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Per vivere bene adesso nulla di ieri si deve perdere

I luoghi in cui viviamo sono parte essenziale del nostro essere: senza di essi, il nostro esistere sarebbe impensabile e, comunque, sarebbe insensato. Questa è la tragedia della modernità: avere ingabbiato miliardi di uomini all’interno di non luoghi dove non c’è essere, quindi non c’è identità, quindi non c’è appartenenza, né a se stessi, né alla comunità di cui fanno parte. La distruzione dei luoghi fisici e la loro sostituzione con dei non luoghi anonimi e artificiali si accompagna ed è il segno esteriore di uno sradicamento e di un’alienazione ancor più gravi, quelli interiori. L’uomo moderno è disancorato dalla verità, quindi non è a casa sua in nessun luogo e pertanto è a tutti gli effetti un estraneo e uno straniero, ovunque vada e qualsiasi cosa faccia. Cosa ancor più grave, è estraneo e straniero a se stesso, perché non si conosce, non si appartiene, non ha più dei legami profondi con i suoi simili. Le città moderne e gli altri non luoghi della modernità (autostrade, aeroporti, trafori stradali e ferroviari) sono costruiti in modo da rompere violentemente col passato, da annullare, cancellare i segni della vita precedente e quelli della natura, in modo che rimanga la funzione pura, slegata da ogni altro fattore. La bellezza dei luoghi, però, viene dalla fusione di funzionalità ed estetica: così la pensavano tutte le civiltà precedenti e così la pensavano anche i nostri nonni, come si vede osservando una casa, una strada, un borgo del periodo anteriore al boom economico, dove nulla è casuale, nulla è superfluo, ma tutto concorre alla fusione di funzionalità e senso estetico, dalla fontana che zampilla al centro del paese alle facciate decorate dei palazzi e alle sculture delle chiese. La ragion d’essere delle osterie, botteghe, dei mercati, perfino delle banche (intendiamo le piccole casse di risparmio fino agli anni ’60 del Novecento) era pensata non solo in funzione dell’utile e del profitto, ma anche in funzione del decoro, della dignità, della socialità, ed era questa filosofia che consentiva loro di rinnovarsi e di succedersi lungo il tempo, ma senza stravolgere l’insieme, senza rinnegare il passato, ma accogliendolo e assimilandolo nel presente, in un cammino virtuoso che andava dal passato al presente e dal presente al futuro, senza forzature, senza brusche lacerazioni, senza disprezzo o indifferenza per ciò che esisteva prima e che era stato realizzato dall’amore e dalla capacità dei padri.

Poi, con il boom, sono andati al potere gl’imbecilli. Amministratori comunali, urbanisti e architetti presuntuosi e ignoranti hanno abbattuto, demolito, sventrato i centri storici; con la scusa di riqualificarli, li hanno trasformati in isole dorate per i benestanti, gli stessi che se n’erano andati per sfuggire al degrado facendosi la villa in collina, mentre negli ultimi tempi erano divenuti il rifugio dei cittadini più poveri e anziani; e, già che c’erano, hanno demolito ciò che restava delle mura medievali, dei caseggiati di periferia e hanno messo mano a una modernizzazione forzata che ha i suoi riscontri oggettivi solo nei Paesi dell’ex blocco comunista e specialmente nella Romania di Ceausescu. Somiglianza tutt’altro che casuale, visto che gl’imbecilli di casa nostra erano quasi tutti professionisti e amministratori di sinistra, usciti da licei e università dove erano stati indottrinati da professori di sinistra, e ora identificavano rozzamente il passato col feudalesimo, o il clericalismo, o la superstizione, o col fascismo, usando questa parola nel senso più ampio e generico, così da includervi tutto ciò che non piaceva loro, perché emanava il sentore della piccola borghesia tanto detestata, anche se era stata quella che aveva costruito la nostra società ed era quella che, coi sacrifici dei genitori, li aveva portati alle posizioni dirigenti che ora indegnamente occupavano.

Scriveva lo storico friulano Tito Maniacco (Udine, 6 gennaio 1932-ivi, 21 gennaio 2010) nell’introduzione, significativamente intitolata La perdita dell’aura, al volume Venzone/Gemona. Indagine su due centri storici (edito dalla Comunità Montana del Gemonese e dall’Istituto Statale d’Arte di Udine nel 1980, quando le ferite del terremoto del 6 maggio 1976 erano state in parte rimarginate, ma erano ancora fresche e dolorose):

Tutti noi possediamo, inalienabilmente, degli spazi, la cui essenza, o aura, nin ci può essere tolta da nessuna violenza storica o naturale.

La complessità della questione è data dal fatto che è n noi possederla nello spirito, mentre assai di meno è in noi possederla concretamente.

È un dato di fatto che l’amore per il proprio spazio, quello che Bachelard definirebbe come "topofilia", ha subito nella coscienza collettiva, soggetta a trent’anni di un malformato sviluppo, un’erosione pericolosamente progressiva.

La contraddizione principale nasce quando si avverte che il cambiamento radicale di uno spazio geografico, che è sempre uno spazio storico, avviene a danno del rapporto uomo-natura.

Allora si prova una profonda nostalgia per le cose perdute. Il "come eravamo", da un piccolo settore del cervello, tende ad espandersi fino ad occupare l’essere sociale in tutta la sua interezza, poiché viviamo in epoca di transizione, e il futuro appare incerto e di non ben definite caratteristiche, mentre il disagio del modo di vivere presente (che è, certo, una critica subconscia — e quindi non avvertita razionalmente — dell’organizzazione sociale e politica in tutti i suoi aspetti) tende a crescere, il ritorno al passato e ai suoi vecchi modi di essere appare come una soluzione, se non soddisfacente, certo consolatoria. (…)

Osserviamo la struttura del territorio nel suo chiaro ordito geologico, su cui s’innestano cin rande naturalezza le costruzioni della civiltà dell’uomo: ponti, mura, case sparse, case asserragliate e strette intorno alle chiese, su cui spuntano i campanili, e la terra duramente e faticosamente scolpita dall’uomo nei secoli, i recinti di pietra, i fossi, i muri di sostegno, la vegetazione, i filari degli alberi, il disegno geometrico dei campi.

Mai in questa vicenda umana si nota la forzatura, la distruzione, la cesura violenta con la terra. Le mura, le pietre, i campi, le stradine, seguono le curve del terreno, salgono o scendono, e, ingegnosamente, s’adattano agli spazi, li colmano con terrapieni, si snodano, in una libera costrizione, attorno alle rocce, ai massi, alle ghiaie.

È in questa fatica materiale che l’intelligenza e la cultura umana e contadina risaltano in tutta la loro duttile forza. Questo paesaggio agrario è un concentrato d’armonia e di capacità d’usare tutto ciò che intorno la natura generosamente offre.

Le pietre e gli albero diventano naturali strumenti di costruzione, e in questo traspare come in un respiro minuto ma intellettualmente forte, l’innata grazia della NATURALEZZA DELLA NECESSITÀ. Qui l’estetica già si afferma, prima ancora che le immagini delle strutture artistiche, facciate, bifore, portoni, grondaie, campanili, statue, stemmi, affreschi compaiano, e quando compaiono essi SONO parti integranti, non aggiunte casuali, non abbellimento senza senso, ma strutture portanti e funzionali ad un complesso disegno sociale.

La civiltà contadina accanto alla società feudale convive e si compenetra, si condensa in una dilatazione da cui non è correttamente possibile estrarre, così come la storia dell’arte ci aveva abituati, il pezzo "bello". TUTTO È BELLO PERCHÉ È FUNZIONALE.

Qui sta l’incanto e la bellezza delle vecchie cose: l’indissolubilità dei rapporti formali che non viene mai deliberatamente spezzata dall’incedere continuo, in una sorta di spirale, di case comuni che s’aggirano sulle strade lastricate di sassi, e salgono e scendono e s’avvolgono, soffici, intorno a palazzi, a chiese di robusto respiro culturale, e la rande dignità urbanistica di questa sequenza è data dal fatto che la casa modesta e il muro di un orto da cui spuntano le stente viti o i rami di un fico o di un gelso, s’agganciano ad un muro di fattura più elegante che s’attacco allo spazio su cui sorge la fontana e su cui s’affaccia la chiesa.

Ma il dato positivo di questo grande arazzo dispiegato in brevi sequenze,e che è semplice riavvolgere nel proprio ordito strutturale, è che sotto si sente germinare un pensiero creativo, una proposta affinché niente vada perduto di ciò che è stato, affermando, nello stesso tempo, i diritti dei vivi in una società diversa a viver meglio.

In altre parole, ciò che rende devastante l’opera della modernità è il prevalere assoluto della funzione meramente economica, anzi, finanziaria, su ogni altra funzione. L’utile è il solo criterio di ogni realizzazione, non solo per ciò che riguarda l’organizzazione dello spazio fisico, ma anche di quello della narrazione visiva che plasma, a sua volta, l’immaginario collettivo, come il cinema, la televisione e perfino la pubblicità: si confronti la grazia leggera del Carosello degli anni ’60 con la greve, martellante, ossessiva insistenza e con la volgarità sbracata degli spot odierni, distribuiti all’interno dei programmi così copiosamente che questi finiscono, in pratica, per diventare un semplice pretesto per l’assalto agli spazi pubblicitari. Così, non solo il paesaggio esterno, ma anche quello interiore viene azzerato e ricostruito secondo modelli ispirati alla pura e semplice convenienza economico-finanziaria. La nostra mappa concettuale, perfino il nostro vocabolario, mediante il quale esprimiamo i concetti medesimi, subiscono una inesorabile operazione di trasformazione, ristrutturazione, radicale mutamento semantico. In questo modo, per gradi, ma in tempi nel complesso brevi, i poteri forti riescono a portare i popoli-mandrie là dove vogliono loro, senza che quelli se ne rendano neppure conto. Centinaia di milioni di persone sono confinate a vivere in città sempre più brutte, inquinate e invivibili, dominate dalla logica del profitto che è imposta dalla grande finanza, proprio come centinaia di milioni di credenti sono sospinti a lasciare la loro fede nel divino, ricca di spiritualità e di ascetismo, per abbracciare una nuova "fede", spacciata per la stessa di prima, ma palesemente eretica e apostatica, nonché idolatrica, volta ad adorare grossolanamente gli elementi della natura o gli idoli indigeni, come Pachamama: idoli brutti e fede brutta, perché impregnata di panteismo, animismo e materialismo, nonché di stregoneria, ma conforme alla svolta che il pontificato del signor Bergoglio ha voluto imprimere, irreversibilmente, a quella che era la Chiesa cattolica.

Infatti l’ossessione dei progressisti è sempre la stessa, sia che si tratti di architetti e urbanisti, sia che si tratti di teologi e sacerdoti, artefici, i primi, della strutturazione dello spazio materiale, i secondi dello spazio interiore: creare una situazione irreversibile, fare in modo che non si possa mai più tornare indietro. E come gli urbanisti modernizzatori demoliscono case e interi quartieri, e chiese o altri edifici di valore storico, allo scopo di tagliare deliberatamente i ponti con il passato, così i barbari esponenti della contro-chiesa bergogliana sono tutti impegnati a distruggere le vestigia del culto e della dottrina cattolica, affinché nessuno, dopo di loro, possa più ritrovarne la benché minima traccia. La barbarie consiste nella distruzione voluta del passato e nella rimozione di quel che è stato e di ciò che si è stati, per creare uno scenario totalmente nuovo, che riparta da zero. Solo un barbaro può desiderare una cosa del genere: e infatti ragionavano così Attila, Gengiz Khan, Stalin e Hitler, nonché i gentiluomini che decisero di sganciare le prime bombe atomiche su due città giapponesi completamente inermi (una delle quali, Nagasaki, guarda caso, era stata la culla del cattolicesimo giapponese). Con la differenza che mentre urbanisti e architetti profanano e distruggono una tradizione umana, per quanto nobile e degna di rispetto, teologi e sacerdoti profanano e distruggono una cosa che non è umana, ma di origine divina: tale è la Tradizione cattolica e tale è il Deposito della fede, sul quale, infatti, nessun papa prima del signor Bergoglio aveva mai osato metter le mani, anche se fin dal 1958 erano incominciati, discretamente, i lavori di demolizione. Ma quel che i lupi travestiti da pastori stanno facendo, è stato preparato con satanica astuzia e con subdola perfidia lungamente calcolata. A dispetto dell’apparente noncuranza con cui il demolitore argentino procede nella sua opera nefasta, ogni sua parola, ogni suo gesto e omissione sono stati attentamente studiati e vagliati. Quando, ad esempio, durante il viaggio "apostolico" in Colombia, nel settembre 2017, egli ha detto ai fedeli che nelle vene di Maria Vergine, quindi anche in quelle del nostro Signore Gesù Cristo, scorreva sangue pagano, non ha detto solamente una cosa avventata, sbagliata, dovuta al difetto di parlare a braccio su questioni dottrinali nelle quali è totalmente ignorante, ma è uno dei tanti tasselli del mosaico, ultimato il quale la fede cattolica sarà del tutto scomparsa e sostituita da una nuova fede, che avrà il suo centro nella persona di Bergoglio e, dopo di lui, nell’essere umano, visto non più come creatura, ma come pari al Creatore. Tutti i mali, infatti, vengono dall’allontanamento da Dio e dal rifiuto di Cristo. Questi signori non rifiutano Dio in maniera esplicita, ma lo fanno con mille astuzie: che altro è introdurre idoli pagani nella chiesa madre della cristianità, durante la santa Messa se non rifiuto di Cristo e dalla verità che è una sola cosa con Lui? Io sono via, verità e vita, Egli dice: chi lo crede è cristiano, e chi non lo crede, no.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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