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23 Novembre 2019Era l’aprile del 1968 quando la casa editrice Cenisio di Milano, fondata sei anni prima e destinata a restare sulla scena una trentina d’anni, distribuiva nelle edicole il primo album a fumetti della serie di Tarzan, cui ne sarebbero seguiti, per la gioia dei giovani lettori dallo spirito avventuroso, altri centosettantatre, l’ultimo dei quali nel novembre 1980. Si trattava, inizialmente, di una proposizione al pubblico italiano delle storie a fumetti già apparse, qualche anno prima, negli Stati Uniti, ma nel corso degli anni sarebbero subentrati nuovi disegnatori, anche italiani, come Alberto Giolitti, Guido Zamperoni e Lino Jeva, tutte ispirate al leggendario re della giungla creato nel 1912 dalla fantasia dello scrittore Edgar Rice Burroughs (Chicago 1875-Los Angeles, 1950), autore di ben ventiquattro romanzi centrati su di lui, compresi due usciti postumi, dei quali solamente otto sono stati tradotti in italiano. Abbiamo già parlato di uno di questi romanzi, Tarzan the Untamed (Tarzan l’indomabile, 1920), ambientato nelle foreste dell’Africa, come tutti gli altri, ma al tempo della Prima guerra mondale, che vide la partecipazione di Tarzan al fianco dell’esercito britannico e contro le forze tedesche. La trasposizione a fumetti di questa storia si trovava proprio nel primo numero della collana italiana della Censio, nella versione originale disegnata dal bravissimo Russ Manning, che vi ha dispiegato le risorse della sua arte per raffigurare in maniera appassionante le figure degli ufficiali col casco coloniale, dei soldati e degli ascari con le loro armi (c’è anche un cecchino tedesco col suo fucile di precisione dotato di cannocchiale, e abbondano le mitragliatrici), del ferocissimo leone Num, incredibilmente addomesticato da Tarzan, dell’affascinante e disinvolta spia tedesca Fraulein Kircher e del giovane e ingenuo aviatore inglese che s’innamora perdutamente di lei. Ebbene, nello stesso albo era contenuta anche la storia che fa da prologo a tutte le altre, sempre coi disegni di Russ Manning e con i testi di Gaylord DuBois: L’infanzia di Tarzan; ed è di questa che vogliamo ora parlare.
Così presenta la storia il giornalista Luca Raffaelli (Roma, 6 giugno 1959), esperto di fumetti e animazione, nell’introduzione al volume: Edgar Rice Burroughs, Tarzan, nella collana I classici del fumetto di Repubblica (vol. 55, 2004, p. 11):
"L’infanzia di Tarzan" è stato presentato originariamente in America nel dicembre del 1965 dalla casa editrice K. K. Publishing ma non è certo la prima riduzione a fumetti del racconto di esordio dell’uomo della giungla. Dal 7 gennaio al 16 marzo 1929 Joseph H. Neebe e Hal Foster ne avevano proposto una loro versione con illustrazioni commentate da didascalie, in una forma "primitiva" di fumetto; e nel corso dei decenni, con l’alternanza degli editori che si sono occupati dell’eroe, altre ne sono apparse. Oltre alla versione firmata da Gaylord DuBois e Russ Manning, che presentiamo in questa sede, ricordiamo quella di John Celardo, serializzata nel 1962; quella di Manning, presentata fra il 1969 e il 1970; quella di Joe Kubert, uscita fra l’aprile e il luglio 1972, sul Tarzan della National/DC Comics; e per finire quella della Marvel Comics del luglio 1977, a firma di Roy Thomas e John Buscema.
La storia dell’infanzia di Tarzan ha inizio al largo delle coste africane a bordo d’un brigantino, il Fuwalda, che stava compiendo la traversata, trasportando merci lungo una rotta imprecisata. Pur non essendo una nave passeggeri, vi erano anche due viaggiatori di riguardo: una giovane coppia inglese, John Clayton e sua moglie Alice, lord e lady Greystoke; e la donna era in stato interessante. Ma era destino che la nave non dovesse mai giungere a destinazione: la durezza del capitano aveva provocato un ammutinamento e una parte dei marinai, guidati da un certo Black Michael,era insorta; gli altri, rimasti fedeli al comandante, si opposero con le armi in pugno, e così la nave divenne il teatro di una lotta selvaggia. La vittoria rimane ai rivoltosi e i marinai inferociti e ormai ebbri di sangue avrebbero voluto gettare a mare anche i passeggeri, in pasto agli squali, ma il loro capo, Black Micharl, l’unico che ancora conservasse un briciolo di umanità, impedì loro di farlo e dispose che i due aristocratici venissero sbarcati sulla costa più vicina. Poco dopo i due sposi, angosciati, coi loro bagagli e poche altre cose, osservavano dalla riva di quel luogo sconosciuto, certo infestato dalle bestie feroci, la nave che si allontanava per sempre a vele spiegate, portandosi via ogni speranza di salvezza. Tuttavia non si persero del tutto d’animo e dopo un mese di duro lavoro riuscirono a costruire una baracca di legno, che offriva almeno un po’ di riparo dalle intemperie e dagli animali selvaggi. I duri sforzi sostenuti e il clima ingrato non tardarono però a intaccare le loro forze e la loro salute. Lady Alice diede alla luce un figlio maschio, ma dopo pochi mesi morì per gli stenti e le febbri. Rimasto solo e disperato, col bambino che piangeva nella culla per la fame, lo sventurato lord Greystoke non sapeva che fare, quando nella capanna irruppe Kerchak, un enorme e ferocissimo gorilla maschio, che, dopo una breve lotta, ebbe ragione dell’uomo. Frattanto la sua femmina, Kala, che da poco aveva perso il suo piccolo, avvicinatasi alla culla e visto il bambino, fu sopraffatta dall’istinto materno, lo prese fra le braccia e lo portò via con sé. Il piccolo, che fino a un momento prima piangeva a gola spiegata, fra le braccia dell’animale si sentì finalmente al sicuro e si calmò del tutto; e Kala, da quel momento, fu per lui la più tenera delle madri, piena di attenzioni e di sollecitudine.
Così ebbe inizio l’infanzia di quel piccolo orfano che, allevato dalle scimmie, fu da esse chiamato Tarzan, che nella loro lingua significa "dalla pelle bianca": un’infanzia libera e felice, nella quale egli apprese e sviluppò quella prodigiosa agilità e quella forza che più tardi, divenuto adulto, gli sarebbero state tanto utili. Ma alle qualità fisiche il ragazzo univa una straordinaria intelligenza, che gli era d’immenso vantaggio nelle dure circostanze della lotta per la vita. Imparò a temere gli artigli del leone e fece amicizia con l’elefante; e vide una misteriosa costruzione in legno, dalla quale le sue amiche scimmie gli raccomandavano di star lontano. Un giorno, però, la curiosità fu più forte di ogni avvertimento e il ragazzo decise di entrarvi ugualmente. La capanna era piena di oggetti per lui sconosciuti; c’erano anche due scheletri, ma lui, abituato allo spettacolo della morte, non vi fece gran caso. Si concentrò invece su un libro illustrato per bambini che conteneva degli strani segni che lo affascinarono e lo trattennero a lungo; trovò anche un coltello, arma che non conosceva e con la quale si tagliò un dito, prima di capire come andava maneggiata. Rapito dall’atmosfera che regnava in quel luogo, il giovinetto perse la nozione del tempo e quando uscì erano ormai calate le tenebre, e le altre scimmie se n’erano andate via, lasciandolo solo. Per la prima volta si trovava a dover contare solo e unicamente su se stesso, nella notte africana densa di pericoli, con la sola difesa di quel coltello trovato nella capanna. Ed ecco che a un tratto dalle profondità della foresta emerse il terribile gorilla Bogan, il terrore di tutti gli altri animali, che si scagliò su di lui e lo avvinse nel suo abbraccio mortale. Mentre rotolavano a terra, istintivamente il piccolo conficcò il "lungo dente" nel corpo della bestiaccia, e dopo qualche istante sentì che la stretta si allentava e che il suo mostruoso nemico aveva cessato di vivere. Kala, frattanto, aveva udito l’urlo del gorilla ed era corsa verso la capanna, tremante di paura per il suo figlio adottivo: lo trovò e lo raccolse svenuto e tutto insanguinato, ma vittorioso. Passarono ancora alcuni anni e il giovane uomo cresceva sempre più agile e forte; aveva imparato a intrecciare le liane e si spostava con esse da un albero all’altro, con prodigiosa velocità e destrezza. Imparò a fabbricare delle ingegnose trappole nella foresta, e una volta riuscì perfino a catturare un leopardo. Ma non aveva scordato quello strano libro pieno di figure e di segni: a forza di studiarlo, grazie alla sua notevole intelligenza aveva compreso che i segni avevano un significato e così, tutto solo, senza alcun maestro, Tarzan a diciotto anni imparò a leggere e a scrivere nella lingua dei suoi avi. Anche se faceva il bagno col suo amico elefante e considerava una scimmia come sua madre, era e restava un uomo civile, intelligente, istruito, e al tempo stesso prestante e di nobile aspetto.
Un giorno, mentre Tarzan era lontano dalla sua tribù, Kala venne sorpresa, mentre cercava cibo, da un guerriero di nome Kulonga, che la uccise trafiggendola con una freccia. Quando giunse sul posto, chiamato dalle altre scimmie, Tarzan emise un urlo pauroso e giurò vendetta, sul corpo esanime di Kala, contro la malvagità umana. Quella sera stessa, non visto, egli scorse Kulonga nella foresta, ed era il primo essere umano che vedeva in vita sua: lo poté identificare solo perché era simile a quelli raffigurati nel libro che aveva preso nella capanna. Vide il guerriero uccidere un cinghiale con la freccia scoccata dal suo arco e comprese che a quel modo egli aveva ucciso anche Kala. Tarzan provò l’istinto di scagliarsi subito contro l’assassino di sua madre, ma si trattenne, perché vide quell’uomo intento ad una operazione per lui estremamente interessante: accendere il fuoco. Tarzan finora aveva visto solo il fuoco acceso dai fulmini; ora vedeva e apprendeva come si fa a produrlo con le proprie mani. Più tardi, mentre Kulonga era addormentato, Tarzan gli sottrasse l’arco e le frecce e le nascose in un luogo a lui noto, contando di servirsene in seguito; quindi iniziò la vendetta, lanciando delle grida per terrorizzare il suo nemico. Disarmato, solo, Kulonga si mise a correre inseguito da quelle urla che provenivano dall’alto, finché Tarzan, da un ramo, lo prese al laccio e calandosi fulmineamente per mezzo di una liana, lo trafisse col suo coltello. Kala era vendicata. Tarzan prese la pelle di pantera dell’uomo e se la cinse attorno ai fianchi: quello sarebbe diventato il suo indumento, perché, fino a quel momento, era sempre stato nudo: paradossalmente, lo scontro mortale con quel guerriero gli aveva dato l’ultimo tocco per diventare quel che poi sarebbe sempre stato: un uomo selvaggio come un animale della giungla, ma nello stesso tempo un uomo civile, anche nell’aspetto. Seguirono parecchie avventure. Tarzan aveva imparato, osservando di nascosto un villaggio indigeno, il segreto per rendere le frecce avvelenate. Sostenne poi una lotta drammatica con una leonessa e in seguito si trovò faccia a faccia con Kerchak, il più feroce di tutti i gorilla, che riuscì a uccidere col suo coltello: senza saperlo, aveva vendicato anche suo padre, lord Greystoke. Una forza misteriosa lo aveva indotto anche a mettersi al collo un ritratto trovato nella capanna, che raffigurava un uomo verso il quale provava un’istintiva tenerezza: era John Clayton. Un giorno vide ancorato presso la riva un veliero, e una scialuppa che si dirigeva a terra: dei marinai sbarcarono cinque persone, fra le quali una bella fanciulla bionda, e le abbandonarono dopo averle derubati dei loro beni. Tarzan, che assisteva alla scena nascosto fra i rami degli alberi, non poteva saperlo, ma quella era quasi una replica del dramma vissuto più di vent’anni prima dai suoi genitori. L’istinto gli diceva che doveva proteggere quelle persone, e in particolare la leggiadra fanciulla bionda, verso la quale sentiva una misteriosa attrazione…
Qui ci fermiamo, per non sciupare al lettore il piacere di scoprire da sé cosa accadde in seguito. I disegni dalla linea nitida e "pulita" di Russ Manning, i testi ben curati di Gaylord DuBois sono una festa per gli occhi e per la mente del giovane lettore. Anche se non ci fosse stato il cinema a familiarizzare i ragazzi degli anni ’60 con la figura del mitico re delle scimmie (ne vogliamo ricordare uno fra i tanti che si distingue, a nostro parere, per il ritmo incalzante, Tarzan’s Greatest Adventure; titolo italiano: Il terrore corre sul fiume, di John Guillermin, del 1959, con Gordon Scotto nei succinti panni del protagonista, e Anthony Quayle in quelli di Slade, il "cattivo" di turno), sarebbe bastato questo bel fumetto, apparso in Italia in 1968, per entusiasmare i ragazzini e farli diventare dei fedeli lettori. Certo, non mancano le incongruenze, né le ingenuità, nella storia creata da E. R. Burroughs; ma l’intelligenza e il buon gusto del disegnatore hanno fatto il miracolo di farle scivolare via, mentre quel che resta è una storia solida, corposa, affascinante e non priva di momenti lirici o situazioni commoventi. Si noti che sono tutti sentimenti positivi per un giovane: lo stupore, l’ammirazione, il gusto dell’avventura, il senso della giustizia, la partecipazione alle pene e alle lotte altrui. In un certo senso, fumetti come questo concorrono alla sana educazione di un bambino quanto, e forse più, di una lezione astratta sui banchi della scuola. Purtroppo il 1968 ha segnato l’inizio di una rivoluzione culturale che ha letteralmente spodestato la morale tradizionale e sovvertito radicalmente la stessa educazione: basta con i buoni modelli dei genitori e dei nonni, avanti i contro-eroi da strapazzo, i cantanti urlatori e preferibilmente drogati, e una massa irrequieta di studenti svogliati ma, in compenso, adoratori di Marx, Lenin ed Enesto Che Guevara. La società italiana stava entrando nel tunnel: un anno dopo, le esplosioni alla Banca dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, avrebbero inaugurato sanguinosamente la stagione del terrorismo. Altro che Tarzan e i buoni sentimenti; altro che il vagheggiamento di una vita più autentica, più sana, in armonia con la natura. Ora i giovanotti e le ragazze avevano ben altro in testa: i collettivi, gli scioperi, gli scontri di piazza, la lotta di classe. La follia stava avanzando a gran passi. Col pretesto della giustizia sociale…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels