Chi è in buona fede, a questo punto ha capito
9 Novembre 2019Abbiamo visto e udito, ma lo abbiamo lasciato fare
10 Novembre 2019Non sono in pochi a pensare, e noi siamo fra questi, che uno dei migliori fumetti apparsi nel decennio successivo alla Seconda guerra mondiale sia stato quello della breve serie dedicata a Gordon Jim, apparsa nel 1952, dapprima nel classico formato a "strisce" e poi raccolta in due albi di grande formato per la Collana Rodeo (intitolati Gordon Jim il primo e Gordon Jim in: Tamburi di guerra, il secondo). Il protagonista era un nuovo eroe del West creato dalla fantasia di Roy D’Amy, nome d’arte del vicentino Rinaldo Dami, nato a Cismon del Grappa, un piccolo paese ai piedi della storica montagna, il 29 settembre 1923 e perciò non ancora trentenne, ma già reduce da due ruvide esperienze assai significative sul piano umano e civile. Reduce dalla guerra in Africa e dai campi di prigionia inglesi, aveva collaborato allo studio fumettistico del veneziano Nino Pagot (al secolo Nino Pagotto) e aveva poi contribuito, nel 1949, alla realizzazione del primo film d’animazione italiano a colori, I fratelli dinamite, per la Pagot Film di Milano; il primo assieme a La rosa di Bagdad, del quale abbiamo già avuto occasione di palare (cfr. il nostro articolo: La rosa di Baghdad, capolavoro italiano dimenticato, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia l’11/07/17); indi aveva esordito come disegnatore di fumetti in coppia con lo sceneggiatore Andrea Lavezzolo. Infine lo speranzoso giovanotto, che aveva imparato l’inglese durante la prigionia e si era interessato ai fumetti americani realizzati nell’epoca di prima, durante e dopo la guerra, si era presentato, pieno di idee e di talento, alla redazione della casa editrice Audace di Gian Luigi Bonelli, il quale nel 1958 aveva creato il mitico personaggio di Tex Willer, ed era pronto ad accogliere la collaborazione di giovani d’ingegno come, appunto, l’ancor poco conosciuto D’Amy. Il quale aveva maturato in pochi anni tante e così ricche esperienze e aveva fatto tante letture, da potersi ormai cimentare come un fumettista veramente completo, capace sia di creare dei nuovi personaggi e delle nuove storie, sia di scriverne i testi ed eseguirne i disegni, ottenendo la massima unità della concezione, dello stile e degli effetti artistici.
Gordon Jim è un eroe western atipico, così come atipica è l’ambientazione delle sue vicende, che solo impropriamente si può inserire nel filone western vero e proprio. Niente canyon e deserti e nemmeno praterie popolate da grandi mandrie di bisonti, infatti, e niente cariche di Cheyenne o Sioux a cavallo, perché l’azione, che incomincia in Gran Bretagna, si sposta quasi subito nelle foreste rigogliose che si affacciano sino alle rive dell’Atlantico, in quella che sarebbe divenuta nota come Nuova Inghilterra. Inoltre non ci troviamo nella seconda metà dell’Ottocento, ma oltre un secolo prima, quando gli insediamenti degli uomini bianchi sono ancora radi e poco numerosi e non vanno molto al di là d’una sottile fascia costiera. I rapporti di forza fra colonizzatori europei e tribù indigene sono molto diversi da quelli che avrebbero caratterizzato le ultime guerre indiane, le più note al grande pubblico. Non tutti i pellerossa sono nemici, naturalmente; ma quando lo sono, sfoggiano tutta la loro aggressività primitiva, e gli uomini civilizzati venuti dal vecchio continente si trovano, di fronte ad essi, in una posizione simile a quella degli ultimi romani di fronte ai barbari invasori. Quando scoppia la guerra fa i bianchi e gli indiani, non solo le piccole città e i fortini con le loro palizzate di legno, ma perfino i vascelli ancorati nei porti vengono a trovarsi esposti e vulnerabili, costantemente minacciati di assalto e distruzione. In una delle scene più avvincenti di questo vero e proprio romanzo a fumetti, che offre anche lo spunto per la tavola di copertina del primo dei due volumi di formato grande, i pellerossa, acconciati con le piume di guerra e armati di tomahawk, scendono cautamente dal boccaporto di una nave lungo la scaletta di legno, evidentemente con l’intenzione di sorprende l’ignaro equipaggio che senza dubbio sta riposando sottocoperta. La scena è molto suggestiva, e carica di tensione latente quanto basta per sollecitare la curiosità del lettore e indurlo a lasciarsi prender per mano dalla sbrigliata immaginazione di Roy D’Amy e accompagnare Gordon Jim, l’eroe americano improvvisato, venuto dalla lontana Europa per sfuggire a una falsa accusa e ad un’ingiusta condanna, nelle sue appassionanti avventure, a contatto con la natura fresca, esuberante, primigenia di una terra ancor vergine,
Così Sergio Bonelli, in arte Guido Nolitta (1932-2011), figlio di Gianluigi Bonelli, creatore di Tex, e creatore, a sua volta, di Zagor, un altro grande successo della casa Araldo, da lui diretta e portata fra le maggiori case editrici italiane di fumetti, poi chiamata Sergio Bonelli Editore — rievoca le origini di Gord Jim e traccia un gustoso ritratto del suo ideatore, Roy d’Amy (da: Sergio Bonelli, Travolti dal ciclone Roy d’Amy, introduzione a Tex, Collezione storica a colori, Edizione Speciale per Repubblica-L’Espresso, vol. 5, Tex, il re dei tiratori, 2007, pp. 9-12):
Continuando nel mio proposito di ricostruire l’epoca pionieristica, ma piena di fervore e di entusiasmo, in cui Tex non aveva ancora definitivamente conquistato il cuore dei lettori, voglio parlarvi stavolta di un narratore per immagini che costituì una colonna delle Edizioni Audace negli anni Cinquanta, contribuendo in maniera sostanziale alla nascita del nuovo fumetto italiano del Dopoguerra. Si chiamava Rinaldo Dami, ma amava farsi chiamare Roy D’Amy, e si era presentato in redazione nel 1949, con un look da americano davvero in anticipo sui tempi: camicia a scacchi, fazzoletto al collo, jeans e un paio di "desert boots", quelle Clarks che poi avrebbero conquistato il mondo. Anche il suo italiano aveva un forte accento anglosassone che gli veniva da una lunga prigionia in un campo di concentramento inglese riservato ai soldato italiani, in terra d’Africa, e non meno americani di lui sembravano i disegni che ci proponeva. Disegni nei quali più tardi io avrei identificato l’influenza di Milton Caniff, di Alex Toth e di altri rivoluzionari disegnatori statunitensi che, oltreoceano, avevano ormai sostituito nei gusti dei lettori i "vecchi" Alex Raymond, Harold Foster e Burne Hogarth
D’Amy si segnalò con "Mani in alto!", una collana, pubblicata dalla nostra Casa editrice fra l’aprile 1949 e il luglio 1950, in cui questo straordinario sceneggiatore-disegnatore faceva sua la lezione del cinema western hollywoodiano. (…)
D’Amy riuscì a conquistare definitivamente noi dell’Audace, il giorno in cui venne in via Saffi e appoggiò sulla scrivania le prime pagine di una nuova serie, "Gordon Jim". A colpire in particolare il sottoscritto, lo confesso, fu una vignetta, dove un minaccioso indiano dal cranio rasato emerge dal bosco, si affaccia da una rupe e spia sotto di sé l’avvicinarsi del veliero degli invasori. Questa "sequenza", concepita con un gusto cinematografico, e le cento altre disseminate in ogni parte della narrazione (le canoe che scivolano sui fiumi, i fortini devastati, gli inquietanti chiaroscuri di foreste e caverne) conferivano a "Gordon Jim" una dimensione di realismo che, in "Mani in alto!", era stemperata dal segno grafico più stilizzato e grottesco. L’azione si svolge all’epoca delle guerre indiane di fine Settecento (quando Mohicani, Uroni e Irochesi furono i primi, terribili avversari dei colonizzatori europei) [in effetti, le prime serie guerre indiane ebbero luogo alla fine del Seicento: il massacro di Lachine, ad esempio, ad opera dei Mohawk, è del 1689], la stessa raccontata nella trilogia del famoso scrittore Zane Grey (composta dai romanzi "Betty Zane", "L’anima della Frontiera" e "L’ultima pista"), in capolavoro a fumetti quali "Wheeling" di Hugo Pratt, o in film come "Gli invincibili", diretto da Cecil B. De Mille nel 1947. Su questi sfondi, D’Amy riuscì a costruire una trama piena di agguati, cavalcate, duelli, ma anche di veloci siparietti comici (trama che si sviluppò su diciotto albi a striscia, usciti fra il giugno e il settembre 1952), dimostrando di aver compiuto un ulteriore passo avanti nell’arte di emozionare i lettori. Accusato ingiustamente di omicidio, Jim, un giovane scozzese, appartenente alla nobile casata degli Argyll, è costretto ad abbandonare la sua patria e a rifugiarsi in America. Qui, assunto il nome di Gordon Jim, vivrà le sue imprese in compagnia di un gruppo di comprimari: il forzuto Mac Hardy, suo nipote Semedimela, Dirty Pan (sempre tormentato da una megera che sogna di diventare sua moglie), la dolce Miss Arabel e il piccolo Tartufo, con la sua fedele puzzola Eulalia.
Dopo esserci uniti alle parole di stima e ammirazione per il talento di Roy D’Amy e per la felicità delle sue invenzioni narrative, fra le quali spicca, appunto, la breve ma gloriosa epopea di Gordon Jim, ci sia consentito di fermare l’attenzione su due punti di carattere generale che questa notazione storica ci suggerisce. Il primo riguarda la straordinaria vitalità della società italiana, della cultura italiana, del lavoro italiano e dell’inventiva italiana negli anni immediatamente successivi alla disfatta subita dal nostro Paese nel secondo conflitto mondiale. Invece di andare a cacciarsi in qualche angolo nascosto per leccarsi le dolorose ferite, i nostri nonni si sono rimboccati le maniche e hanno creato dal nulla qualcosa di bello e di durevole: nel campo dei fumetti come in cento altri campi, che sono come i numerosi rivoli dai quali si origina il cosiddetto miracolo economico. Il miracolo di un popolo povero, privo di tradizioni statali, scarso di materie prime, oltremodo mortificato dalle vicende dell’8 settembre 1943; e tuttavia un popolo dalla straordinarie capacità di ripresa, dove un ex soldato reduce dalla prigionia, nativo di un minuscolo borgo ai piedi delle Prealpi (oggi Cismon ha 550 abitanti, ed è frazione di Valbrenta, un comune sparso nato nel 2019 dalla fusione di ben quattro minuscoli comuni) s’improvvisa sceneggiatore e disegnatore di successo e occupa nel suo campo una posizione di prim’ordine; mentre nella manifattura, nel commercio, nella ricerca, nell’industria estrattiva, e perfino nello sport, altri giovani di talento, venuti dalla gavetta e capaci di affrontare i più duri sacrifici per tradurre in realtà le loro idee e i loro sogni, in cui credono fermamente, trasformano un Paese povero e sconfitto, che ancora manda all’estero migliaia di emigranti per buscarsi la pagnotta e inviare quattro soldi a casa, diventa una potenza economica di prim’ordine, crea quasi dal nulla una delle maggiori cinematografie, e arriva, nella persona di Enrico Mattei, a far paura alle Sette Sorelle del petrolio, e questo nonostante l’estrema povertà di combustibili fossili del nostro Paese.
La seconda osservazione riguarda, ahimè, senza nulla togliere alla bravura di Roy D’Amy, o di Gian Luigi Bonelli, e di altri fumettisti del loro livello, l’infeudamento culturale degli artisti italiani del settore, come di altri settori, il cinema in particolare, ma anche la letteratura, un po’ più tardi la musica leggera, ecc., nei confronti della cultura anglosassone, e specialmente americana, dei modelli americani e degli stereotipi americani. Il tu vuoi fa’ l’americano di Renato Carosone diventa una specie di ossessione e contagia perfino la sfera dei comportamenti privati, come l’adozione di un particolare abbigliamento, secondo quanto Sergio Bonelli ricorda nella sua affettuosa e scanzonata descrizione di Roy D’Amy, che fa pensare inevitabilmente all’Alberto Sordi di Un americano a Roma di Steno (1954). Storicamente, ma soprattutto culturalmente e psicologicamente, si è trattato di un effetto della disastrosa sconfitta del 1943, semplicemente ratificata nel 1945, e dell’invasione militare angloamericana, seguita, nel 1949, dell’adesione dell’Italia alla N.A.T.O., decisa dal governo De Gasperi senza consultare affatto i cittadini italiani e in disaccordo perfino con una parte del suo stesso partito, decisione che ipotecava per sempre la sovranità effettiva del Paese. Basta dare un’occhiata al fumetto avventuroso italiano anteriormente al 1943 per notare una cosa evidente: che molti dei personaggi eroici erano italiani; che in essi si rifletteva la fierezza di un popolo conscio della propria indipendenza e orgoglioso della vittoria nella Prima guerra mondiale; che anche le ambientazioni erano concepite per dare risalto al senso di italianità ere quindi avevamo una forte connotazione identitaria, come oggi si direbbe; mentre dopo quella data comincia l’invasione, non la si può chiamare altrimenti, degli eroi stranieri, specie statunitensi, nel quadro dell’importazione di una mitologia che non ha niente a che fare con l’Italia e neppure con l’Europa, ma che viene direttamente da un altro continente. Ora noi siano talmente abituati a questo fatto, dato che fin da bambini abbiamo visto al cinema e alla televisione film e telefilm che esaltano la storia americana, e abbiamo perfino giocato con dei soldatini americani della Seconda guerra mondiale (coi soldatini tedeschi e giapponesi a fare da "nemici", e la totale assenza di quelli italiani), che abbiamo finito per non cogliere più la stranezza e l’artificiosità di una tale situazione. Perché mai i ragazzi italiani dovrebbero avere a disposizione, per appassionarsi agli eroi del fumetto, soltanto o quasi soltanto quelli di matrice anglosassone? Se il fumetto, come è stato più volte osservato, è la versione odierna dell’epica, è evidente che noi abbiamo introiettato un epos che non ci appartiene e ci siamo identificati con un’identità che non è la nostra. Si obietterà che è ridicolo voler tornare all’autarchia, specie in questo campo. Forse: ma è pur sempre questione di modica quantità. Un Mandrake, un Superman va bene: ma cento no, se vogliamo restare noi stessi.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels