Sì: è ancora e sempre la stessa acqua che scorre
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3 Dicembre 2019Ci sono due modi di raccontare la storia dell’uomo; o meglio ci sarebbero, perché di fatto la cultura moderna ne conosce e ne pratica uno solo, mentre il secondo viene adottato da pochi autori isolati, le cui opere e le cui idee non giungono al grosso pubblico e quindi non contribuiscono a formare, se non eccezionalmente, le menti delle nuove generazioni, né ad arricchire di nuovi punti di vista e nuove prospettive il paradigma intellettuale entro il quale ci muoviamo.
Non sappiamo in quanti se ne siano accorti, probabilmente in pochi, pochissimi: ma la narrazione della storia, e specialmente delle origini dell’umanità, è stata monopolizzata, nelle sedi scolastiche e universitarie, da studiosi di fervente fede evoluzionista e darwiniana. Addirittura, nei testi delle elementari e delle medie inferiori e superiori, i primi capitoli del libro di storia invadono l’ambito delle scienze naturali, si sostituiscono alla paleontologia, alla biologia e all’antropologia, e presentano ai ragazzi l’immagine di una creatura vagamente ominide che a un certo punto scese dagli alberi della savana (mentre gli esemplari che seguitarono a vivere nelle foreste rimasero arboricoli), cominciò a trotterellare a quattro zampe, poi, un poco alla volta,si raddrizzò e acquisì la stazione eretta; le necessità della sopravvivenza la indussero a escogitare delle armi, delle trappole, la resero astuta e questo impresse un’ulteriore evoluzione alla sua massa cerebrale; sicché un poco alla volta, per gradi, da animale diventò uomo, e solo da ultimo, ciliegina sulla torta quando fu capace di sbrigare tutte le sue necessità materiali, poté dedicarsi all’otium della riflessione della meditazione, e da ciò nacquero le religioni e la filosofia, infine la scienza. Sempre in una scala ideale ascendente: perché la scienza, si sa, specie nella versione divulgata da Piero Angela e Margherita Hack, è il vertice supremo e infallibile del pensiero umano. I reperti paleontologici e quelli archeologici vengono interpretati sistematicamente in questo senso, cioè partendo un assunto, o per dir meglio da un pregiudizio, evoluzionista, e quindi rigorosamente materialista: prima l’uomo si dedicò alle necessità della vita materiale, per sfamarsi e creare un ambiente idoneo alla sua sopravvivenza; poi, quando ebbe l’agio di dedicarsi a escogitare qualche maggiore comodità, che andava al di là del bisogno immediato, divenne religioso, indi filosofo e da ultimo, scienziato. È evidente l’impronta marxista, oltre che darwiniana, di questa impostazione mentale: sia nel senso del primato della praxis sulla teoria, sia nel senso del primato dell’economia sulle attività cosiddette spirituali, ridotte a epifenomeno o sovrastruttura dei modi di produzione. Nulla si dà nel campo dello spirito, arte compresa, che prima non sia nella pentola o che non passi dal previo soddisfacimento delle necessità meramente fisiologiche. Dateci un ramapiteco, e nel giro di qualche milione d’anni ne faremo un ominide; dateci un ominide, e ne faremo un cuoco; dateci un cuoco e ne faremo un sacerdote, un filosofo e infine uno scienziato.
Questa grottesca concatenazione concettuale e temporale, pare incredibile, ma viene spacciata per moneta buona in tutte le scuole, fin dall’asilo, e in tutte le università; i pochissimi professori non evoluzionisti, più rari, in verità, di un quadrifoglio in un campo di trifogli, se ne stanno acquattati in qualche angolo, non trovano case editrici disposte a pubblicare i loro studi, né sedi accademiche che li invitino a divulgare le loro ricerche; in breve, sono ridotti al silenzio, come si addice al clima del Pensiero Unico nel quale felicemente viviamo. Tutti gli altri, a cominciare dai genitori — quegli stessi genitori che non perdono un minuto ad andare a reclamare dalla maestra o dal professore se il loro figlioletto si è sbucciato il dito durante l’ora di educazione fisica, o se ha preso un sette anziché un otto nella verifica di storia, non trovano nulla da eccepire; o perché non sono interessati o perché non vedono dove stia il problema. Esigenti all’eccesso quando si tratta di scegliere la marca del nuovo telefonino o le caratteristiche dei pantaloni strappati che sono l’uniforme obbligatoria dei giovani studenti, i genitori post-moderni si fidano con commovente candore di tutto quel che le maestre e i professori insegnano ai loro figli circa le origini dell’uomo e l’essenza della sua natura. Ed è evidente che l’anima, messe le cose in questi termini, è una perfetta sconosciuta. A che serve l’anima? La facoltà di ragionare e di inventare nasce dall’accrescimento delle circonvoluzioni cerebrali, e queste dalla complessità dei compiti che il cacciatore-raccoglitore deve affrontare, specie se mutano le condizioni climatiche e ambientali ed egli, per sopravvivere, deve compiere uno sforzo ulteriore di adattamento; ma l’anima? Che cos’è, a che serve? Chi l’ha vista? Da dove mai potrà venire, visto che tutto quel che c’è nell’uomo è un prodotto delle sue facoltà chimiche e biologiche? Del resto, se i teologi e i preti non hanno alcuna obiezione da fare a questo schema; se non si sognano neppure di chiedere conto alla cultura profana di questo tipo d’insegnamento scolastico e universitario (terrorizzati come sono, a quattro secoli di distanza, dall’effetto Galilei), perché mai dovrebbero nutrire sospetti o diffidenze dei comuni genitori, e sia pure di fede cattolica? Va benissimo così: lo dice la tivù, lo dice la maestra, lo dicono Piero & Alberto Angela e lo dicono le parole crociate: vuoi che non sia tutto vero come oro colato? Del resto, sono almeno quattro secoli — dai tempi della rivoluzione scientifica, appunto — che i filosofi hanno smesso di parlare dell’anima. Sì, ne parlavano Platone e Aristotele; ma che volete farci, né Platone né Aristotele avevano avuto la fortuna di vivere in tempi meravigliosi come i nostri, dove la scienza sta chiarendo quasi tutto quel che c’è da chiarire, e il resto lo chiarirà di qui a breve; e se qualcosa resterà fuori dal quadro, vorrà dire — Kant ce lo insegna — che si tratta di questioni irrisolvibile, o magari — e qui ci soccorre Wittgenstein – sulle quali si deve tacere.
Eppure… Eppure, i fatti, questi noiosi fatti che ogni tanto hanno il cattivo gusto di mettersi di traverso alla teorie più brillanti, sembrano smentire decisamente tutto il castello di carte dell’antropologia evoluzionista. È proprio vero che l’anima è un lusso inventato dagli uomini altamente civilizzati, dopo che essi ebbero soddisfatto tutte le necessità materiali dell’esistenza? O non è vero, al contrario, che troviamo la nozione di anima, come la nozione di Dio e come la nozione di vita eterna, anche presso i popoli meno civilizzati, anche presso i più isolati e anche, scandalo supremo, fra quelli maggiormente impegnati nella struggle for life, nella darwiniana lotta per la vita, a causa di condizioni climatiche e ambientali particolarmente sfavorevoli? Che cosa direbbero i signori evoluzionisti se si mostrasse loro che gli uomini "primitivi" non solo avevano, perfettamente chiara, la nozione di "anima", ma che la ritenevano il cardine di tutta la realtà, la chiave di volta di tutta la loro visione del reale? Popoli, stiamo dicendo, che erano costretti a cacciare o pescare o raccogliere frutti per quasi tutto il tempo della loro vita, senza conoscere le tecniche per fare delle scorte e conservare gli alimenti; popoli, quindi, che secondo la visione evoluzionista avrebbero dovuto essere interamente assorbiti dal problema di assicurarsi, giorno per giorno e ora per ora, la propria sopravvivenza, lottando contro condizioni ostili.
Scriveva l’etnologo e storico Jean Servier (1918-2000) nella sua opera, divenuta un classico del pensiero divergente, L’uomo e l’invisibile (titolo originale: L’Homme et l’Invisibile, Paris, Laffont, 1964; traduzione dal francese di Giovani Cantini e Agostino Sanfratello, Torino, Borla, 1964, e Milano, Rusconi, 1973, pp. 96-98):
"Noi consideriamo l’anima come la cosa più importante più misteriosa di tutte", ha detto un esquimese iglulik all’esploratore Rasmussen.
All’inizio di questo XX secolo una scoperta di questo genere arrivava troppo presto: se gli studiosi avessero dato una qualsiasi importanza a questa affermazione, essa avrebbe dovuto modificare i postulati di base delle scienze umane, impedire che i razionalisti avessero via libera. Rasmussen fu scartato, i suoi lavori dimenticati, si partì alla ricerca di "selvaggi" più docili alle teorie dell’uomo bianco.
Nessuno ha pensato per un istante che il grande studioso danese doveva ai sui antenati materni esquimesi la sua possibilità di bruciare le lunghe tappe che devono percorre tutti gli esploratori quando cercano la fede profonda di un popolo.
Gli iglulik non sono dei mistici nati. Essi abitano l’interno della Groenlandia in un clima che è quello del Grande Nord e conducono una vita che era, fino a poco tempo fa, una lotta continua contro il freddo e la fame. L’uomo doveva cacciare per vivere, doveva essere artigiano per farsi le semplici armi che usava. In questa società la coppia è la sola unità familiare, poiché è la sola unità che possa sopravvivere.
Gli economisti ci dicono che sono le provviste fatte nei periodi propizi che liberano l’uomo dalla necessità quotidiana e gli permettono di meditare. Nelle solitudini della Groenlandia non era affatto così; gli esquimesi non conoscevamo tecniche di conservazione del cibo e in potevano liberarsi dagli obblighi della caccia o della pesca. Ancora pochi anni fa si poteva dire di loro: se la caccia è buona, mangiano; se è cattiva, consumate le riserve, dopo poche settimane è la carestia.
Immaginiamo che fra diecimila anni uno studioso di preistoria passeggiando per la Groenlandia trovi tracce rettangolari regolari che sembrino opera dell’uomo: egli le identificherà giustamente come fondi di capanne. Altri segni gli confermeranno la presenza dell’uomo: ceneri che al setaccio rivelano schegge d’osso bruciate, oppure punte di fiocina in osso di tricheco. Redigerà il resoconto della sue scopette, che permettono di concludere che esseri umani sono passati di lì: cacciatori-pesatori, forse seminomadi; senza dubbio testimonianze fossili dell’aurora dell’umanità. Nessuna voce gli sarà venuta a dire, come Rasmussen: "L’anima è per noi la cosa più importante e più misteriosa".
Allora si pone la stessa irritante questione: tutta la storia dell’umanità si riduce alla trasformazione della fiocina in fucile? L’uomo è solamente un operaio specializzato che impiega i millenni di una storia prodigiosa per sviluppare la sua abilità manuale e, di lì, il suo pensiero?
Immaginiamo che sia così. Il più adatto darebbe sopravvissuto perché più robusto fisicamente, e anche più scaltro, capace di inventare le armi migliori e anche le trappole più efficaci. L’uomo, dopo aver scheggiato la selce per renderla più tagliente, ha saputo tendere il primo arco e uccidere da lontano. Più tardi ha forgiato il rame, poi il bronzo e il ferro, mentre imparava a fare delle riserve, a tenere prigionieri gli animali e a ripiantare nella loro stagione i semi di piante alimentari. La storia ufficiale dispiega il suo panorama dell’umanità, dai clan agli imperi, in base ad alcune scoperte importanti: l’aratro, l’aggiogamento dei buoi, i finimenti del cavallo, che liberarono l’uomo della schiavitù, il timone che gli permise di fare, da un oceano all’altro, il giro dei suoi possedimenti…
È un discorso chiarissimo, che non fa una piega. Ma è evidente che né Knud Rasmussen (1879-1933), né Jean Servier hanno fatto scuola nel clima del Pensiero Unico: essi avevano il torto di far appello ai fatti, in una cultura che si regge su idee astratte e non tollera di veder contraddette le sue idee dalla banalità dei fatti. I fatti vanno bene se confermano le asserzioni degli antropologi, degli storici, dei filosofi, degli economisti di formazione progressista, illuminista e pragmatista; ma diventano scomodi e quindi vanno bollati come reazionari se hanno il torto di smentire le loro elucubrazioni. E allora via i fatti, e avanti con le teorie. Lo stesso evoluzionismo non è che una teoria, non dimostrata e indimostrabile, tanto è vero che per puntellarla sono costretti a ricorrere a funambolismi verbali o astrazioni quasi mistiche come il famoso brodo primordiale ove le molecole inorganiche sarebbero divenute organiche (processo del tutto improbabile in termini statistici); e naturalmente non sanno spiegare perché alcune specie animali viventi, come squali e coccodrilli, non siano affatto evolute in centinaia di milioni d’anni. Ma tant’è: essi hanno il monopolio della cultura, della scuola e dell’università e possono dire quel che vogliono: anche che l’erba è rossa e il cielo è verde. Ma i popoli primitivi hanno altre idee. Anche se gi antropologi evoluzionisti hanno cercato e frugato ovunque, mai hanno trovato un popolo, per quanto primitivo, che non avesse la nozione di Dio e dell’anima. E questo per una ragione molto semplice: perché l’anima esiste, e l’uomo ne è sempre stato consapevole; ha sempre saputo che essa è la cosa più importante più misteriosa della sua natura. E gli uomini primitivi non hanno atteso il permesso dei professori di antropologia per coltivare queste credenze. Se fosse solo per i professori, crederemmo ancora che gli indigeni della Terra del Fuco erano un popolo senza alcuna nozione di Dio e dell’anima. Questo perché gli studiosi hanno cercato mossi da un pregiudizio e quindi non hanno voluto vedere ciò che non rientrava nel loro schema: ma oggi sappiamo che avevano torto marcio. A noi, però, la possono raccontare come vogliono: siamo così immersi in un clima materialista, che mandiamo giù tutto…
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