuno deve avere la pretesa di definire gli altri entro un ruolo e un’identità precisa. Stiamo cioè assistendo alla suprema, radicale ribellione dei personaggi di Pirandello, i quali si sentivano intrappolati nelle loro maschere e bramavano la libertà radicale di poter essere nessuno, onde non dover essere più uno soltanto (se quell’uno non era di loro gradimento) oppure centomila (perché essere centomila vuol dire soggiacere alle maschere che le aspettative degli altri impongono alla nostra vita).

Dunque, come insegna Aristotele, una cosa è se stessa e non altro; se si pretende che essa sia e non sia nello stesso tempo se stessa, allora si introduce nel mondo la pazzia, come di fatto sta accadendo grazie all’opera nefasta e irresponsabile, o criminale, di alcune migliaia di politici, amministratori, economisti, intellettuali, artisti, ciarlatani vari (fra i quali spiccano i sedicenti psico-analisti) e, da ultimo, quella nuova razza di cialtroni che soni i vescovi e i preti cattolici i quali però, di cattolico, non hanno più nulla, tranne il nome (del quale peraltro si vergognano, e che usano il meno possibile): tutti d’accordo nel sostenere che le cose sono e non sono allo stesso tempo. Nel caso dei contro-preti bergogliani, ad esempio, lo scenario aperto da Amoris laetitia e dalla sua applicazione, discorde secondo la sensibilità di questo o quel vescovo, e magari di questo o quel singolo prete, fa sì che l’adulterio è e non è un peccato; che il matrimonio cristiano è e non indissolubile; che chi pecca deve o non deve ravvedersi, pentirsi, confessarsi e impegnarsi a cambiar vita. E questo solo per fare un esempio. Pertanto, se vogliamo sottrarci all’inevitabile destino di rovina che ci attende qualora perseveriamo in questa strada, dobbiamo tornare all’idea della legge e della sua integralità. Non per nulla i nemici dell’ordine cristiano, che sono poi anche i peggiori nemici dell’uomo in quanto tale, partono dalla ricerca capziosa di eccezioni alla legge per introdurre un grimaldello col quale scardinare l’intero edificio. E se una donna è stata stuprata ed è rimasta incinta, dovrà forse portar avanti la gravidanza e mettere al mondo il frutto della violenza subita? Ecco il tipico sofisma di costoro: e nonostante la sua palese capziosità (che colpa ha il nascituro d’esser stato chiamato alla vita? Sopprimerlo sarebbe come lasciar morire un bambino abbandonato da altri fuori della porta di casa nostra), è servito a far passare la legge sull’aborto, che quei signori non hanno neanche il fegato di chiamare col suo vero nome, ma seguitano a parlare d’interruzione volontaria della gravidanza (così suona meglio, razza d’ipocriti). La legge non è uno strumento di oppressione: è ciò che ci consente una vita ordinata e razionale, degna di uomini e non di bruti. Se non c’è, siamo finiti.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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