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È legittimo usare l’arte per suscitare il disgusto?

Quando, nel 1896, apparve, a Londra, il romanzo di Herbert George Wells L’isola del dottor Moreau (The Island of Dr. Moreau), la crudezza sconvolgente dell’ambientazione e la violenza di alcune scene provocarono un dibattito fra i critici letterari. E vi fu chi, tra essi, ponendo la questione non solo estetica, ma altresì etica, dell’impatto che libri simili possono avere sul pubblico, sollevò in modo esplicito la domanda se un autore abbia o meno il diritto, in nome della propria libertà artistica, di scandalizzare i lettori, suscitando in essi dei sentimenti come il fastidio, il disgusto, la repulsione e il ribrezzo.

Scriveva il saggista Claudio Pagetti nell’introduzione a L’isola del dottor Moreau (traduzione dall’inglese di Rossana De Michele, Milano, Rizzoli, 1964, 1995, p. XII-XIII):

Le implicazioni empie dell’"Isola del dottor Moreau" furono facilmente riconosciute dalla cultura dell’epoca, e il romanzo venne attaccato per la sua crudeltà e per il contenuto blasfemo. Ad esempio una recensione uscita sull’"Athenaeum" del 9 maggio 1896 (allora anonima, ma l’autore è Basil Williams) contestava il romance dal punto di vista estetico: "Gli orrori descritti da Wells nel suo ultimo libro sollevano in modo molto pertinente una questione: fino a che punto è legittimo creare sentimenti di disgusto in un’opera d’arte". Altri non esultavano a esprimere dubbi sulla moralità del libro. Per il recensore dello "Speaker" Wells aveva "perseguito l’originalità a spese della decenza… e del senso comune".

Così, la questione era posta. Fino a quel momento, a nessuno scrittore era venuto in mente di provocare disgusto nel pubblico, con poche isolate eccezioni: o di autori volutamente blasfemi e deliranti, come F. A. De Sade, che non ha caso ha lasciato il suo nome alla patologia sessuale da lui celebrata, il sadismo, o di altri che volevano stupire, più che disgustare, con la loro originalità estrema, come G. B. Marino e altri lirici del barocco, che nelle loro poesie hanno parlato delle donne pazze, vecchie, pidocchiose, zoppe, perfino indemoniate. Fra gli antichi, Orazio si è distinto nel rappresentare alcuni degli aspetti più laidi della natura umana, non tanto allo scopo di disgustare il pubblico, quanto per mostrare la vanità e la follia di certe passioni e consigliare la saggia misura in tutte cose. Ma poi la modernità giunge a piena maturazione e gli scrittori cominciano a trovare normale scrivere ciò che urta frontalmente il senso del bello, del buono e del lecito, e offende il pudore del pubblico: e come se non bastasse se ne vantano, in nome della sincerità e della lotta contro quelle che naturalmente chiamano, con sommo disprezzo, l’ipocrisia e la falsa rispettabilità borghesi. Ed ecco come E. M. Forster, nella sua Nota dell’Autore, ci riferisce la genesi del proprio romanzo a sfondo autobiografico Maurice, che, scritto nel 1913-14, non si decise mai a pubblicare, e che avrebbe visto la luce, postumo, solo nel 1971 (da: E. M. Forster, Maurice; traduzione dall’inglese di Marcella Bonsanti, Milano, Garzanti, 1972, 1987, pp. 13-14):

Nella sua forma originale, che oggi conserva quasi inalterata, "Maurice" risale al 1913. Fu la conseguenza diretta di una mia visita ad Edward Carpenter, che abitava a Milthorpe. Carpenter godeva di un prestigio che non potremmo comprendere ai giorni nostri. Era un ribelle appropriato al suo tempo. Era sentimentale, e un po’ sacramentale, perché in gioventù aveva fatto il prete. Era un socialista che ignorava l’industrialismo, un fautore della vita semplice che viveva di rendita, un poeta nella sia di Walt Whitman, la cui nobiltà eccedeva la forza, e infine, un credente nell’Amore dei Compagni, che talvolta chiamava uraniani. Fu questo suo ultimo aspetto che mi attirò nella mia solitudine: per un ceto tempo mi parve che Carpenter possedesse la chiave d’ogni afflizione. Lo conobbi per il tramite di Lowes Dickinson, e mi avvicinai a lui come ci si accosta a un salvatore.

Dovette esse nel corso della mia seconda o terza visita asl santuario che scoccò la scintilla, e lui e il suo camerata George Merrill si fusero per produrre su di me una impressione profonda e per toccare una molla creativa. George Merrill mi toccò inoltre il sedere… con delicatezza, immediatamente al disopra delle natiche. Credo lo toccasse quasi a tutti. Fu una sensazione inconsueta e la ricordo ancora come ricordo la posizione di un dente perduto da un pezzo: psicologica oltreché fisica. Sembrò che mi schizzasse su dalle reni fin dentro alle ide, senza coinvolgere i miei pensieri. Se lo fece davvero, dové agire in stretta concomitanza col misticismo yogicizzato di Carpenter, e dimostrare ch’io avevo concepito in quel preciso momento.

Tornai quindi a Harrogate, dove mia madre stava facendo una cura, e cominciai a scrivere senza metter tempo in mezzo. Nessun altro dei miei libri è partito con un simile slancio.

Ebbene: poniamo che un lettore si senta disgustato dal fatto che Forster vuol metterlo a parte di simili particolari; poniamo che un lettore trovi disgustoso che voglia far sapere che un uomo gli ha palpeggiato il sedere, e che la cosa lo ha mandato in estasi, addirittura accendendogli l’ispirazione come un razzo. Anche qui si pone la questione: uno scrittore ha il diritto di disgustare il pubblico in nome della sua (pretesa) arte? Certo: avremmo potuto scegliere un esempio meno politicamente scorretto, fra i cento e cento che la letteratura odierna ci offre, per non parlare del cinema, della televisione, della pubblicità, delle arti figurative. Ci rendiamo perfettamente conto della delicatezza del tema; e tuttavia, senza con ciò voler aprire una discussione nella discussione, cosa che ci allontanerebbe dal nostro assunto, riteniamo che certi nodi vadano affrontati, specie se sono di grande rilevanza sociale, anche e specialmente se la cultura politicamente corretta li evita per non suscitare un vespaio. Oggi, a differenza che nel 1913, quando Forster scrisse, in gran segreto, il romanzo che il palpeggiamento del suo fondoschiena aveva fatto scaturire come per magia, il tema tratto dal suo libro non è più scandaloso: anzi, le cose si sono rovesciate a un punto tale che, per fare scandalo, uno scrittore dovrebbe parlare di un ragazzo o di una ragazza che hanno sentito la vocazione religiosa e hanno scelto di chiudersi in convento. Resta il fatto che tanto un secolo fa, quanto ai nostri dì, c’è una parte del pubblico che si sente disgustata dall’ostentazione di simili dettagli. E se il palpeggiamento avesse riguardato un fondo schiena femminile, ci verrà subito obiettato, allora quei lettori non sarebbero stati disgustati? Ovvio che se si risponde di sì a una tale domanda trabocchetto, si va incontro automaticamente all’accusa di omofobia; cosa che, di questi tempi, potrebbe comportare anche delle conseguenze penali. A costo di peccare d’ingenuità, ci rifiutiamo di pensare che la libertà di esprimere le proprie opinioni sia stata conculcata fino a questo punto e quindi proviamo a rispondere alla scomodissima obiezione. Se si fosse trattato di un fondoschiena femminile, la cosa, dal punto di vista di quei lettori, avrebbe riguardato la sfera del buon gusto, ma non avrebbe suscitato disgusto. A suscitare disgusto sono le cose che vanno contro il sentire comune, contro il comune senso estetico e contro il comune senso della decenza. Siamo consapevoli che questo è un terreno infido e minato: chi stabilisce cosa sono il comune senso del bello, del sano e di ciò che è decente? Nondimeno, respingiamo questi sofismi, perché sono tali e non delle obiezioni serie, dal momento che necessariamente tutta la nostra vita, le decisioni che prendiamo, gli esempi che diamo ai nostri figli, si basano sul comune sentire, sul comune senso del bello e sul comune senso del pudore. I confini dei quali, senza dubbio, sono diversi da persona a persona; e tuttavia ci sono, esistono, non sono un’invenzione di preti e moralisti: tanto è vero che, quando vengono oltrepassati, subentra, appunto, una sensazione di disgusto. Anche qui, è naturale, i fautori della società permissiva e libertina, i relativisti incalliti, obietteranno che il problema riguarda ormai una minoranza di persone, perlopiù anziane, che non si vogliono adattare ai tempi nuovi, alla trasformazione culturale che ha investito la nostra società; e che per risolverlo essi dovrebbe fare ricorso alla psicanalisi, "curando" il disgusto che provano come se fosse una malattia. È curioso: un secolo fa era l’omosessualità ad essere considerata una malattia, anzi, fino a cinquanta anni fa quasi tutti i manuali di psicologia la trattavano come tale; ora a essere dichiarato patologico è il sentimento di rifiuto e di disgusto di fronte alla sua ostentazione. Perché di questo si tratta, non perdiamo il punto: nessuno vuol negare alle persone omosessuali il diritto di esistere (anche se l’uso che intendono fare della loro tendenza è cosa che riguardala la loro libertà di scelta, come del resto lo è per tutti gli esseri umani, e non solo nella sferra sessuale: non è imposto dalla natura), bensì stiamo discutendo della legittimità della sua ostentazione, nella fattispecie attraverso le pagine di un’opera letteraria. Imporre al lettore di apprezzare una scena come quella descritta da Forster nella nota introduttiva al suo romanzo equivale a imporgli di sorbirsi un qualcosa che lo può disgustare. È giusto, è legittimo? Lo scrittore ha questo diritto? E non solo, ripetiamo, nella sfera sessuale, ma in qualsiasi ambito. L’arte giustifica tutto? In nome dell’arte si può scrivere o rappresentare qualsiasi cosa, anche le aberrazioni più rivoltanti? Di fatto, è quel che gli esponenti della cosiddetta arte contemporanea stanno già facendo, a vele spiegate, da circa un secolo; ma la pratica di una certa cosa non legittima il suo buon diritto: se anche tutti rubassero, ciò non legittimerebbe il furto. Oppure sì?

Per i relativisti, la risposta a quest’ultimo interrogativo non può che essere positiva: s’ei piace, ei lice (Tasso, Aminta). Noi però la pensiamo in maniera totalmente opposta; e ci conforta sapere che siamo nella scia del Vangelo di Gesù Cristo, nonché di sant’Agostino, di san Tommaso d’Aquino, di Dante Alighieri e di mille e mille altri spiriti eletti, se pur non altrettanto geniali. Al che prevediamo una nuova obiezione: essere in accordo con san Tommaso e con Dante, nel XXI secolo, è una virtù oppure è un segno di disadattamento? Perché, se fosse vera la seconda alternativa, il disgusto che possiamo provare davanti a certe forme di "arte" sarebbe un problema solo nostro, che noi stessi dobbiamo risolvere, perché la società non soffre di alcun problema al riguardo. Rispondiamo che essere in linea con san Tommaso e con Dante, e soprattutto con il Vangelo, ci conforta e ci riempie di orgoglio: perché i valori morali non sono negoziabili, non cambiano col tempo; quel che può cambiare riguarda solo certe forme esteriori, ma non la sostanza delle cose. E Dante, che condanna i sodomiti al fuoco eterno, ma si rivolge con affetto e rispetto al suo vecchio maestro ser Brunetto Latini, sodomita anche lui, ci offre la chiave per adottare il giusto atteggiamento verso chi va contro la legge morale: comprensione e delicatezza verso le persone, ma fermo rifiuto e decisa condanna del loro modo di vivere, anche e specialmente se esso si accompagna all’ostentazione, magari spacciata per "franchezza" o "sincerità".

Questo è anche il giusto atteggiamento da tenere, a nostro avviso, verso quelle opere letterarie, o artistiche, o di pensiero, che provocano in noi il disgusto perché ostentano cose, situazioni e aspetti dell’animo umano che andrebbero trattati in altre forme e in altri contesti, e non semplicemente sbattuti in faccia al pubblico, infischiandosene dell’effetto che possono produrre, specialmente sui più giovani e meno preparati. Non stiamo affermando che l’arte debba essere intenzionalmente morale e pedagogica; stiamo affermando che essa non può essere intenzionalmente immorale e antipedagogica. C’è differenza fra le due cose. L’artista è libero di rappresentare la realtà secondo la sua ispirazione, ma entro i limiti della legge morale; se li oltrepassa, è lui che pecca di ideologia, cioè di un intento extra artistico. E infatti i fautori del libertinismo sono sempre pronti a censurare i critici che, come quelli citati nel primo brano, lamentano la mancanza di buon gusto o di moralità nelle opere che puntano allo scandalo, però non censurano affatto, anzi lodano, quegli autori i quali, pur di celebrare e ostentare ciò che è fuori dalla norma, non esitano a piegare le ragioni dell’arte ad una precisa volontà di propaganda ideologica. Sappiamo come viene giudicato tale atteggiamento nel contesto di una cultura relativista, come quella oggi imperante: conservatorismo, moralismo, chiusura verso il progresso. Eppure, ciascunoa di queste accuse ci rende orgogliosi, visto che non diamo loro l’interpretazione negativa che oggi è implicita in esse. Conservatori? Se amare la tradizione e desiderare che essa continui ad essere la linfa viva del nostro modo di sentire, di pensare e di vivere significa essere conservatori, lo siamo senz’altro; e, rovesciando il ragionamento dei nostri critici, ciò non è affatto un problema per noi, tanto più che non ci sentiamo affatto nevrotici e non abbiamo alcun desiderio di sottoporci alla cosiddetta terapia psicanalitica. Moralisti? Se con ciò s’intende che non siamo disposti a prescindere dalla legge morale, né a fare sconti o eccezioni, compreso l’ambito della espressione artistica e letteraria, allora accettiamo la definizione e riteniamo che riceverla sia un onore. Chiusura verso il progresso? Se l’attuale deriva verso la dissoluzione di tutti i valori è il progresso, allora ben venga il rifiuto d’un progresso così aberrante…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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