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Non siamo noi ad essere cambiati, ma loro

Si dice che solo i paracarri restano sempre fermi al loro posto, sul ciglio della strada, per dire che è normale, per un essere umano, evolvere, e quindi anche mutare la propria visione del reale e il proprio atteggiamento pratico nei confronti della vita. D’altra parte, se si verifica un mutamento brusco e non graduale; se, dall’oggi al domani, una persona si mette a dire e a fare tutto l’opposto delle cose che diceva e che faceva sino al giorno innanzi; e se quella persona si è sempre interessata di questioni sociali e politiche e ne ha sempre messo a parte i suoi amici e conoscenti, impegnandosi anche in maniera diretta con delle attività pubbliche, che tutti gli altri hanno potuto vedere e giudicare, un simile repentino mutamento non può non lasciare alquanto perplessi. Sì: tutti possono cambiare opinione, mano a mano che l’esperienza concreta della vita suggerisce, e talvolta perfino impone, di rivedere, in modo più o meno drastico, le idee che si professavano un tempo, e specialmente in gioventù. Tuttavia, perché un cambiamento possa apparire dettato da ragioni limpide e non da cinico opportunismo, magari in vista di vantaggi personali, è necessario che esso avvenga in tempi e modi ragionevoli e credibili. Chi crederebbe al dolore sincero e inconsolabile di un vedovo che passi a nuove nozze una settimana dopo la morte della moglie? Per la stessa ragione, è molto difficile credere che una certa persona passi da una concezione di vita all’altra, nel giro di pochissimo tempo, senza dare adito a numerosi e legittimi dubbi.

Queste riflessioni sono fondate sul presupposto che la realtà è quella che è, vale a dire stabile, o almeno relativamente stabile; mentre gli individui, che vivono in essa la loro vita terrena, sono soggetti a evolvere ma, in tutti i casi, dispongono della libertà di pensare e agire, e quindi possono sia restare uguali a se stessi, sia cambiare, essendo entrambi i casi il frutto di una libera scelta, magari implicita, come lo è la scelta di non scegliere, e perciò di restare nel solco delle proprie abitudini. Tuttavia c’è una cosa che non funziona in questo modo di veder le cose: esso non tiene sufficientemente conto del fatto che l’avvento della modernità ha prodotto un’accelerazione impressionante nei ritmi di vita delle persone e anche nella struttura complessiva della società. Pertanto, se il mondo pre-moderno era caratterizzato da un notevole grado di stabilità, sotto molteplici punti di vista — economico, sociale, politico, culturale, spirituale, religioso — il mondo moderno tende a trasformarsi in maniera sempre più rapida: una rapidità che a un certo punto si è fatta così incalzante, e per certi versi minacciosa, da mandare in crisi un numero crescente di persone, le quali non riescono ad adattarvisi e, per così dire, a mantenere il suo passo (cfr. i nostri precedenti articoli: Lo "shock" della modernità banco di prova del nuovo ordine mondiale, pubblicato sul dito di Arianna Editrice il 25/06/07 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 14/12/17; e La fretta e la complessità della vita quotidiana alle origini del nostro "shock da futuro", sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 24/12/17).

Ora, si deve tener presente che, se la modernità, come fenomeno globale, esordisce verso il XVI secolo o al principio del XVII, di fatto essa è entrata nella vita delle masse solo molto più tardi, fra quella data e i dì presenti, avanzando a macchia di leopardo; mentre nella sua fase iniziale essa non era che un fenomeno di élite, riguardava pochi intellettuali, amministratori e uomini di governo e si imponeva alla vita della gente comune come qualcosa di calato dall’alto, ad esempio mediante le rapide trasformazioni delle strutture produttive e l’avvento, in particolare, delle macchine a vapore, in seguito delle macchine elettrificate e infine dei calcolatori elettronici. Nelle varie regioni d’Europa, la modernità è entrata definitivamente nella vita delle masse, modificandola in maniera irreversibile, in tempi diversi, così come diversi sono stati i tempi fra città e campagna, fra le grandi città e le cittadine di provincia, e perfino all’interno delle città stesse, fra le zone industrializzate o terziarizzate e i quartieri popolari, rimasti al margine, per un certo periodo, della corrente modernizzatrice. Il film di René Clair Porte des Lilas, che nella versione italiana è stato tradotto con Quartiere dei lillà (comprensibile la nozione di "quartiere" per render meglio l’idea; folle aver introdotto i "lillà" per indicare la Porte des Lilas, così chiamata perché conduceva alla cittadina di Les Lilas) mostra come, ancora nel 1957, alcune zone di Parigi vivessero in una atmosfera per certi aspetti pre-industriale, se non addirittura pre-moderna. In Italia, romanzi come Il quartiere di Vasco Pratolini, scritto nel 1943-44, confermano che perfino certi quartieri di una città come Firenze (in questo caso, il quartiere di Santa Croce) non vennero lambiti dai modi di vita della modernità se non a partire dagli anni della Seconda guerra mondiale, e tale impressione è confermata dai quadri di Ottone Rosai e di Mario Sironi, i quali, pur così diversi fra loro per la prospettiva adottata dagli autori, evidenziano, incrociandosi, la realtà ora enunciata. In altre parti d’Italia la modernità si è imposta pienamente ancor più tardi: si pensi a Cristo si è fermato a Eboli di Primo Levi, scritto anch’esso nel 1943-44, per la Basilicata, oppure La contrada di Carlo Sgorlon, del 1981 (ma ambientato in un periodo imprecisato nei primi decenni del Novecento), per il Friuli. E si potrebbero citare infiniti altri esempi, dal cinema, dalla letteratura, dalla poesia, dalla pittura e dalla musica leggera, fino a Il ragazzo della Via Gluck, di Adriano Celentano, del 1966; mentre L’Albero degli zoccoli, il film di Ermanno Olmi del 1978, è già la rievocazione di un mondo contadino scomparso irrevocabilmente. Ma a che scopo andare a visitare film, canzoni, libri, opere d’arte, quando basta avere sessant’anni per ricordare benissimo come i nostri quartieri, le nostre città, i nostri paesi e le nostre province avessero conservato ancora, in parte, un volto pre-moderno sia dal punto di vista produttivo e paesaggistico, sia, quel che più conta, dal punto di vista spirituale e morale, con la vecchia scuola dove ancora si curava la calligrafia, si imparavano le poesie a memoria, si ricordavano le date storiche, come la scoperta dell’America o la ricorrenza di san Francesco, patrono d’Italia, e si celebravano i valori tradizionali, Dio, la Patria e la Famiglia? Per non parlare della Chiesa cattolica, quella vera, quella di prima del Concilio, quando i bambini imparavano la dottrina sul Catechismo di Pio X, ed era un parlare , , e no, no, come ha insegnato Gesù Cristo, e non un parlare volutamente ambiguo, falso, truffaldino, come ci ha abituati, gradualmente e quasi insensibilmente, il clero post-conciliare.

Ebbene. Una persona che si è formata la propria visione del mondo negli ultimi anni della pre-modernità, oggi si trova in una situazione doppiamente difficile, scomoda, spinosa. La prima ragione, scontata, è che il rapido avanzare della modernità ha reso obsoleti modi di pensare e perfino di sentire: un esempio per tutti, il comune senso del pudore. Ciò che era scandaloso, e perciò impensabile, fino ai primi anni ’60, oggi è divenuto naturalissimo, anzi, oggi fa sorridere, perché le cose che fanno scandalo, ammesso che ce ne siano ancora, sono quelle che allora nessuno sarebbe arrivato a concepire, tranne, forse nei romanzi o nei film di fantascienza. Per scandalizzare qualcuno, oggi, bisogna semmai tornare ai comportamento tradizionali, per esempio nel caso della moda, o nell’uso del tempo libero, cioè lì dove più facilmente di lascia trasparire ciò che si è e ciò che si desidera essere nei confronti del rapporto col mondo esterno. Ma c’è un’altra ragione che rende scomoda e difficile posizione delle persone che hanno oltrepassato la mezza età: vale a dire un processo molto abile, molto sottile, almeno nelle sue fasi iniziali, perché oggi, viceversa, è evidentissimo, solo che le menti disabituate al pensiero critico non riescono a coglierlo, pur avendolo tutti i giorni davanti agli occhi: lo slittamento e il rovesciamento pressoché totale delle ideologie, dei valori ad esse correlati, degli stili di vita da esse ispirati. Un osservatore acuto (anche se per altri aspetti criticabile) come Pier Paolo Pasolini se n’era accorto già al principio degli anni ’70: notando, per esempio, che portare i capelli lunghi, per i ragazzi, era stato un segno di contestazione da sinistra del "sistema", almeno fino a tutti gli anni ’60, ma poi, a un certo punto, non si sa bene come, era diventato una moda a tutti gli effetti, e perciò un segno di conformismo, e quindi non un elemento di contestazione mediante il linguaggio corporeo, ma al contrario un elemento di assenso e di consenso a quel "sistema" che solo pochi anni prima i giovani parevano intenzionati a prendere d’assalto e ad espugnare, considerandolo come la radice di tutti i mali, le menzogne, le turpitudini, le ipocrisie e le ingiustizie dell’universo. Oggi per scandalizzare qualcuno, una ragazza non ha bisogno di spogliarsi e andare in giro per le strade praticamente nuda — ce ne sono cento e cento altre che fanno già la stessa cosa, e ciascuna cerca di spingersi un po’ oltre, sicché la gente non si stupisce più di tanto; ma bisogna che annunci ai suoi amici di aver maturato la vocazione di farsi suora di clausura: allora sì, possiamo esser certi che scoppierà un vero e proprio scandalo, e che molti insorgeranno per distoglierla da un così insano proposito.

Gli intellettuali si sono posti brillantemente al timone di questa conversione a "u", avendo però cura di guardarsi bene dal dichiararlo apertamente: no, essi non stavano mutando la loro ideologia – di sinistra, ovviamente: la sola che avesse diritto di cittadinanza nella cultura degli anni dal 1945 in poi; al massimo, se proprio si vedevano costretti a fornire qualche spiegazione, dicevano di essere impegnati in un’opera di adattamento e assestamento, per poter agire più efficacemente sulla realtà. La stessa spiegazione, mutatits mutandis, che nella Chiesa cattolica teologi e vescovi, se proprio vi erano costretti, davano della "svolta" conciliare rispetto alla dottrina e al Magistero di sempre: loro non stavano cambiando niente, stavano solo adottando delle modalità di comunicazione più consone ai tempi nuovi, più adeguate alla realtà del mondo moderno. E così i professori nelle scuole, i sindacalisti nelle piazze, gli amministratori pubblici quando rilasciavano interviste ai giornali, perfino i cantanti, impegnati a cantare emozioni e sentimenti privati laddove, fino a qualche anno prima, era d’obbligo cantare emozioni e sentimenti collettivi, in omaggio all’impegno sociale che la sinistra egemone imponeva e pretendeva da tutti, come la sola maniera giusta di porsi di fronte alla realtà. Tutt’al più, era permesso parlare ancora di emozioni e sentimenti privati, a patto di attribuirli alla marcia e decadente borghesia, e farne oggetto di scherno, di ludibrio, nonché modello paradigmatico di tutto ciò che è brutto, turpe e immorale nella società contemporanea. Allora sì, che si poteva parlarne: e che gusto a sparare a zero, bordate su bordate di fango, contro quelli che ancora credevano nella famiglia, nel lavoro, nell’ordine, nella sana educazione dei bambini, nell’amor di Patria, nel rispetto degli anziani, e avevano un atteggiamento di ascolto e umiltà di fronte alla tradizione! Un poco alla volta, pian piano, l’ideologia progressista è mutata, ha preso nuove strade, si è indirizzata verso altre mete, ha preso a cuore altre cause: dopo la difesa dei lavoratori, la difesa dell’ambiente; dopo gli scioperi studenteschi contro la scuola, gli scioperi comandati dalla scuola, magari per correr dietro al carrozzone mediatico di Greta Thunberg; dopo le lotte per affermare la fantasia al potere, la sottomissione totale ai voleri della BCE; dopo la religione di Marx, quella del Povero Migrante; dopo i diritti della donna, i diritti dei transessuali; e dopo il rifiuto di Dio, della Chiesa e dei preti, la strettissima alleanza con una religione, una chiesa e un clero che non parlano più di Dio, tanto meno di Gesù Cristo e si farebbero torturare piuttosto di ammettere che il Regno di Dio non è di questo mondo, ma che hanno sempre in bocca i migranti, la biodiversità, la plastica, il clima, la crociata contro il razzismo. Anche se ormai l’unico razzismo è quello che discrimina i bianchi, i cittadini europei, la loro civiltà, i loro valori, la loro religione (quella vera e non l’oscena contraffazione del signor Bergoglio e dei suoi complici).

Pertanto, arrivati al punto in cui siamo, non è affatto segno d’incoerenza, ma al contrario di una vera e profonda coerenza con se stessi, nello stravolgimento generale operato dai padroni del mondo, i signori della grande finanza, mediante il controllo dei mezzi d’informazione, della magistratura, della scuola, dell’università, ecc., professare un atteggiamento che solo in apparenza contraddice il precedente, ma nel profondo è rimasto fedele ai valori di sempre. Una persona che era accogliente e ben disposta verso i primi immigrati, ora non li può neanche vedere: non è lei che è cambiata, ma la situazione: ora non si tratta di piccole quote di bisognosi, ma di masse strabocchevoli di soggetti che volentieri delinquono e hanno trasformato città e quartieri in fortini assediati, con le prostitute e gli spacciatori nigeriani che stringono in una morsa i pacifici cittadini, e i rapinatori rom che si aggiungono a quelli nostrani, rendendo pericoloso non solo uscir di casa, ma anche restarci. E una persona che si fidava della sua banca, dei politici, dell’Unione Europea, ora è diventata insofferente di tutte queste agenzie e istituzioni e le percepisce come suoi nemici mortali, responsabili del peggioramento della vita, dell’aumento della povertà e della mancanza di lavoro per i suo figli, costretti ad andare all’estero benché laureati. La gente è esasperata e aggressiva: a cambiare non è stata lei, ma i cinici oligarchi della modernità hanno mutato le coordinate del reale e imposto cinicamente la legge dello sfruttamento totale e della mercificazione d’ogni cosa. Chiusi nella loro autoreferenzialità, politici e intellettuali di sinistra non sanno far altro che colpevolizzare la gente…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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