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Sì: è ancora e sempre la stessa acqua che scorre

Non c’è quasi un ricordo della nostra infanzia che non sia accompagnato dall’immagine dell’acqua che scorre. Ampia e vigorosa la corrente delle rogge lungo il lato occidentale della circonvallazione, viale del Ledra e via Martignacco; calma e serena quella delle rogge che si snodano attraverso le vie del centro storico, negli angoli appartati, come in via del Molin Nascosto, o in quelli più affollati, come accanto alle bancarelle del mercato di viale Zanon. E ancora, quella che scivola silenziosa sotto l’argine che lambisce il cortile della scuola Dante Alighieri e l’istituto Teobaldo Ceconi, e nella quale i pioppi specchiano le loro chiome, o quella solcata da bianchi cigni silenziosi, come in una cartolina d’altri tempi, in piazza del Patriarcato e tutto intorno ai Giardini Ricasoli, o accanto al Santuario della Madonna delle Grazie, dove compie un piccolo salto fragoroso, simile a quell’altro salto, all’inizio del viale Volontari della Libertà. E poi i canali ottenuti derivando l’acqua dei fumi vicini, come il canale Ledra-Tagliamento e il canale di San Gottardo, che attraversano il territorio e accompagnano le strade secondarie che sanno già di campagna, come via Cuneo, una laterale di viale Vat, nel quartiere di Chiavris; canali scavalcati da ponticelli per congiungere le case del lato opposto alla sede stradale, offrendo al passante un colpo d’occhio che ha qualcosa d’insolito e di vagamente esotico, veneziano o fiammingo.

La maggior parte delle rogge, nel loro percorso cittadino — quella di via Grazzano, quella di via Gemona – erano state coperte qualche anno prima che noi fossimo in grado di avere dei ricordi, così come erano stati soppressi i due tram elettrici che conferivano un aspetto tanto caratteristico alla vita cittadina, il Tram Bianco per Tarcento, e il Tram Verde per San Daniele; eppure i tratti ancora scoperti, gli angoli caratteristici formati dalle rogge, come quello in Via Giovanni da Udine, e perfino gli ultimi mulini, alcuni ancora attivi, altri ormai fermi, sparsi nella periferia, attestavano che la città, pur non sorgendo sulle rive di un fiume navigabile, nondimeno all’acqua doveva la sua esistenza, grazie alla lungimiranza e alla tenacia dei patriarchi che l’avevano fatta derivare dal Torre-Natisone e dal Tagliamento; sull’acqua si era retta per secoli la sua economia, specie le manifatture; e perfino i ricordi più antichi e leggendari, come quello del lago esistente in illo tempore nel vastissimo Giardino Grande, ove c’era un drago che terrorizzava gli abitanti, avevano a che fare con l’acqua, nel bene o — come in quel caso – nel male. E l’acqua è anche fattore e simbolo di vita: imprime il vigoroso movimento alle macchine idrauliche, irriga e fa verdeggiare la campagna, permette la coltivazione dei giardini, accompagna il faticoso lavoro delle lavandaie, allieta e movimenta i giochi avventurosi dei ragazzi.

Riemerge dalla memoria quel lontano pomeriggio in via Cuneo, per esempio: la compagna di scuola dai bellissimi occhi viola, la cui casa era sfiorata dal canale di San Gottardo: per arrivare al portoncino, bisognava passare su un suggestivo ponticello e per un attimo, varcandolo, pareva di essere trasportati a Venezia, o forse a Bruges. Strana sensazione, in parte già provata per entrare nel panificio di via Piave, o all’istituto musicale Tomadini, oppure all’osteria Alla ghiacciaia, tutti lambiti dalle rogge e collegati alla strada mediante ponticelli. Quella volta, però, era un’abitazione privata, un’anonima villetta come tante di periferia, stile anni ’30 o ’40, in una strada dove non ci era mai capitato di passare prima, neanche una volta. Era dunque una novità assoluta: il piccolo ponte con la balaustra, l’acqua che correva sotto, veloce, con baldanza giovanile; la riva erbosa della strada protetta da un paracarro, e il profondo fossato che ricordava vagamente, sia pure in scala ridotta, quello d’un castello feudale, con le umide pianticelle che si arrampicavano direttamente sul muro della casa, e ciuffi di piante più grandi che emergevano da sotto il ponte; e le siepi e gli alberelli che dal piccolo giardino si affacciavano a incorniciare quella scena fluviale, un po’ insolita per chi vive in centro. Quanta acqua è passata da allora, sotto quel ponticello? Quanta è scesa dai monti e si è versata nel mare? Ed è sempre la stessa acqua?

Se non è la stessa, allora neppure noi siano gli stessi; se il tempo ha la capacità di mutare la natura delle cose, allora nulla è permanente, tutto è transitorio, fuggevole, ingannevole. Le cose passano, le persone passano, i ricordi passano, tutto finisce, tutto si perde, non rimane più nulla. Passano due o tre generazioni, passano due o tre secoli, due o tre millenni, due o tre milioni di anni, ed è come se il mondo di prima fosse stato inghiottito in una voragine, in un abisso di cui nessuno può neanche immaginare il fondo; è come se non fosse mai esistito. Chi ne conserva il ricordo? Chi rammenta le cose di ieri, quando le persone che le ricordavano non ci sono più? Tutto cambia, lentamente ma inarrestabilmente; le foreste diventano deserti e le isole diventano terraferma. Gli animali e le piante si avvicendano, mutano i paesaggi, mutano i loro abitanti, i quadrupedi, i pesci e gli uccelli; ogni tanto esplode un vulcano con straordinaria potenza, o precipita sulla terra un meteorite, e tutta la vita ne risente e ne è sconvolta; nubi di polvere avvolgono la terra, il clima si raffredda, i ghiacci avanzano, i mari si restringono. Anche il corso dei fiumi subisce radicali mutamenti, le montagne diventano valli e le vali diventano pianure; i mari diventano continenti e i continenti diventano mari; le conchiglie fossili vengono sollevate a tremila metri d’altezza, e le cime più alte sprofondano negli abissi oceanici. I pianeti s’inaridiscono e muoiono, le stelle si raffreddano e collassano, le galassie si allontanano e si disperdono, l’aspetto del cielo notturno muta radicalmente nel corso delle ere geologiche.

E tuttavia, si obietterà, l’uomo non è paragonabile agli altri enti; la sua essenza è spirituale: se pure tutto cambia, la realtà umana non cambia, noi possiamo contare sulla nostra continuità e quindi sulla nostra identità, sulla nostra permanenza. Le cose, tuttavia, non sono così semplici. L’essenza dell’uomo è spirituale, ma la sua natura è anfibia: la parte spirituale è innestata su una parte materiale; e la pare materiale è soggetta al mutamento come qualsiasi altra cosa. Ora, nemmeno la parte spirituale sfugge del tutto alle leggi del mutamento, proprio perché non è indipendente, ma è legata a quell’altra, dalla quale dipende, almeno nella dimensione della vita terrena. L’anima è incorruttibile, sussistente, indivisibile; ma è unita al corpo, e quest’ultimo gode di una breve esistenza, invecchia e muore. Anche ciò che è legato alla sfera materiale invecchia con lui: i ricordi, per esempio, che sono pur sempre ricordi di una vita legata al corpo, invecchiano e tendono a scomparire. E allorché i ricordi sono svaniti, chi può dire se noi siamo ancora noi? Noi siamo colui che dice io di se stesso; ma un io che perde una parte della propria storia, è un io che si divide in se stesso: e a quel punto, chi può dire che è lo stesso di prima? Perché noi e la nostra storia siamo un tutt’uno. Chi perde tutti i propri ricordi, come avviene – ad esempio – in seguito a certi eventi traumatici, è ancora se stesso, o è divenuto un altro? Se non ricorda più neppure di essere se stesso, è ancora se stesso? Se non sa più nulla della propria storia, se non è in grado di rispecchiare il mondo nei suoi pensieri, può essere una realtà permanente, lo si può ancora identificare con quell’io che di sé diceva: ecco, sono proprio questo?

Nonostante tutto, noi crediamo di sì. Ma non in virtù dell’uomo, creatura quanto mai fragile e labile, che un soffio di vento può ridurre all’impotenza, e un soffio di poco più forte può spegnere del tutto. Noi crediamo che ciascun’anima sia sempre se stessa, perché, anche se smarrisce la propria coscienza, c’è Qualcuno che non la scorda, non la dimentica, non la perde mai di vista, anzi ha sempre davanti a sé l’intero arco della sua esistenza, dal concepimento alla morte del corpo: e quel Qualcuno è l’Essere da cui tutto proviene e senza del quale nulla di ciò che è, sarebbe. È dall’Essere che anche noi veniamo, pertanto ci conosce perfettamente: non deve fare alcuno sforzo di memoria per riconoscerci; sa chi siamo, perché nell’Essere c’è solo il presente, tutto è presente: il passato e il futuro riguardano solo gli enti che si muovono nel tempo. Anzi si muovono perché esiste il tempo; ma dove il tempo non c’è, non si dà neppure il movimento. Vivere nel tempo significa invecchiare e morire: questa è la legge; per vivere, bisogna morire. Ma questo accade a chi si trova legato dalle catene del tempo. L’Essere è sciolto dal tempo perché è l’autore del tempo: le cose che esistono fisicamente, esistono nel tempo, perciò cambiano e smarriscono se stesse, il loro essere di prima. Ma le cose spirituali, quelle no: non cambiano, perché non sono avvinte dalle catene del tempo. L’Essere è l’Essere,: eterno presente senza passato, senza futuro; e anche la creazione, che è opera sua, ha un presente e un passato solo quanto a se stessa, cioè in senso relativo; in senso assoluto, ha solo presente, perché tutte le cose esistono perennemente nella mente divina. Certo, prima di venire create, non esistevano sul piano fisico; tuttavia esistevano in senso assoluto, perché Dio, che è l’Essere, le ha pensate da prima che il tempo esistesse, le conosceva prima ancora di crearle, le amava prima ancora che cominciassero a esistere materialmente.

E dunque noi, il nostro intero passato, tutta la sfera della nostra esistenza, e anche gli altri, le cose e le persone che hanno accompagnato la nostra vita, tutto è eternamente presente alla mente di Dio e tutto ritroveremo allorché, sciolti dal peso del corpo, potremo vedere con gli occhi dell’anima, che sono perfettamente trasparenti perché la materia non ne ostacola in alcuna parte la vista. Se anche noi ci scordassimo di noi stessi, Dio non si scorderebbe di noi; se ci scordassimo di ciò che siamo stati, Dio non lo scorderebbe; e se pure scordassimo le cose e le persone che sono state parte di noi, che hanno contribuito a fare di noi ciò che siamo diventati, nessuna di esse cadrà mai dalla mente di Do, per cui in Lui noi ci ritroveremo sempre, ritroveremo noi stessi e ritroveremo tutto quello che ci è appartenuto. Questo è un pensiero estremamente consolante, da un lato; ma, dall’altro, è anche un pensiero tremendamente serio, quasi pauroso. Nessuno di noi è come una foglia al vento; tutti abbiamo radici, un fusto, una cima: apparteniamo al mondo, e il mondo appartiene a noi: e a questo destino non possiamo sfuggire. Non possiamo scrollarci di dosso la nostra responsabilità, che è quella di essere parte di un mondo. La nostra vita è intrecciata con quella di mille e mille altri; e la loro, con la nostra. Di questa duplice relazione, nostra col mondo e del mondo con noi, nulla andrà perduto, né una lacrima, né un sorriso, perché tutto è eternamente presente alla mente di Dio. Sì: noi rivedremo il volto delle persone care, così come lo potremmo vere fin da ora, se non fossimo appesantiti dal corpo fisico, dai suoi pensieri e dai suoi sentimenti. Lo vedremmo scorrere sulla superficie dell’acqua, come ora vediamo l’acqua scorrere nei canali e nei fiumi e dirigersi verso il mare; così come, da bambini, abbiamo visto scorrere quell’acqua sotto i ponticelli e ci siamo chiesti se l’avremmo mai più rivista, se tutte le acque si perdono incessantemente oppure se sono sempre le stesse, se ogni singola goccia ritorna, se ci si può bagnare due volte nello stesso fiume e con ciò ritrovare anche se stessi, riconciliarsi con il passato e procedere con esso verso il futuro, restando uguali e fedeli a se stessi, custodi amorevoli di quello che è stato e, nello stesso tempo, viandanti coraggiosi con la faccia rivolta al domani. Però, allo stesso modo, rivedremo anche la faccia dei nemici, di quelli che ci fecero soffrire, di quelli che noi abbiamo fatto soffrire: rivedremo tutti, ritroveremo tutto, saremo a tu per tu con ogni singola goccia del fiume della nostra vita, senza che neppure una vada persa. E allora si vedrà se saremo capaci di confrontarci serenamente con il nostro io di un tempo, con i nostri pensieri e le nostre azioni; se avremo paura del nostro passato, e se ci vergogneremo di quel che abbiamo fatto, oppure no; se potremo guardare noi stessi, e gli altri, a testa alta. Sarà il momento della verità. Verremo giudicati; ma saremo noi stessi, in un certo senso, ad emettere il giudizio. La gioia o il raccapriccio dell’incontro con tutte le cose, le persone e le situazioni della nostra vita, anno dopo anno, giorno dopo giorno, ora dopo ora e minuto dopo minuto saranno l’equivalente d’un giudizio. Ciò che avremo perdonato sarà la nostra pace definitiva e ciò che non avremo perdonato sarà il nostro perenne tormento. Non potremo sfuggire a noi stessi, perché — per la prima volta — saremo del tutto senza veli, senza maschere, senza alcuna possibilità di finzione. Saremo restituiti alla nostra essenza più vera, quella che tanto spesso è così facole tenere celata agli altri; saremo posti a tu per tu con la sostanza delle nostre scelte, sfrondata di tutto ciò che è ininfluente o accessorio o casuale.

Noi costruiamo adesso, giorno per giorno, il nostro destino eterno: il giudizio non sarà altro che la conseguenza e il riflesso della nostra vita. Se, nel corso della nostra esistenza terrena, avremo iniziato a vedere, allora vedremo; se avremo iniziato a capire, allora capiremo; se avremo iniziato ad amare, allora saremo perfettamente felici, perché la felicità è il pieno e completo godimento di tutto ciò che è bello e meritevole d’essere amato. Chi o che cosa siamo noi, se non la nostra capacità di amare? Dio, che è l’Amore, per amore ci ha creati: saremo suoi figli se impareremo ad amare come Lui ci ha amati, del tutto disinteressatamente. Sappiamo amare in modo disinteressato? Allora non avremo vissuto invano; i nostri peccati saranno perdonati; il male che avremo fatto senza averlo voluto, verrà trasformato in bene. Questo, nessuno di noi può farlo in modo perfetto. Ma Dio, sì…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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