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I Makah, piccolo popolo che cacciava le balene

Così come la geologia e la geografia hanno le loro simmetrie, anche l’antropologia e la storia presentano delle curiose corrispondenze. Se osserviamo una carta fisica del continente americano, possiamo notare che esiste una somiglianza impressionante fra le coste nord-occidentali e sud-occidentali che si affacciano sull’Oceano Pacifico. Sia le une, partendo dallo Stato di Washington e arrivando all’Alaska, lungo la Columbia Britannica e lo Yukon, sia le altre, nel Cile meridionale, sono alte, frastagliate, circondate da fittissimi boschi di faggi e di sempreverdi e fronteggiate da una quantità di isole e arcipelaghi, e profondamente solcate da fiordi, simili in tutto e per tutto a quelli della Norvegia e del versante sud-occidentale dell’Isola del Sud nella Nuova Zelanda (regione detta appunto Fiordland, terra dei fiordi). Queste valli sono state scavate dai ghiacci all’epoca della loro massima espansione quaternaria e poi, quando i ghiacciai si ritirarono per l’innalzamento della temperatura, rimasero nello stato attuale, con la loro tipica sezione a "U", mentre le isole attuali non sono che le vette emerse di una catena costiera rimasta separata dal continente dopo lo scioglimento della coltre glaciale. I popoli che si insediarono poi in quelle terre aspre e appartate, dal clima temperato fresco e piovoso, sfavorevoli a qualsiasi forma di agricoltura, vivevano soprattutto di caccia, pesca e raccolta; e in entrambi i casi, dell’America Settentrionale e di quella Meridionale, una parte essenziale della loro economia, così come delle loro abitudini sociali, del folclore e della mitologia, ruotava intorno alla caccia alla balena. Le balene amavano frequentare quelle acque e riprodursi nei solitari specchi d’acqua dei fiordi, al riparo dalle tempeste dell’oceano aperto; e gli indiani impararono che quei giganteschi animali potevano esser cacciati con successo, a determinate condizioni, e non senza una buona dose di coraggio, nonostante l’enorme sproporzione fra le loro piccole canoe e le dimensioni dei cetacei, capaci, se infuriati, di attaccare perfino una baleniera degli uomini bianchi, come è storicamente documentato nel caso della famosa Mocha Dick, al largo del Sud America (cfr. il nostro articolo: Mocha Dick: quando la realtà supera la fantasia, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 30/10/17). Sia le tribù della costa nord-occidentale, i Salish, i Bella Coola, i Tlingit, i Klamath, i Chinoock, sia le loro "corrispondenti" dell’emisfero australe, i meno evoluti popoli canoeros del Cile meridionale, i Chonos, gli Alakaluf e gli Yamana o Yaghan, che non sapevano costruire grandi e confortevoli case di legno come i primi, e per i quali ultimi le canoe non erano solo un mezzo di navigazione e di pesca, ma quasi delle abitazioni galleggianti, avranno "scoperto" che la carne di balena è commestibile, e che dal cetaceo si possono ricavare altre utili sostanze, come l’olio, approfittando di qualche esemplare spiaggiato, che le tempeste del Pacifico avranno gettato cadavere in prossimità dei loro insediamenti. Poi, osservando dalla riva le abitudini di quei giganti del mare, si resero conto che potevano seguirli a distanza con le loro canoe e spiare il momento favorevole per colpirli con l’arpione assicurato da una fune e poi, dopo averli stancati, era possibile finirli e trascinarli a terra. La carne di una sola balena, seccata e salata, poteva offrire nutrimento a un intero villaggio per molto tempo, e quindi è comprensibile che la balena, accanto alla foca, ma più di questa, divenisse l’animale più importante non solo nell’economia e nella vita pratica di quelle popolazioni, ma anche nelle loro credenze e nei loro racconti.

Questi popoli vennero poi a contatto con gli uomini bianchi e furono inseriti, più o meno bruscamente, nelle realtà statali che sorsero fra XVIII e XIX secolo: gli Stati Uniti, il Canada (allora dominion britannico) e il Cile, i quali, e specialmente gli Stati Uniti, possedevano delle apposite flotte pescherecce attrezzate per la caccia alla balena. Per tutto l’Ottocento la caccia proseguì accanita, pertanto, sia da parte dei bianchi che degli indigeni; ma a un certo punto, nei primi decenni del XX secolo, ci si rese conto che il numero dei cetacei non era illimitato e che, se non si fossero stabilite delle regole e delle precise quote di pesca, essi avrebbero finito per estinguersi. A quel punto l’economia dei popoli costieri amerindiani si trovò alle prese con un problema pressoché insolubile. Le leggi dei bianchi imponevano loro di limitarsi e di non cacciare più tutte le balene che si avvicinavano alle rive dei loro villaggi, ma essi, a differenza dei bianchi, che potevano riconvertire i settori dell’economia legati a quel particolare commercio, non avevano alternative. La caccia ai pochi mammiferi terrestri, la pesca al salmone nelle acque dei fiumi, la raccolta di mitili sulle spiagge e quella di funghi, radici e bacche nella foresta, non erano sufficienti a sostenere la loro popolazione: per essi la caccia al cetaceo non era una possibilità fra le tante, ma, in pratica, la loro principale fonte di sostentamento, senza la quale avrebbero dovuto ridursi a vivere dell’assistenza governativa. A quel punto sorse la questione della liceità della caccia alla balena, e ci si rese conto che il problema assumeva caratteristiche assai diverse a seconda che lo si considerasse dal punto di vista degli uomini bianchi, che disponevano di cento altre risorse e attività per vivere, e per i quali la caccia alla balena, in fondo, era sempre stata una specie di lusso, e dal punto di vista degli uomini rossi, per i quali, invece, assumeva le proporzioni drammatiche di una questione di vita o di morte, o poco meno.

Possediamo una testimonianza precisa di ciò che è accaduto sotto la spinta contrastante delle due necessità incompatibili, quella economica e quella ecologica, perché conosciamo piuttosto bene la storia di uno di questi piccoli popoli, i Makah, insediato nello Stato di Washington e precisamente nella penisola di Olympia, là dove la Catena Costiera s’immerge nello Stretto Juan de Fuca, di fronte all’isola Vancouver, ed è separata dalla terraferma dallo Stretto di Puget, per poi riprendere più a nord, lungo la costa della Columbia Britannica. Si tratta di una regione dalla bellezza solenne, montuosa e ricoperta da fitte foreste che si specchiano nelle acque azzurre del Pacifico; e talmente isolata che il suo interno rimase pressoché sconosciuto agli uomini bianchi fin oltre la metà del XX secolo, allorché, nel 1963, venne — ultima in assoluto — cartografata dalla United States Geological Survey, cui si deve un’opera equivalente alla mappatura del territorio italiano da parte del nostro Istituto Geografico Militare. Non essendovi ricchezze naturali, come i giacimenti auriferi della California o dello Yukon, suscettibili di attirare l’avidità dei bianchi, i Makah vennero lasciati in pace e tuttora sopravvivono nei loro territori aviti, occupando una riserva federale all’estremità nordoccidentale della Penisola, comprendente anche l’isola Tatoosh. Essi hanno conservato, accanto all’inglese, anche la loro lingua, che fa parte della famiglia linguistica Wakashan, e benché l’ultimo individuo di madrelingua fluente sia morto nel 2002, oggi essi stanno compiendo degli sforzi per trasmetterne l’insegnamento ai bambini e scongiurare così il pericolo della sua estinzione. Va detto che le nostre conoscenze su questo piccolo popolo orgoglioso vengono in buona parte della tradizione orale, ma nel 1970 hanno ricevuto un formidabile impulso dalla scoperta, ad opera del professore di antropologia Richard Daugherty, del sito archeologico di Ozette, presso il lago omonimo: i resti, straordinariamente ben conservati sotto uno spesso deposito di fango, di un intero villaggio, con tutte le case e le suppellettili; un evento che ha fatto parlare gli studiosi di una vera e propria Pompei degli indiani d’America. I rapporti fra il governo statunitense e i Makah erano stati regolati nel 1835 con il Trattato di Neah Bay, che stabiliva la cessione di gran pare delle terre indiane agli Stati Uniti e, in cambio, l’istituzione della riserva Makah nella contea di Clallam e il diritto, per gli indiani, di continuare la caccia alla balena e alla foca. In seguito, la rarefazione delle balene nel Pacifico ha indotto il governo americano a fare pressioni per la limitazione della caccia anche ai popoli nativi, finché, negli anni ’20 del Novecento, essa venne del tutto sospesa. Alla fine del secolo, però, quando è sembrato che il pericolo di estinzione della balena fosse stato scongiurato in seguito alla presa di posizione della legislazione internazionale sulla pesca, i Makah hanno avanzato la richiesta di poter riprende questa loro antichissima tradizione, sia pure in scala drasticamente ridotta, e in ciò sono sati assistiti sia dal governo americano che dalla Commissione internazionale delle balene, ottenendo il permesso di cacciare una balena all’anno; il che non è poco, se si considera che i Makah attualmente censiti negli Stati Uniti sono circa 1600, dei quali circa 1.350 vivono nella riserva della Penisola Olympia. E infatti, dopo circa settant’anni di moratoria, il 17 maggio 1999 essi hanno potuto dare la caccia e uccidere una balena grigia davanti alle loro coste, come ai bei tempi antichi.

Ed ecco la tecnica mediante la quale gli indiani Makah andavano a caccia della balena (da: A.A.V.V., Alla scoperta del passato. Appassionanti risposte agli innumerevoli enigmi della storia; titolo originale: Quest for the Past; Amazing Answers to the Riddles of History, Readers Digest Association, 1984; ed. It. Selezione dal Reader’s Digest, 1988, p. 294):

Una balena grigia adulta è lunga circa 12 metri, e pesa più di 20.000 chilogrammi. Con un colpo della coda può ridurre una piccola barca in un mucchio di legnetti galleggianti. Eppure per circa 2.000 anni gli indiani makah hanno sfidato questi giganti del mare usando fragili canoe. Solamente in questo secolo hanno abbandonato la caccia alla balena, che un tempo procurava loro carne, olio e ossa.

Generalmente, i preparativi iniziavano molto tempo prima della stagione della caccia. I cacciatori makah potevano contare sul proprio coraggio e sulla propria abilità, ma poiché credevano che fosse "la potenza degli spiriti" a determinare l’esito della caccia, compivano complessi riti propiziatori, per parecchie settimane prima di salpare. Un anziano indiano che è ancora vivo ricorda di aver visto suo padre nuotare nell’Oceano Pacifico, immergendosi e zampillando come una balena, "per mostrare che il suo cuore era adatto" alla grande impresa.

Il giorno stabilito la caccia iniziava. Ogni canoa portava otto uomini. Preparati, se necessario, a un lungo viaggio, essi portavano con sé cibo e acqua, insieme a un ingegnoso dispositivo per riscaldarsi: una scatola riempita di sabbia, una provvista di legnetti e alcuni carboni ardenti, rinchiusi in larghi gusci di conchiglie. Potevano, così, accendere un fuoco senza il rischio di incendiare la canoa.

Silenziosamente, essi inseguivano la loro preda, addirittura arrivando a distanze talmente ravvicinate che la canoa sarebbe stata inevitabilmente capovolta dalla balena al minimo errore. Il momento di colpire veniva quando il grande bersaglio saliva a galla per respirare. Un robusto membro dell’equipaggio stava in piedi con un arpione in mano, aspettando l’attimo propizio per mettere a segno il colpo. Galleggianti fatti con pelli di foca gonfiate erano attaccati alla corda dell’arpione, ostacolando la balena ferita, quando cercava di immergersi. Finché, incapace di fuggire ed esausta, la balena si limitava a galleggiare, passivamente alla superficie; allora i cacciatori usavano lance con punte fatte di conchiglie per recidere i tendini della coda e finalmente darle il colpo di grazia al cuore.

Per gli stanchi ma felici cacciatori restavano ancora da rimorchiare 20 tonnellate di preda fino a riva. Per prima cosa legavano la bocca della balena morta, così da impedire che la carcassa di acqua. Quindi le attaccavo i galleggianti di pelle di foca in moda da mantenerla in superficie. Quando erano prossimi a terra, aspettavano che l’alta marea la portasse fino a riva.

Paradossi della storia; o forse corsi e ricorsi, come direbbe il nostro Vico. Nella seconda metà del XIX secolo furono i bianchi a sterminare il bisonte e a portarlo fin quasi all’estinzione, per una precisa e spietata strategia del governo americano e non per una reale necessità economica (tanto è vero che le carcasse venivano lasciate a marcire sul terreno e solo la pelle veniva prelevata), mettendo così in ginocchio i popoli amerindi delle Grandi Pianure, che di esso vivevano, e sul quale avevano costruito tutta la loro civiltà materiale. Adesso, in tempi di acuta sensibilità ecologica, o piuttosto di accesa ideologia ecologista — il che non è lo stesso — è l’uomo bianco che, per difendere una specie animale seriamente minacciata, pretende d’interdire agli ultimi nativi sopravvissuti al genocidio la caccia di quell’animale, il quale era, per essi, l’equivalente del bisonte per le tribù stanziate al centro del continente. La questione è complicata dal sovrapporsi di elementi emozionali, abilmente pilotati e sfruttati dal grande potere finanziario, ai dati scientifici oggettivi. Valga per tutti il caso delle grandi manifestazioni giovanili in difesa del clima e dell’ambiente, sotto l’impulso di Greta Thunberg e con la benedizione dell’Unione Europea e del vertice della chiesa cattolica, cosa che gli studiosi futuri probabilmente classificheranno tra i fenomeni isterici della tarda modernità. E qui, per forza, vengono al pettine i nodi della contorta e ipocrita ideologia del progresso liberale: chi deve prevalere in questo caso, i diritti degli indiani o quelli delle balene? Ai posteri l’ardua sentenza.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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