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Ci si può bagnare due volte nella stessa acqua?

Tutti i problemi filosofici, psicologici, esistenziali, spirituali, morali, si possono in fondo riassumere in questa sola domanda: è possibile bagnarsi due volte nella stessa acqua? Perché in questa domanda è implicita l’altra, ancor più radicale e imperativa: è possibile per un essere umano, prima che il suo tempo sulla terra sia scaduto, ritrovarsi? Non, banalmente, trovarsi: perché tutti credono di sapere, credono di aver capito, che la vita umana sia quel percorso che ci è dato affinché noi possiamo trovare noi stessi. Se così fosse, avremmo a che fare con un problema, per così dire, di tipo essenzialmente spaziale: la vita sarebbe uno spazio che ci viene assegnato per trovare la strada che conduce dal punto A al punto B, laddove il punto A indica il nostro io inconsapevole e il punto B designa l’io consapevole di sé medesimo, e perciò divenuto adulto. Invece il problema è assai più complesso di così, anche perché non si tratta di trovarsi, ossia di realizzarsi, in un modo qualsiasi, secondo il nostro gusto e il nostro capriccio, bensì di trovarsi così come dobbiamo essere, così come siamo stati chiamati ad essere. Ma soprattutto si tratta di un problema spaziale e anche temporale, perché ha a che fare con la questione del tempo. Non possiamo disporre di un tempo illimitato; inoltre, non possiamo disporre di un tempo prevedibile e pianificabile, bensì di un tempo incerto, aleatorio, che in qualsiasi momento può esserci tolto, indipendentemente alla strada che abbiamo fatto, tanto o poca, nella giusta direzione. Il tempo, peraltro, gioca su due piani differenti: da un lato c’è il lasso di tempo del quale possiamo disporre, ma che non sappiamo quale durata avrà; dall’altro c’è il rincorrersi del tempo alla ricerca di se stesso, perché, appunto, tutta l’esistenza umana non è che un tentativo di ritrovarsi, e quindi di risalire all’indietro la corrente del tempo, vincendone le leggi meccaniche e l’inesorabile automatismo. Il fattore spazio e il fattore tempo, poi, s’intrecciano e creano un livello ulteriore di complessità, come in una partita a scacchi della quale noi, che siamo i giocatori, non conosciamo tutte le mosse che sono possibili, e siamo obbligati a procedere con difficoltà, per tentativi ed errori.

In un certo senso, la questione se ci si possa immergere due volte nella stessa acqua si può rappresentare anche con un’altra immagine, quella di un fiume che risale dalla foce alla sorgente. È possibile che l’acqua di un fiume si riavvolga su se stessa e che la sua corrente, invece di procedere dall’alto al basso, proceda dal basso verso l’alto? Il fiume, rappresenta sempre la nostra esistenza: l’immagine dell’acqua che rifluisce all’indietro, verso il punto dal quale è scaturita, vuol rendere in maniera plastica il grande problema filosofico che si pone a chiunque voglia vivere in maniera consapevole: si tratta di capire se, e come, ci sia consentito il ritrovarci. Infatti, che ce ne rendiamo conto o no, tutta l’esistenza non è che un continuo viaggiare intorno al punto di partenza: non è che una nostalgia delle origini, una brama di ritrovare ciò da cui ci si è allontanati. La nostalgia dell’infanzia perduta che prova l’adulto è solo un aspetto, quello più visibile ed esteriore, di una questione molto più ampia e complessa, e che Platone ha tentato di renderci familiare con il mito della biga alata. C’è qualcosa, in origine, che noi conosciamo, o meglio che conoscevamo, e poi abbiamo scordato; qualcosa di cui abbiamo fatto esperienza e che ci ha riempito l’anima di luce e di splendore, mentre poi ci siamo ritrovati per una selva oscura, incerti e smarriti, e costretti a vagare a casaccio, senza saper bene dove dirigere i nostri passi, ma con quell’ardente desiderio in fondo al cuore: talmente in fondo che molti, pur avendolo, non lo conoscono neppure. E non è neppure, si badi, il mito del buon selvaggio, di una innocenza e di una purezza originaria che poi la società ha corrotto; ma è, semmai, il riflesso di un altro mito, e qui la parola mito acquista tutt’altro spessore, il mito cristiano della Caduta. Ciascuno di noi reca entro di sé l’oscura coscienza di uno stato dell’essere completamente diverso da quello attuale: lo stato di Grazia, che consisteva nel vivere in piena conformità col progetto del Signore Iddio, uniformando la propria volontà alla Sua, o meglio annullando la propria per essere tutt’uno con la Sua.

In fondo al nostro essere, a volte ben nascosta, giace una intima, irriducibile, inestirpabile consapevolezza: che il nostro vero stato è lo stato di Grazia; che noi, creati da Dio per conoscerlo, amarlo e servirlo, abbiamo, o meglio avremmo, tutti gli strumenti necessari per realizzare il nostro destino; e che se non ci riusciamo, o se neppure ci proviamo, ciò dipende dal fatto che non siamo più in stato di Grazia, e che in tale perdita, in tale separazione, in tale intima tragedia, noi tutti, e non solo Adamo ed Eva, nostri lontani progenitori, abbiamo una precisa responsabilità. Perché una vita trascorsa senza neppure avvicinarsi a quel reintegro è veramente una vita sprecata: una tragedia senza redenzione, perché nulla può riscattarci da una simile eventualità. Eppure, finché il tempo a nostra disposizione non è scaduto, nulla è perduto: per quanto lontani possiamo esserci spinti dalla meta, nulla rende impossibile la felice conclusione del viaggio. Qui non vige, infatti, la logica delle faccende ordinarie, dove il tempo e le distanze sono elementi fissi, e se dobbiamo recarci dal punto A al punto B che distano, poniamo, tre settimane di cammino, sappiamo che non potremo mai farcela se ne abbiamo a disposizione una soltanto, o magari un giorno appena. Qui il tempo e lo spazio possono giocare a nostro favore, perché capire è trovare immediatamente la strada e porsi senz’altro in condizione di giungere alla meta. La meta coincide con l’origine: è Dio; da Lui veniamo e Lui ritorniamo, passando per due porte strette: la nascita e la morte, che è come una seconda nascita: la nascita alla vita nella dimensione dell’assoluto, fuori dal tempo e dallo spazio, fuori da tutti ciò che è inessenziale e impermanente. Il problema è che, nella vita terrena, tendiamo ad aggrapparci proprio a ciò che è inessenziale e impermanente, perché non capiamo che, con esso, non ci si procura i mezzi per entrare nell’assoluto, ma solo per navigare a vista nelle acque basse del relativo. La nostra vita terrena è affondata nel relativo, e tuttavia è in funzione dell’assoluto: per questo ci è data e per questo dobbiamo farne buon uso.

Conoscere Dio è la stessa cosa che conoscere la Verità: la nostra vita è, o dovrebbe essere, la ricerca della verità. Per farlo, ci sono due strade, che non si escludono a vicenda, semmai si intergrano e si completano: quella della ragione e quella della fede. Con la ragione si può giungere a dimostrare l’impermanenza del mondo e l’esistenza necessaria di Dio, nonché quella di un piano sapientemente ordinato al bene di tutte le cose che esistono. Perché mai Dio le avrebbe create, se non per condurle al massimo grado di bene? Se così non fosse, questa sarebbe una grave imperfezione nel piano divino, e dunque Dio non sarebbe Dio, ma un mediocre demiurgo che non sa, non può o non vuole condurre ogni cosa verso il fine migliore per essa. Il bene dell’uomo, come afferma Aristotele, è realizzare se stesso in quanto essere razionale; ma, come abbiamo detto, non per mezzo di una realizzazione qualsiasi, bensì con la realizzazione che consiste nell’uniformarsi pienamente e incondizionatamente al piano divino. E poiché il sommo Vero è anche il sommo Bene, ne consegue che, votandoci interamente alla verità, operiamo anche per la nostra felicità: perché là dove c’è la verità, c’è il bene, e dove c’è il bene si è felici; mentre nessuna felicità è possibile quando si è lontani dal bene e lontani dal vero. Nella menzogna e nel male non si trova alcuna felicità, ma solo una sua diabolica contraffazione: si trova l’illusione di essere felici, cui necessariamente fa seguito la più amara delle disillusioni. Evidentemente, il fine dell’uomo non è realizzarsi in quanto animale dotato di sensi e appetiti: questo equivarrebbe, per lui, a una degradazione, poiché ciò che vi è di più perfetto, nella sua natura, è la facoltà razionale e non questa o quella facoltà animale, che egli condivide con i bruti. E poiché la realizzazione implica la felicità, se ne deve concludere che l’uomo è felice quando riesce a realizzarsi in ciò che vi è di più perfetto in lui e non in ciò che vi è d’inferiore. Soddisfare gli appetiti dei sensi, rimpinzarsi di cibo, concedesi ogni sorta di piacere sessuale, procurarsi una casa lussuosa, degli abiti costosi e dei gioielli o del denaro, occupare posizioni di potere, specie se facendo ricorso alla menzogna, all’adulazione, all’inganno o alla violenza, non sono cose degne dell’uomo e non recano la felicità, ma lo stordimento e l’abietta assuefazione alle cose grossolane, alla voluttà bestiale. Chi brama ciò e chi si ritiene infelice se non riesce ad averlo, tradisce la natura umana in quel che ha di più ammirevole: la facoltà razionale, che aspira alla verità nell’ordine superiore dell’esistenza. Ecco perché non servono denaro, né potere, né sregolati piaceri sensuali, per essere realmente felici, anzi sono d’impedimento: perché trattengono l’anima nelle dimensioni inferiori, dominate dagli istinti e non dalla ragione.

E ora torniamo al nostro assunto iniziale. Realizzare la propria natura umana significa votarsi alla ricerca della verità; e tuttavia la ricerca sarebbe deludente, e quindi non recherebbe alcuna felicità, se non approdasse mai alla certezza del vero, ma brancolasse perennemente nel vuoto. La natura umana desidera l’appagamento di ciò che spera, e questo vale anche per la facoltà razionale (che gli illuministi, riduttivamente, identificano tout court con la "ragione", ad esclusione della sensibilità e della spiritualità). Per essere felice, l’anima deve giungere al vero, o almeno in prossimità del vero e al cospetto del vero. Ma il Vero è la stessa cosa che Dio; dunque, per essere felice, l’anima deve giungere a Dio. Eppure fra l’uomo e Dio vi è una distanza abissale: la loro differenza è ontologica e non quantitativa. Infatti, dire che l’uomo è fatto a immagine di Dio è usare una metafora che esprime solo imperfettamente ciò che unisce e ciò che separa le due nature, quella della creatura e quella del Creatore. La creatura non potrebbe neanche lontanamente avvicinarsi al mistero del suo Creatore, se non ricevesse l’aiuto di Questi. Sia la ragione, sia la fede sono doni di Dio, che l’uomo può e deve richiedere, ma che non può pretendere di possedere. Se la ragione non è illuminata dalla fede, non giunge alla Verità, ma sprofonda sempre più nell’errore, accecata dalla presunzione; e se la fede non è guidata dalla ragione, rischia di scivolare in basso e di perdersi nell’idolatria, rivolgendosi non verso la Verità divina, ma verso le menzogne costruite dall’umana ignoranza, verso idoli e feticci dietro i quali non c’è l’unico e vero Dio, ma ci sono i demoni infernali che lo illudono e lo sottomettono ai loro voleri. Parrebbe dunque di essere giunti in un vicolo cieco: come può essere la ragione illuminata dalla fede, se la fede è un dono gratuito di Dio? E come può la fede essere sostenuta dalla ragione, se anche la ragione, per volgersi a vantaggio dell’uomo e non divenire una fonte di errori che umiliano la sua natura, deve ricevere il dono della Grazia che ne fa uno strumento di elevazione e di vero perfezionamento?

Qui torniamo al punto di partenza. Trovare il senso della propria vita equivale a ritrovarsi, perché nelle creature di Dio c’è già il seme della verità, dato che esse vengono dall’Amore e dalla Sapienza divina. Poi, lungo il loro cammino terreno, scordano tutto, o quasi tutto; resta in loro, però, una oscura nostalgia, una specie di ricordo: la sensazione di avere già in se stesse ciò che vanno cercando, non come una dote umana naturale, ma come un dono soprannaturale che ci è stato dato fin dall’inizio. La Grazia, infatti, lavora nel nostro profondo e ci suggerisce la strada: sta a noi fare silenzio e ascoltare. Ecco perché Gesù ha detto che i bambini hanno degli Angeli custodi che vedono il volto di Dio; ed ecco perché ha detto che le anime semplici entreranno nel Regno dei Cieli prima dei sapienti e degli intelligenti, ossia di coloro che si ritengono tali. Per vivere nello stato di Grazia, bisogna farsi piccoli come i bambini, e semplici come gli ultimi fra gli uomini; chi confida in se stesso, chi si crede grande perché gli uomini lo salutano come se fosse tale, è già fuori strada, è già lontano dalla Verità. In genere questo peccato di superbia si accompagna al potere e al successo, ma anche all’intelligenza, il cui cattivo uso spinge ad attribuire a se stessi i meriti che sono, invece, un dono di Dio. Tornare a se stessi significa tornare ad essere piccoli e semplici, come è gradito a Dio: e, nello stesso tempo, ritrovare la propria parte più vera, la migliore. Il male è il disincanto del modo, la perdita della meraviglia: perché è dallo stupore che nasce la gratitudine, e da questa nasce l’adorazione, che è il giusto atteggiamento della creatura verso il suo Creatore. La vera sapienza non esclude lo stupore e l’ammirazione e la vera intelligenza non esclude, ma presuppone la fede. Tutta la filosofia moderna non è servita che ad allontanare gli uomini da Dio: da Voltaire che deride la fede, a Bertrand Russell che si ritiene troppo intelligente per credere in Dio come ci credono le vecchiette, è una triste passerella di umana vanità e di totale incomprensione del vero fine dell’esistenza. La grandezza dell’uomo risiede nella la sua capacità di farsi piccolo: come san Tommaso d’Aquino, un genio filosofico di prima grandezza, che adopera la sua ragione non per affermare se stesso, ma per aprirsi la strada verso Dio, col Suo aiuto, e così mostra la strada anche a tanti altri. I filosofi e gli scrittori moderni, invece, quale strada mostrano, quale meta indicano agli altri, se non il nulla, la beffa e uno sterile sorriso di autocompiacimento? Sì: nella vita dell’anima è possibile bagnarsi due volte nella stessa acqua; è possibile ritrovarsi, e così realizzarsi ed essere felici. Dio, che è in noi, si rivela a quanti lo sanno ascoltare. Ma per udirlo, bisogna mettere a tacere passioni disordinate e malvagie o ridicole ambizioni. Non è per servire ad esse che ci troviamo qui…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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