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1940: fu il blocco inglese a spingere l’Italia in guerra

Ne abbiamo parlato più volte, ma ci sembra necessario insistere e tornare ancora sul tema, perché la versione imposta dai vincitori è dura a morire e tuttora il grande pubblico pensa che Mussolini, con una mossa avventata e ingiustificata, gettò l’Italia nel folle azzardo di un’avventura militare da cui sarebbe uscita disfatta (cfr. specialmente i nostri articoli: Ma è proprio vero che l’Italia avrebbe potuto tenersi fuori dalla seconda guerra mondiale?, pubblicato sul dito di Arianna Editrice il 12/03/10; Fu il ricatto inglese, nel 1940, a spingere l’Italia in guerra?, sempre su Arianna, il 04/11/10; Londra voleva la guerra cin l’Italia fin dal 1938 e intendeva colpirla nel Dodecaneso, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 21/11/17; e L’egoismo delle plutocrazie spinse Mussolini nell’abbraccio mortale di Hitler, sempre per l’Accademia Nuova Italia il 31/12/17). Non è vero che Mussolini avrebbe potuto tranquillamente restare neutrale e rimanere al balcone mentre si giocava la partita decisiva della Seconda guerra mondiale; se nel 1914-15 Salandra aveva avuto pochissimi margini di manovra per conservare la neutralità – e ormai lo riconoscono quasi tutti gli storici – Mussolini nel 1939-40, già formalmente alleato della Germania mediante il patto d’Acciaio del 22 maggio 1939, ne aveva ancora meno.

Fra le non molte voci almeno parzialmente obiettive che hanno ricostruito tali vicende spicca quella di uno storico francese, Pierre Renouvin (Parigi, 9 gennaio 1893-ivi, 7 dicembre 1974), che fu docente alla Sorbona e direttore della Revue historique, il quale si stacca, almeno in pare, dal coro del politicamente corretto e riconosce il peso – sia pure, secondo lui, non determinante — che ebbe, nel determinare la decisone di Mussolini di rompere gli indugi ed entrare in guerra nella primavera del 1940, il blocco navale delle materie prime da parte della Francia e della Gran Bretagna, blocco che oltretutto violava lo spirito e la lettera di una esplicita rassicurazione in contrario fornita in precedenza da Londra (da: P. Renouvin, Le crisi del secolo XX, 1929-1945; tiolo originale: Histoire des Relations Internationales (4 tomes), Paris, Librairie Hachette, 1954; traduzione dal francese di Paolo Pinna, Fiorenze, Vallecchi, 1961, pp. 282-3; 284-7; 285-7):

Durante le prime cinque settimane della guerra europea Mussolini spera che il conflitto sia di breve durata. Dopo la rovina della Polonia egli pensa che la Francia e la Gran Bretagna riconosceranno la loro incapacità di forzare la linea Siegfried e che il blocco, considerate le risorse che la Germania trova nell’URSS, risulti efficace: con ogni probabilità, quindi, le potenze occidentali cesseranno la guerra prima ancor di averla impegnata sul serio e si rassegneranno ad accettare una revisione parziale dello status territoriale; nel negoziato che così si aprirà il governo italiano avrà modo di fare da mediatore. È questo il senso di un discorso tenuto il 23 settembre 1939: l’Europa, dichiara Mussolini, non può ancora considerarsi in guerra; la grande prova potrà essere evitata se le potenze occidentali consentiranno ad abbandonare "le posizioni condannate dalla storia e dal dinamismo dei popoli" e accetteranno di negoziare. L’Italia non rimarrà estranea alla sistemazione della pace.

Il 10 e il 12 ottobre quando i governi francese e britannico respingono con un categorico rifiuto l’offensiva di pace tedesca, queste previsioni ricevono una smentita e si delinea la prospettiva di una lunga guerra. Il 7 dicembre Mussolini fa riaffermare dal Gran Consiglio e il 14 dicembre in un discorso del conte Ciano la politica di non-belligeranza armata. (…)

Finalmente, il 10 maggio 1940, quando si inizia la grande battaglia, Mussolini comincia a pensare che l’intervento italiano non può essere ritardato oltre: è una questione di dieci-quindici giorni, dice all’ambasciatore tedesco. E al capo di stato maggiore generale che gli sottolinea, ancora una volta, le deficienze dell’esercito, risponde che tali deficienze sono prive di importanza, poiché le operazioni dureranno al massimo "alcune settimane". Attenderà tuttavia il 26 maggio, cioè il momento in cui gli eserciti alleati saranno divisi in due tronconi, per fissare la data dell’intervento. (…)

Le decisioni italiane sono dunque strettamente legate alla carta della guerra e la sola preoccupazione del Duce è di saper riconoscere "il momento buono". L’intervento, dice ai suoi collaboratori, il 25 maggio, dovrà coincidere col "crollo" degli eserciti franco-inglesi. Considerata la debolezza delle forze armate italiane bisognerà agire solo quando la vittoria tedesca sarà erta, ma non ancora totale, giacché allora i benefici che l’Italia potrebbe ottenere sarebbero minori.

Ma queste constatazioni, valide senza dubbio per lo studio delle ultime settimane della non-belligeranza italiana — a partire dal momento in cui gli eserciti tedeschi prendono l’iniziativa strategica -, valgono anche a spiegare il comportamento del Duce a metà marzo 1940? Allorché la "guerra a ovest" doveva ancora cominciare Mussolini dichiara ai suoi interlocutori tedeschi che entrerà in guerra a fianco del Reich, e pur sena precisare la data lascia loro capire che tale intervento non sarà differito per molto tempo: è fuori causa ormai l’intervallo di tre anni che il governo italiano aveva dichiarati necessario al momento di concludere il Patto d’Acciaio, intervallo che il conte Ciano aveva nuovamente invocato nel suo discorso del 14 dicembre 1939. Che cosa può aver determinato l’attuale decisione italiana?

Su tale decisione ha senza dubbio influito la politica anglo-francese del blocco. All’inizio del dicembre 1939 il governo inglese aveva promesso il libero transito per il carbone che la Germania forniva, via mare, all’Italia; ma nel febbraio 1940 chiese una contropartita: la fornitura di armi e la vendita di aerei alla Gran Bretagna. Questa condizione fu respinta dal governo italiano perché inconciliabile con la sua solidarietà morale con la Germania. Il gabinetto britannico prese allora la decisione di porre termine, a partire dal 1° marzo, alla tolleranza finora concessa; con ciò si proponeva di far sentire all’Italia a quali pericoli andava incontro se non fosse rimasta neutrale. Il 4 marzo il governo di Roma protestò contro questa misura: la sua "natura era tale da turbare e compromettere le relazioni politiche ed economiche fra l’Italia e la Gran Bretagna". Il governo tedesco intervenne immediatamente e con un accordo del 10 marzo promise all’Italia che avrebbe provveduto per ferrovia ad assicurare i futuri invii di carbone, per un totale di nove milioni di tonnellate ogni anno. Così la solidarietà morale italo-tedesca fu rafforzata dalla solidarietà economica. Tuttavia a stampa italiana non cercò di aggravare l’affare: si limitò a pubblicare senza il minimo commento la nota di protesta indirizzata alla Gran Bretagna e continuò a proclamare la non-belligeranza italiana. Siffatta moderazione fa pertanto pensare che la pressione economica inglese non sia stata il motivo determinante del comportamento del Duce.

Il movente vero bisogna piuttosto cercarlo nella situazione militare. Ribbentrop e Hitler annunziano al governo italiano — il primo il 10, il secondo il 18 marzo — che la "grande offensiva verso ovest" è ormai imminente, e chiedono l’intervento dell’Italia, pur lasciando ad essa la facoltà di scegliere il momento. Ecco dunque che il Duce si trova costretto a dover rinunziare alla tattica dell’attesa. Nei colloqui del Brennero [18 marzo] egli tenta di ottenere che l’offensiva sia ritardata, dato che la marina e ‘aviazione italiane, ossia il meglio delle forze armate di cui dispone, hanno ancora bisogno di qualche mese per completare i loro preparativi. Dinanzi al rifiuto di Hitler, con una franchezza perlomeno sconcertante, Mussolini dichiara che entrerà senz’altro nel conflitto nel caso di "una vittoriosa avanzata" degli eserciti tedeschi, ma rimarrà in attesa se i loro progressi saranno lenti.

Riassumendo. Il 21 marzo il governo tedesco presenta a quello polacco un pacchetto di richieste per regolare la questione di Danzica, del Corridoio e tutte le altre vertenze fra i due Paesi, che viene respinto. Il 31 marzo il premier britannico Chamberlain, dopo essersi consultato con Parigi, pronuncia un discorso in cui garantisce l’appoggio della Gran Bretagna e della Francia alla Polonia in caso di attacco tedesco, promessa che si tradurrà in un formale patto militare il 25 agosto. Il 3 aprile Hitler emana una direttiva segreta allo Stato Maggiore per preparare una campagna contro la Polonia, e il giorno successivo convoca l’ambasciatore polacco infornandolo che le proposte tedesche non sono più negoziabili. Il 22 maggio 1939 Ciano e Ribbentrop firmano il Patto d’Acciaio italo-tedesco che prevede l’entrata in guerra automatica dei due contraenti, l’uno al fianco dell’altro, senza specificare se la guerra sarà offensiva o difensiva; verbalmente, Ciano chiede un lasso di tempo di tre anni perché l’Italia possa riorganizzare le proprie forze armate, e il collega acconsente. Il 23 agosto 1939 Ribbentrop e Molotov firmano il patto di non aggressione tedesco-sovietico, che contempla anche la spartizione della Polonia, e il 1° settembre la Wehrmacht sferra l’attacco, seguita, il 17, dall’Armata Rossa: presa tra due fuochi, la Polonia cessa di esistere in meno di quattro settimane. Il 3 settembre Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra alla Germania (ma non all’Unione Sovietica), mentre l’Italia dichiara la non belligeranza, ossia la neutralità giuridica ma non politica, restando fedele all’alleanza con la Germania. Ma l’Italia è povera di materie prime, ha bisogno soprattutto di carbone e le importazioni di carbone vengono soprattutto dalla Germania, che è in guerra e si trova sottoposta al blocco navale anglo-francese, come nel primo conflitto mondiale. A dicembre, protraendosi la guerra ma senza che si sia combattuta alcuna battaglia sul fronte occidentale, mentre la Polonia è stata spartita fra Germania e Unione Sovietica, Londra rassicura il governo italiano che le navi tedesche recanti il carbone per l’Italia potranno navigare liberamente fino ai porti della Penisola. A febbraio, però, Churchill decide di mutare linea di condotta e fa sapere a Mussolini che la flotta britannica lascerà passare le navi tedesche coi rifornimenti di carbone solo se l’Italia, a sua volta, accetterà di vendere armi e aerei alla Gran Bretagna: i quali, evidentemente, verranno impiegati contro la Germania. Fermiamoci a riflettere su questa svolta della politica inglese verso il nostro Paese.

Pierre Renouvin afferma che tale svolta aveva lo scopo, nelle intenzioni britanniche, di far sentire all’Italia a quali pericoli andava incontro se non fosse rimasta neutrale. Ammirevole premura nei nostri confronti: Londra ci avverte che, se non faremo i bravi, cioè se saremo fedeli all’alleanza con la Germania sino in fondo, la prima conseguenza che ce ne deriverà sarà il blocco totale delle importazioni di materie prime. L’Italia resterà senza combustibile; la sua poderosa flotta sarà costretta a rimanere nei porti, o a uscirne solo per brevissime crociere; stesse limitazioni per l’aviazione e i trasporti dell’esercito. A tanta delicatezza si unisce una palese finalità non dichiarata: se l’Italia accetterà di rifornire la Gran Bretagna di armi e aerei, di fatto romperà la solidarietà morale e politica con la Germania e i tedeschi, che ne saranno subito infornati (chissà da chi…), guarderanno all’Italia come i due Imperi Centrali avevano guardato ad essa nel 1914-15, quando la sua neutralità aveva rotto la Triplice Alleanza ed era stata il preludio dell’entrata in guerra contro di loro, suoi ex alleati. Dunque, un ricatto banditesco in piena regola: o morire d’inedia per mancanza di rifornimenti di matterie prime, o accettare una politica praticamente antitedesca. Perciò, se la Germania avesse vinto la guerra, o avesse trovato un accomodamento con Francia e Gran Bretagna, senza dubbio avrebbe voluto vendicarsi dell’alleata fedifraga. E a quel punto, che altro avrebbe potuto desiderare l’Italia, se non la sconfitta della Germania? E per essere certa che così avvenisse, che altro avrebbe potuto fare, se non intervenire al fianco di Londra e Parigi, come nel 1915? In ogni caso, sia nella prospettiva di una vittoria sia in quella di una sconfitta della Germania, la politica italiana sarebbe venuta a trovarsi in un cul de sac. Accettando il ricatto inglese, sarebbe stata costretta a rimangiarsi tutta la sua politica estera degli ultimi anni; tutte le sue richieste di revisione dei trattati di Versailles, che era una delle pietre miliari della politica estera fascista; si sarebbe bruciata tutta la sua credibilità internazionale e si sarebbe ridotta al livello di un socio di minoranza delle plutocrazie, manovrata come un burattino e contro i suoi interessi strategici, specie nel Mediterraneo, che sarebbe rimasto definitivamente un condominio franco-inglese. Se poi l’Italia, per ragioni sia di prestigio, sia di difesa dei propri interessi vitali, non si fosse piegata, sarebbe stata gettata definitivamente nelle braccia di Hitler. E poiché gli Alleati stavano facendo la guerra per distruggere il nazismo, non per salvare la Polonia, che era già stata smembrata e che comunque era stata aizzata contro Hitler e poi, alla prova del fuoco, lasciata al suo destino, l’intervento dell’Italia al fianco della Germania avrebbe consentito alle plutocrazie di distruggere, insieme al nazismo, anche il fascismo. Il nazismo infatti era nato come una imitazione del fascismo; Hitler si era sempre considerato un discepolo di Mussolini; ciò che la Germania del 1939 rappresentava, in termini di rinascita economica e di emancipazione dal giogo della grande finanza anglosassone, lo rappresentava anche l’Italia. Queste due nazioni erano uscite dalla grande crisi del 1929 con le loro sole forze e avevano tracciato una strada che costituiva un modello pericoloso per tutte le altre nazioni. Pertanto, dal punto di vista di Churchill e di Roosevelt, suo implicito alleato sin dall’inizio (mentre la Francia contava ben poco, essendo solo il braccio armato di Londra), distruggere il nazismo non era sufficiente; se si voleva eliminare il modello di emancipazione dalla grande finanza, bisognava distruggere anche il fascismo.

I termini del ricatto britannico all’Italia erano concepiti in modo da far pensare che Churchill, nel febbraio del 1939, fosse giunto a questa conclusione: nonostante le molte dichiarazioni di stima per Mussolini e di apprezzamento per la politica fascista, ora vedeva bene che distruggere il nazismo lasciando in piedi il fascismo sarebbe stato un lasciare l’opera a metà: dal fascismo, infatti, come da una pianta tagliata, ma dalle radici ancora sane, avrebbe potuto venire la riscossa contro il dominio finanziario e politico delle democrazie. Churchill sapeva benissimo che, se anche la Germania non avesse potuto spedire il carbone all’Italia via mare, avrebbe potuto fornirglielo per ferrovia, tanto più che dal 1938, cioè dall’Anschluss, le due nazioni erano divenute confinanti. Spedire il carbone sui convogli per il Brennero sarebbe venuto a costare di più, ma era tutt’altro che impossibile; e poiché i tedeschi si sarebbero certamente offerti di agire in tal senso, la mossa britannica avrebbe avuto l’effetto di bruciare ogni residua libertà di manovra per Mussolini e incatenarlo per sempre allo stesso destino di Hitler. I fatti, di lì a poco, avrebbero seguito il solco tracciato da Churchill: l’Italia respinse la richiesta britannica di forniture militari, come qualsiasi nazione gelosa del proprio onore e della propria dignità avrebbe fatto al suo posto; il 1° marzo, Londra annunciò che la sua flotta avrebbe intercettato i rifornimenti tedeschi diretti all’Italia via mare; Roma protestò ufficialmente il 4 marzo e avvertì Londra che la decisione britannica era tale da turbare e compromettere le relazioni politiche ed economiche fra l’Italia e la Gran Bretagna, un chiarissimo avvertimento di quali sarebbero state le sue conseguenze. Il 10 marzo, come da copione, Hitler si affrettò a garantire all’alleato che i rifornimenti di carbone sarebbero proseguiti via terra, per un totale di nove milioni di tonnellate annue; e lo stesso giorno Ribbentrop comunicò a Ciano che la grande offensiva della Wehrmacht sul fronte occidentale stava per avere inizio. Il gioco di Churchill era andato a segno. Legato dal Patto d’Acciaio del 1939; obbligato moralmente dalla promessa di forniture di carbone del 10 marzo; informato che la guerra stava per entrare nella fase decisiva, Mussolini avrebbe potuto prendere una decisione diversa da quella che prese? I suoi margini di manovra si erano ridotti pressoché a zero. Se al suo posto ci fosse stato un capo di governo liberale, come lo era stato Salandra nel 1915, è ben difficile immaginare che avrebbe scelto una strada diversa. Entrare in guerra al fianco della Germania, a quel punto, non era più il frutto di una libera scelta, ma la sola possibilità rimasta.

Quel che dissero prontamente sia Churchill che Roosevelt dopo il 10 giugno 1940, cioè che un uomo solo aveva scelto la guerra quando avrebbe potuto scegliere la pace, e che per sua esclusiva responsabilità tutto il popolo italiano era stato trascinato, suo malgrado, nel secondo conflitto mondiale, aveva il solo scopo di precostituirsi un alibi e celare le loro autentiche responsabilità ed i loro veri scopi. Essi avevano voluto chiudere la partita con Mussolini insieme a quella con Hitler: avevamo deciso di condurre il lavoro sino in fondo, sradicando per sempre la pianta del fascismo. Tuttavia, secondo il loro stile, dovevano recitare la commedia di essere stati aggrediti. Il bello, anzi il triste, è che la loro versione puramente propagandistica si è affermata come la sola versione veritiera dei fatti; ed è la storia che i nostri studenti imparano a scuola e all’università e che il nostro pubblico (e naturalmente il pubblico tedesco) può leggere sui giornali e sulle riviste che si occupano di quelle vicende…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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