Pastori infedeli, convertitevi!
17 Novembre 2019Tutti i nodi stanno arrivando al pettine
19 Novembre 2019Sono tre le cose di cui abbiamo bisogno in questo momento storico, se non siamo rassegnati al nostro destino di pecore condotte al macello da pastori infedeli e vigliacchi, ben decisi a consegnarci, per vile interesse di soldi e di carriera, ai lupi feroci che esercitano una signoria nascosta (ma neanche tanto nascosta, a ben vedere) su tutto e tutti. E poiché ogni cosa, ormai, orienta la nostra vita nel senso della rassegnazione, della passività e della inconsapevolezza, si tratta anche di tre grandi fatiche: se fatica è compiere un lavoro che richiede uno sforzo, e se è vero che lo sforzo, oggi, appare qualcosa di anacronistico, perché le macchine e la tecnologia ci hanno abituati al minimo della fatica sul piano materiale, mentre un’educazione (o una contro-educazione?) lassista e permissiva ci ha abituati a non fare alcuna fatica sul piano spirituale, e, se per caso la vediamo profilarsi in lontananza, ad allontanarci in tutta fretta, per mettere la maggiore distanza possibile fra lei e noi.
La prima "fatica" che dobbiamo compiere, se vogliamo spezzare le catene della nostra schiavitù, è renderci conto dei processi che hanno portato le classi dirigenti, e in esse va compresa anche la gerarchia cattolica, a tradire il mandato fiduciario ricevuto dalla gente e a farsi strumento del grande potere finanziario, affiliato all’alta massoneria e al satanismo, per attuare, contro di essa, i suoi oscuri disegni di dominio mondiale; e le masse, a loro volta, a lasciarsi ingannare, tradire e vendere con tanta facilità, obbedendo docilmente all’agenda di quei poteri che le vogliono sfruttare, asservire e, in ultima analisi, distruggere, moralmente se non materialmente. Dunque, la prima virtù di cui abbiamo bisogno è la saggezza; il contrario della superficialità, del conformismo e, diciamolo pure francamente, della stupidità, che caratterizzano la vita dell’uomo massificato, il quale ha rinunciato a essere persona e si contenta di essere un tubo digerente. Il guaio è che nella società di massa, è molto più facole essere superficiali, conformisti e stupidi; anzi non solo è più facile, ma è quasi obbligatorio, nel senso che il rifiutarsi di esserlo comporta uno sforzo notevole, sia sul piano psicologico che si quello morale e persino fisico.
La seconda "fatica" è quella di decidere di non sottomettersi, di reagire, di rifiutare il ruolo delle vittime inconsapevoli: ed è una fatica non solo perché implica la decisione di andare controcorrente e di adottare stili di vita e modi di pensare diametralmente opposti a quelli dominanti, ma anche perché comporta, inevitabilmente, la solitudine e, peggio, l’incomprensione e l’ostilità non solo del sistema, che non tollera la ribellione degli schiavi, ma anche dei compagni di schiavitù e, non di rado, di amici e familiari i quali non capiscono, o piuttosto non vogliono capire e quindi si rivoltano contro colui che ha osato alzare la testa. Credi forse di essere il solo ad aver capito tutto?, gli diranno, con un misto d’irrisione e di compatimento. Ma non lo vedi che stai diventando paranoico? Vedi il male dappertutto, i trabocchetti dappertutto; non ti va bene niente, rifiuti anche le cose più innocenti (innocente, ad esempio, la televisione!); per colpa tua la nostra famiglia si sta isolando, i nostri figli si sentono diversi, i compagni di scuola li prendono in giro! Dunque, la seconda virtù è il coraggio civile.
La terza "fatica" è quella di attuare concretamente dei comportamenti che segnino una rottura con la nostra precedente sottomissione; che promuovano e testimonino la nostra effettiva emancipazione; che ci restituiscano la fierezza e l’orgoglio di essere persone, di riappropriarci della nostra storia, della nostra tradizione e della nostra identità; che ci restituiscano responsabilmente al territorio in cui viviamo e col quale formiamo un tutto unico, che un tempo si chiamava "patria", mentre oggi il potere globale vorrebbe destrutturarlo e ridurlo a non-luogo, a società aperta, a spazio anonimo e intercambiabile, totalmente artificiale e totalmente slegato dalla storia di coloro che vi abitano, che vi hanno le radici, e che da esso traggono un preciso senso di appartenenza. E tutto questo richiede la virtù della volontà.
La volontà è frutto del carattere, ma anche dell’esercizio, ed è sorretta dall’insieme dei valori e della vita morale della persona. Potremmo definirla come l’uso proporzionato delle proprie energie nel perseguimento razionale e ordinato di un fine, caratterizzato dalla perseveranza e dalla capacità di non scoraggiarsi di fronte agli ostacoli. A sua volta, essa si alimenta dalla vita morale della persona, perché è lo strumento per mettere in pratica delle scelte, e le scelte sono espressione della coscienza morale. Se non vi è coscienza morale, non vi sono scelte nel senso vero della parola, e l’individuo vive la propria vita alla giornata, prendendo a casaccio una strada piuttosto che un’altra, semmai scegliendo sempre la più facile e senza mai porsi la questione degli scopi e dei fini dell’esistenza. Fino a qualche decennio fa la volontà, che è anche una conquista, veniva coltivata dagli educatori e rafforzata nell’animo dei giovani, senza disdegnare di far ricorso a qualche castigo e trasmettendo sempre l’idea che sacrifici e difficoltà fanno abitualmente parte della vita umana, se in essa si vuol raggiungere qualcosa di buono. Poi, però, a partire dagli anni ’60 del Novecento, ha cominciato a farsi strada un’altra linea educativa, secondo la quale bisogna alleggerire il bambino da ogni responsabilità, scioglierlo dal dovere, puntare sulla sua libertà e spontaneità e quindi rimuovere ogni ostacolo dal suo cammino ed evitargli, per quanto possibile, qualsiasi rimprovero e qualsiasi fatica, cose che potrebbero risultare per lui traumatiche. E siccome la volontà è paragonabile alla memoria, nel senso che se non la si esercita finisce per indebolirsi e decadere, così le ultime generazioni hanno risentito di un grave indebolimento della volontà e di una sua contrazione progressiva.
In un libro che una volta si dava da leggere ai ragazzi e ora non più, Cuore, di Edmondo De Amicis, la volontà pedagogica dell’Autore si manifesta attraverso l’esaltazione o la censura nei confronti di comportamenti concreti: vengono esaltate le virtù che rendono l’uomo maturo e responsabile, e fra esse la volontà; mentre vengono mostrati i drammatici effetti delle qualità negative, come l’egoismo e l’accidia (si veda il racconto mensile Sangue romagnolo). Alla data del 28 dicembre, Enrico, il protagonista del diario, delinea il seguente ritratto del suo compagno di classe Stardi:
C’è Stardi, nella mia classe che avrebbe la forza di fare quello che fece il piccolo fiorentino [il protagonista del racconto mensile intitolato "Il piccolo scrivano fiorentino"]. Questa mattina ci furono due avvenimenti alla scuola: Garoffi, matto dalla contentezza, perché gli han restituito il suo album, con l’aggiunta di tre francobolli della repubblica del Guatemala, ch’egli cercava da tre mesi; e Stardi che ebbe la seconda medaglia. Stardi, primo della classe dopo Derossi! Tutti ne rimasero meravigliati. Chi l’avrebbe mai detto, in ottobre, quando suo padre lo condusse a scuola rinfagottato in quel cappottone verde, e disse al maestro in faccia a tutti: – Ci abbia molta pazienza perché è molto duro di comprendonio! — Tutti gli davan della testa di legno da principio. Ma egli disse: – O schiatto o riesco, – e si mise per morto a studiare, di giorno, di notte, a casa, in iscuola, a passeggio, coi denti stretti e coi pugni chiuso, paziente come un bove, ostinato come un mulo, e così, a furia di pestare, non curando le canzonature e tirando calci ai disturbatori, è passato innanzi agli altri, quel testone. Non capiva un’acca di aritmetica, empiva di spropositi la composizione, non riusciva a tener a mente un periodo, e ora risolve i problemi, scrive corretto, e canta la lezione come un artista. E s’indovina la sua volontà di ferro a veder com’è fatto, così tozzo, col capo quadro e sena collo, con le mani corte e grosse e con quella voce rozza. Egli studia perfin nei brani di giornali e negli avvisi dei teatri, e ogni volta che ha dieci soldi si compera un libro: s’è già messo insieme una piccola biblioteca, e in un momento di buon umore si lasciò scappar di bocca che mi condurrà a casa a vederla. Non parla a nessuno, non giuoca con nessuno, è sempre lì al banco coi pugni alle tempie, fermo come un masso, a sentire il maestro. Quanto deve aver faticato, povero Stardi! Il maestro glielo disse questa mattina, benché fosse impaziente e di malumore, quando diede le medaglie: – Bravo Stardi; chi dura la vince. — Ma egli non parve affatto inorgoglito, non sorrise, e appena tornato al banco con la sua medaglia ripiantò i pugni alle tempie e stette più immobile e più attento di prima. Ma il più bello fu all’uscita, che c’era ad aspettarlo suo padre, – un flebotomo, – grosso e tozzo come lui, con un faccione e un vocione. Egli non se l’aspettava quella medaglia, e non ci voleva credere, bisognò che il maestro lo rassicurasse, e allora si mise a ridere di gusto e diede una manata sulla nuca al figliolo, dicendo forte: – Ma bravo, ma bene, caro zuccone mio, va’! — e lo guardava stupito, sorridendo. E tutti i ragazzi intorno sorridevano, eccettuato Sardi. Egli ruminava già nella cappadoccia la lezione di domani mattina.
Senza dubbio sono molte le cose che non possono piacere, in questo brano di prosa, ai nostri bravi educatori e pedagogisti politicamente corretti. Tanto per cominciare, troverebbero che Stardi, isolandosi dal resto della classe per concentrarsi nello studio, si comporta in maniera asociale; che non è inclusivo, né vuol lasciarsi includere; che la classe, se gli altri facessero come lui, diverrebbe un alveare dove ogni ape s’interessa solo del proprio lavoro e nessuno s’interessa degli altri. Strano discorso, ci sia concessa la parentesi, in bocca a quegli stesi inclusivisti e buonisti che predicano tutti i santi giorni le meraviglie dell’immigrazione e della susseguente integrazione: quelli che non si sono mai curati di sapere che nessun islamico si converte mai al cristianesimo per l’ottima ragione che chi lo volesse fare, incorerebbe automaticamente in una sentenza di morte: perché è così che trattano gli apostati nell’islam, ma guai a dirlo in giro, è questa la frontiera invalicabile dei discepoli di don Milani con tutti i loro I care, me ne importa; mentre pare che per i cattolici apostatare sia la cosa più bella del mondo, e il clero stesso ne dà l’esempio. Ma la ragione vera della antipatia, dell’avversione antropologica, dell’insofferenza che si scatena nei progressisti di qualsiasi marca e sfumatura di fronte a un atteggiamento come quello di Stardi è di matrice ideologica: Stardi è un secchione perché agisce come un piccolo borghese, egoista e individualista; non si preoccupa degli suoi compagni, ossa del "popolo": bada agli affari suoi e questo è il meccanismo del cripto-capitalismo. Domani, uscito dalla scuola o dall’università, sarà un capitalista in potenza pronto a scattare, a gettarsi avidamente sull’obiettivo del proprio profitto e così diverrà un nemico del popolo. A questo motivo se ne aggiunge un altro, psicologico: Stardi è uno che fa da solo, che non assume atteggiamenti vittimistici, che non incolpa gli altri, a cominciare dagli insegnanti, dei suoi risultati scadenti, ma se la prende solo con se stesso, lavora su se stesso, si sforza in ogni modo di migliorare e stesso, la sua attenzione, la sua memoria, la sua intelligenza: in altre parole, viene a scuola per imparare e quindi per studiare. Mentre ai progressisti piacciono gli studenti che a scuola ci vengono per dialogare coi professori, per contestare le ingiustizie didattiche, per esigere di poter decidere da soli se la loro preparazione è adeguata oppure no (col sei politico, ad esempio), e in ultima analisi per dar la pagella agli insegnanti e non per riceverla. Tipico atteggiamento da figli di papà che non avrebbero un vero bisogno di andare a scuola, perché potrebbero benissimo farsi mantenere a vita; ma atteggiamento, secondo l’ottica progressista, positivo ed encomiabile, perché denota sensibilità sociale, desiderio d’inclusione, pensiero critico e così via. Perciò quelli come Stardi sono nemici, e nemici di classe. Brutta razza: la razza dei futuri padroni; peggio: dei futuri padroncini, perché in fondo sono figli del popolo e aspirano solo a fare la scalata sociale, tradendo i loro compagni di classe. E lo si vede, infatti, che gli intellettuali progressisti e i politici ex comunisti si trovano cento volte più a loro agio coi grandi capitalisti, coi capitani d’industria e i banchieri, che non coi piccoli imprenditori, gli artigiani e i piccoli commercianti: lo si vede tutti i giorni. Per un Marchionne che si porta all’estero la FIAT, gli stabilimenti, il lavoro e pure la sede legale, quindi i proventi fiscali, non fanno una piega; ma quando si tratta di dare la caccia all’evasione fiscale, non è con la FIAT o con qualche altra multinazionale che se la prendono, bensì coi panettieri, i baristi, gli idraulici e i muratori… tutta gente pericolosissima, la cui elusione fiscale sta riducendo l’Italia in miseria. Intanto i grandi capitalisti possono portare nelle banche estere capitali colossali: ma a quelli nessuno fa domande scomode e nessun magistrato di sinistra si sogna di aprire delle inchieste.
Pertanto, quel che ci manca al presente è la forza di volontà. Se anche si riesce a comprendere quali siano i veri termini delle questioni economiche, politiche e sociali e se anche si carezza il desiderio di ribellarsi al proprio destino di pecore da macello, senza la forza di volontà, che è la spina dorsale del carattere, non si può fare nulla e bisogna rassegnarsi a essere impotenti e sottomessi. È da lì pertanto che si deve ripartire. Genitori, insegnanti e sacerdoti devono tornare a parlare della volontà; ma siccome verba movent, exempla trahunt, bisogna che mostrino, nella sfera concreta, di avere la volontà necessaria a prende in mano la propria vita. Altro che insinuare nei bambini il dubbio sulla propria identità sessuale: bisogna inculcare in loro il concetto: Voglio essere migliore, quindi posso.
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