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Il futuro appartiene a coloro che sanno odiare?

È per caso l’odio che tiene in piedi le civiltà, che le alimenta, le sostiene e dà loro la forza morale e i mezzi materiali per affermarsi, per sconfiggere le minacce, per superare gli ostacoli? È la tesi, originale ma, a ben guardare, niente affatto peregrina, del celebre storico francese Fernand Braudel (1902-1985), autore dell’ormai classico Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (La Méditerranée et le monde méditerranéen a l’époque de Philippe II, 1949; decima edizione, 1966), uno dei massimi esponenti della Scuola degli Annales che ha profondamente innovato il concetto stesso della storiografia, spostando l’attenzione dello studioso dagli avvenimenti specifici, politici, economici, militari, ecc., alle costruzioni e alla trasformazioni che si verificano sui lunghi periodi e che coinvolgono, necessariamente, il concetto stesso di civiltà, e mobilitando numerose scienze ausiliarie, dall’antropologia alla sociologia, dalla statistica alla finanza e dalla geografia alla storia della cultura e delle idee.

Ma ecco la pagina in questione, nella quale ci siamo imbattuti, dobbiamo confessarlo, per caso, pur sapendo che sovente si trovano delle perle di filosofia della storia non tanto presso i filosofi, quanto presso gli storci, i quali, più vicini alla realtà concreta dell’essere umano nel suo vivo manifestarsi, anche se non hanno, in genere, gli strumenti per elaborare e sviluppare le loro intuizioni, nondimeno sanno cogliere nel segno con maggiore forza e chiarezza concettuale dei loro astratti e un po’ trasognati "colleghi" (da: F. Braudel, Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni; titolo originale: La Méditerranée; Paris, Flammarion, 1985; traduzione dal francese di Elena De Angeli, Milano, Bompiani, 1987, pp. 111-112):

Nell’urto reciproco esse [le civiltà] trovano la loro stessa ragion d’essere. Roma, il cui trionfo coincide con i soli secoli in cui il mare fu unito, non è tuttavia riuscita a eliminare le comunità ostili che la fronteggiano; si è limitata a tenerle a bada, valorizzando e spingendo avanti, intanto, la propria civiltà, la propria lingua, la propria arte. Ma le lotte sono continuate sotto l’apparenza e lo schema della "pax romana", che però riesce a fatica a dissimularle.

Le civiltà sono dunque intrise di guerra e di odio, una immensa zona d’ombra, che le divora quasi per metà. L’odio se lo fabbricano, se ne nutrono, ne vivono. La Grecia detesta la Persia ancor più di quanto gli stessi persiani (notoriamente tolleranti) detestino i greci. I romani odiano a morte i punici, che rendono loro la pariglia. La cristianità e l’Islam non hanno niente da invidiare l’una all’altro. Al tribunale della storia i due colpevoli sarebbero entrambi condannati, nessuno di loro scamperebbe. Ma è poi sempre possibile dire chi è colpevole e chi è innocente? Secondo Sabatino Moscati, ad esempio, i punici sarebbero popolazioni assolutamente pacifiche, che si difendono, certo, e con coraggio, ma soltanto per reagire all’attacco. Alcuni storici sostengono anche che Bisanzio, sopravissuta all’impero romano fino alla presa di Costantinopoli, non sarebbe stata capace, per quanto la concerneva, di scatenare una guerra santa (una crociata, se vogliamo) confacente ai suoi mezzi. Se tale considerazione corrisponde a realtà saremmo tentati di rallegrarci di una simile carenza. Un bel giorno, però, Bisanzio non ha forse finito per pagare tale assenza di odio costruttivo? Il che porterebbe ad affermare che il futuro appartiene a coloro che sanno odiare. Troppo spesso, infatti, le civiltà non sono altro che incomprensione, disprezzo ed esecrazione degli altri. Ma non soltanto questo. Sono anche sacrificio, irradiazione, accumulazione di beni culturali, eredità di intelligenza. Se alle civiltà delle due sponde il mare ha dovuto le guerre che lo hanno sconvolto, è stato loro debitore anche della molteplicità degli scambi (tecniche, idee e anche credenze), nonché della variopinta eterogeneità di spettacoli che oggi offre ai nostri occhi. Il Mediterraneo è un mosaico di tutti i colori. Per questo, passati i secoli, possiamo vedere senza indignarcene (tutt’altro) tanti monumenti che un tempo rappresentarono dei sacrilegi, pietre miliari che indicano i progressi e le ritirate di epoche lontane: Santa Sofia, con il suo corteggio di alti minareti; San Giovanni degli Eremiti a Palermo, il cui chiostro è racchiuso tra le cupole rosse o rossastre di un’antica moschea; a Cordoba, tra gli archi e i pilastri della più bella moschea del mondo, l’affascinante chiesetta gotica di Santa Cruz, costruita per ordine di Carlo V.(…)

Alla fin fine, però, la civiltà per ampi che ne siano dominio, ripercussioni e durata, non rappresenta da sola l’intera storia degli uomini, né, nel caso che ci interessa, l’intera storia del mare Interno.

Che la politica continui a dire la sua è un fatto lampante. Quante volte ha imposto la propria volontà, relegando in secondo piano tutte le altre forze e forme della storia? È quanto avviene, per secoli, finché dura la preponderanza di Roma, che vede per molto tempo la violenza al servizio della politica: il suo imperialismo si placa solo dopo aver ridotto all’ubbidienza tutto il Mediterraneo. E Roma, prima di tale scadenza, ha colpito senza pietà: nello stesso anni, il 146 a. C., vengono distrutte sia Cartagine sia Corinto…

Sì, è vero: fa impressione vedere quel che è diventata, ormai da cinque secoli e mezzo, la basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, gemma della cristianità, anzi no, a Istanbul; fa impressione pensare che Istanbul era Costantinopoli, cioè la capitale dell’Impero romano d’Oriente e della cristianità medievale; che da Costantinopoli erano partiti i missionari che convertirono e cristianizzarono i Balcani, la Russia, perfino una parte dell’Asia centrale e dell’Impero cinese (sia pure nella forma del cristianesimo nestoriano); mentre ora è una città della Turchia, o meglio è stata per cinque secoli la capitale dell’Impero ottomano; e che Santa Sofia fu traformata in moschea, prima di essere adibita a museo. E fa impressione pensare che in tutta la Turchia, che fu l’Asia Minore, abitata un tempo da una popolazione greca e cristiana, e la cui evangelizzazione era iniziata ad opera di san Paolo, oggi a stento si troverebbero poche migliaia di cristiani. Fa impressione pensare che la Palestina, la Siria, l’Egitto, tutto il Nord Africa fino all’Atlantico, furono terre cristianissime, per secoli, e diedero all’Occidente alcuni dei santi e dei padri della Chiesa più grandi, da Tertulliano a san Cipriano a san’Agostino. E fa impressione pensare che, se proseguirà l’attuale invasione dell’Europa mascherata da migrazione e da accoglienza umanitaria e "cristiana", nel giro di pochissime generazioni tutto il nostro continente subirà la sorte dell’Asia Minore, della Palestina, della Siria, dell’Egitto e del Nord Africa: ossia che verrà islamizzato e che perfino le sue popolazioni verranno, più che convertite, sostituite, sicché della civiltà europea e cristiana non resterà più nulla, neanche il ricordo, se non qualche chiesa, forse, benevolmente trasformata in moschea o in museo. E quindi, lo notiamo fra parentesi, ha torto il Braudel nel mettere sullo stesso piano le lotte incessanti e l’odio reciproco di cristiani ed islamici nel corso dei secoli passati, perché fu l’Islam a dichiarare guerra alla cristianità, fu l’Islam ad invadere vastissime regioni che erano cristiane da secoli, e fu ancora l’Islam a far pesare la spada di Damocle della conquista implacabile sull’Europa occidentale, dalla strage dei martiri di Otranto nel 1480 al secondo assedio di Vienna nel 1683. E tuttavia, indipendentemente dal chi attaccò chi, e chi invece si limitò a difendersi, resta la scomoda, inquietante domanda: è vero che una civiltà, per sopravvivere alle sfide della storia, che sono anche sfide di tipo militare, oltre che politico, economico e culturale, deve saper odiare? È vero, in altri termini, che il futuro appartiene a quanti sono capaci di odiare di più? Ad esempio, è plausibile la tesi che l’Impero bizantino finì per soccombere sotto la spada degli ottomani, nonostante il valore con cui i suoi sovrani lo difesero fino all’estremo, fino a quando l’ultimo imperatore Costantino XI Paleologo cadde combattendo sulle sue mura, nel 1453, per la ragione che non fu capace di nutrire e alimentare un odio proporzionato a quello dei suoi nemici islamici, ben decisi a conquistarlo e distruggerlo completamente, così come già avevano fatto, a suo tempo, con l’Impero sassanide?

Attenzione: Braudel non affaccia l’ipotesi che le civiltà vivano e si alimentino esclusivamente di odio: ciò sarebbe assurdo; suggerisce che l’odio per il nemico è, forse, una componente essenziale della loro capacità di rigenerarsi, di superare i momenti difficili, di vincere le sfide che le mettono n pericolo. Quanto all’odio, Braudel si chiede se esso non nasca dal disprezzo, dall’incomprensione e dal rifiuto dell’altro e se questi fattori non siano necessari, per così dire, a quelle civiltà che vogliono sopravvivere il più a lungo possibile — civiltà eterne, o perenni, che si sappia, nessuno le ha mai viste; anche se al povero Spengler ne hanno dette di tutti i colori solo per aver suggerito che nemmeno la civiltà occidentale può pretendere di esserlo — in una prospettiva globale che sa di darwinismo planetario. D’altra parte, Braudel osserva molto opportunamente che le civiltà non sono tutto; che non coincidono con l’insieme della storia umana; che esse corrispondono a un dato momento storico di un dato popolo, o un dato insieme di popoli, ma che accanto alle civiltà vi sono altre forme di organizzazione sociale, economica, politica, culturale. Ed è questo l’aspetto che ci sembra meritevole di approfondimento. Una tribù di boscimani del Kalahari, oppure una minuscola comunità di Negritos delle isole Andamane o Nicobare, senza dubbio, non solo non rappresentano una civiltà, ma non fanno nemmeno parte di una civiltà: a meno di adoperare la parola "civiltà", come fanno alcuni antropologi, nel senso più ampio del termine; talmente ampio da perdere ogni contorno preciso e pertanto qualsiasi utilità pratica. Una civiltà è, in senso proprio, anche uno stile, o meglio corrisponde a uno stile: in questo senso, si può parlare di una civiltà medievale, di una civiltà rinascimentale, di una civiltà barocca, di una civiltà illuminista; e così via. E di una civiltà cristiana, si può parlare? Certamente: tale espressione designa non solo l’ambito dell’arte, ma abbraccia tutti gli aspetti della vita, materiali e spirituali, che caratterizzano la storia europea fra gli ultimi bagliori del mondo antico e l’alba della modernità. Pertanto una civiltà non coincide con un impero o con una forma precisa di organizzazione politico-sociale; non coincide nemmeno con la storia di un popolo o con diversi popoli in qualche modo federati o collegati. Alla civiltà cristiana, per esempio, appartenevano sia i sistemi feudali dell’Europa occidentale, sia le culture e le forme artistiche generate dall’incontro con altri popoli, come gli arabi in Spagna e in Sicilia, o i Normanni in Inghilterra e nell’Italia meridionale; sia la filosofia, la teologia, le arti, la letteratura e la scienza dei secoli compresi fra il IV e il XIV, un millennio esatto.

Ma ecco un grosso problema: se una civiltà ha bisogno di saper odiare, perché l’odio, nei termini che abbiamo indicato, è l’equivalente dell’istinto di sopravvivenza per i singoli individui alle prese con la lotta per la vita, ne deriva che anche la civiltà cristiana, come tutte le altre, si nutre almeno in parte di odio? Per rispondere a questa domanda in maniera soddisfacente, bisogna introdurre una distinzione. Chi giudica il cristianesimo un prodotto della mente umana, come tutte le altre religioni, non può che rispondere affermativamente, senza fare tante distinzioni. Un cristiano, però, non pensa così, almeno se è davvero un cristiano e non una persona che semplicemente s’immagina di esserlo. Essere cristiani significa credere in Dio; credere non in un dio qualsiasi, ma nel Dio di Gesù Cristo; significa credere che tutto ciò che Lui ha insegnato è perfettamente vero. Ora, Gesù ha insegnato ad amare; non un amore dolciastro però, ma un amore maschio, virile, che non esclude, ma anzi richiede, un certo gradi di asprezza. Non sono venuto a portare la pace, ma una spada: sono parole di Gesù. Metterò il padre contro il figlio e il figlio contro il padre; la madre contro la figlia e la figlia contro la madre… Sono ancora parole sue. Certo, bisogna interpretarle in senso spirituale: il cristiano è un combattente spirituale, un miles Christi, che però non fugge davanti al pericolo fisico, all’impegno concreto. Ora, se il cristianesimo non è una creazione umana, ma una verità rivelata da Dio, e incarnatasi nel Dio fatto uomo, ne consegue che la civiltà cristiana ha realmente qualcosa di speciale, qualcosa che la svincola dal naturale destino di decadenza e di morte cui sono legate tutte le cose umane, civiltà comprese. Ma il mondo in cui noi viviamo, oggi, si può ancora definire "civiltà cristiana"? Certamente no, se con tale espressione vogliamo indicare la totalità delle manifestazioni della vita occidentale. La modernità si è sostituita alla cristianità fin dall’Umanesimo e perciò da sei secoli l’Europa non è più cristiana, anche se qualcosa delle sue origini cristiane (perché l’Europa è una creazione del cristianesimo, teniamolo sempre a mente) sopravvive ancora. Di fatto, modernità e cristianità sono mescolate in un unico stampo, così come l’uomo vecchio e l’uomo nuovo, di cui parla san Paolo, coesistono e coabitano nello stesso uomo, creatura anfibia, ambigua, multiforme. Parlando in generale, la stragrande maggioranza degli europei e degli occidentali moderni non sono più cristiani, ma post cristiani, e quindi non esprimono una civiltà cristiana, ma semmai anticristiana. Eppure, qualche germe del cristianesimo sopravvive ancora oggi, nonostante tutto. Ci sono ancora pochi cristiani, ma ci sono, come a Sodoma c’era la famiglia di Lot che non si era mescolata con gli altri viziosi abitanti. Ed è da quei pochi che possono venire la salvezza e la rinascita: sempre che ciò faccia parte dei piani di Dio. Perché il cristiano sa che è Dio, e Dio solo, il padrone della storia. La storia non è una creazione umana, ma il campo di battaglia in cui svolge lo scontro incessante tra le forze del bene e quelle del male. E la battaglia finale, molti indizi ce lo fanno capire chiaramente, è già incominciata. Perciò sia come uomini che come cristiani, se ci riteniamo davvero tali, dobbiamo trarne le conseguenze: indossare la corazza ella fede, impugnare la spada delle virtù, e gettarci nella mischia, incuranti della nostra vita terrena: perché ad essere in gioco è la nostra vita eterna…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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