Che altro ci serve per capire?
17 Ottobre 2019Bergoglio no, e il Concilio Vaticano II sì?
18 Ottobre 2019Resterà sempre un mistero per quale ragione nascosta il più prestigioso premio letterario italiano, il Premio Strega, istituito dalla Fondazione Bellonci, nel 1951 venne assegnato a Corrado Alvaro (San Luca di Reggio Calabria, 15 aprile 1895-Roma, 11 giugno 1956) per il suo libro Quasi una vita, pubblicato dall’editore Bompiani l’anno prima. Un grosso libro, di oltre 500 pagine, che non è né un’autobiografia, né un diario, né un saggio filosofico o letterario, e tanto meno un romanzo, ma piuttosto una congerie disordinata di aforismi, pensieri, osservazioni, che richiama vagamente lo Zibaldone leopardiano. Resterà un mistero per il fatto che Alvaro, il quale si era fatto un certo nome come giornalista già nel periodo fra le due guerre, come romanziere non aveva scritto, né avrebbe mai scritto, alcunché di notevole, e nondimeno da quel momento si conquistò un posto fisso nelle antologie scolastiche, come uno dei nostri massimi autori ufficialmente riconosciuti dalla cultura "buona", occupandolo per svariati decenni; un posto dal quale è stato sloggiato solo di recente, più per la naturale usura ed il fisiologico ricambio degli autori da presentare agli studenti col trascorrere delle generazioni, piuttosto che per una esplicita o implicita revisione del giudizio da parte della critica ufficiale o ufficiosa.
Che cosa ha scritto, di notevole, lo scrittore calabrese? I suoi libri più importanti sono L’amata alla finestra (1929); Vent’anni e la raccolta di novelle Gente in Aspromonte (1930), L’uomo è forte, reportage da un viaggio in Unione Sovietica (1938) e, appunto, Quasi una vita, cui si può aggiungere il romanzo fantascientifico Belmoro, pubblicato postumo, nel 1957. Nessuno di questi libri reca il segno della vera grandezza, o almeno dell’originalità e di una vigorosa ispirazione. A parte i richiami verghiani delle prime opere, il suo verismo si innerva di una nota di cupo pessimismo, che ondeggia fra il cinico e il grottesco, non senza qualche venatura sadica, e, su tutto, un bisogno compulsivo di mettersi al centro, di guardare tutto e tutti dall’alto, di giudicare, di sentenziare, con amarezza più che con saggezza e con il compiacimento della miseria umana più che con una qualche forma di umana simpatia e benevolenza, In questo senso, si può accostare l’opera di Alvaro a quella di un altro "grande" sopravvalutato del Novecento, Carlo Emilio Gadda, al quale lo accomuna anche un segreto rancore verso il prossimo , specie se la storia gli ha dato torto e lo ha gettato nella polvere, e del quale ci siamo già occupati a suo tempo (cfr. l’articolo Nausea dell’esistenza e bassezza morale nell’opera di un falso "grande" della letteratura: Carlo Emilio Gadda, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 12/05/10 e ripubblicato sul sito della Accademia Nuova Italia il 21/10/17). Tutta la sua fama, in effetti, poggia sul libro che gli è valso il prestigioso Premio Strega, che equivale all’ingresso definitivo nell’Olimpo degli scrittori italiani: almeno a partire dal 1947, allorché venne istituito, e quindi in funzione della cultura della "nuova" Italia, repubblicana, democratica e antifascista, uscita dalle macerie della Seconda guerra mondiale, sconfitta e umiliata, e tuttavia con la strana pretesa di essere stata anch’essa, in qualche modo, vincitrice, se non altro del suo nemico interno, il fascismo, e sia pure al prezzo delle decine di migliaia di morti di una guerra civile di condotta con ferocia belluina, specie dopo il 25 aprile 1945 e cioè dopo la conclusione ufficiale delle ostilità. E allora diamo un’occhiata da vicino a questo libro, leggiamolo, meditiamolo, e vediamo se esso meritava un simile riconoscimento; a meno che il riconoscimento, più che al libro in sé, andasse, in effetti, per un tacito patto, al tipo d’intellettuale che in esso si rispecchia, e che era destinato a imporsi come l’intellettuale politcally correct nei decenni a venire. L’opera è divisa in capitoli e ogni capitolo corrisponde a un anno nella vita dell’Autore (da cui il titolo, pur non essendo, propriamente, un’autobiografia): si comincia col 1927 e si arriva al 1947. Le note, o aforismi, di cui si compone ogni capitolo, senza alcun ordine di qualsiasi tipo, sembrano piuttosto delle freddure, con una accentuata intonazione scettica e nichilista di cui egli palesemente si compiace e della quale si fa un mantello da indossare: con l’evidente pretesa di rivalegiare con lo stile di un La Rochefoucald, o magari di un Montaigne o di un Pascal, ma in realtà inanellando una monotona serie di affermazioni più o meno bislacche, a volte quasi surreali, che spaziano con la medesima imperturbabilità dagli argomenti più drammatici a quelli più frivoli, dalla ragazza innamorata che non sa come conquistare o riconquistare il suo uomo, al marinaio morto nella stiva della sua nave e che i suoi compagni, per poterne consegnare i resti alla famiglia, sono costretti a fare a pezzi, in modo da far passare il cadavere attraverso l’oblò. Ci sia consentito di fare un esempio, fra i cento e cento, di questa prosa irritante, sgradevole, acre e petulante, che non risparmia niente e nessuno: La triste provincia, dove non circolano che detriti di libri scolatici e qualche romanzetto sporchetto (p. 390). Eppure altri scrittori, più profondi di lui, hanno saputo disegnare proprio di quella provincia "triste" dei ritratti ammirevoli per dolcezza, comprensione e capacità di penetrazione del cuore umano: uno per tutti, Marino Moretti con la sua Cesenatico e la sua Riviera romagnola. Forse la provincia è triste solo per chi non la sa guardare con affetto e umana partecipazione; e forse la mancanza, in essa, di una cultura "alta" è un marchio d’infamia solo per chi non sa vedere e apprezzare gli umili tesori della cultura popolare. E da quando in qua i libri scolastici, gli ottimi libri scolastici di un tempo, a cominciare dai libri di lettura e dai sussidiari della scuola elementare, non sono altro che "detriti"? Conosciamo assai bene questo atteggiamento: è il tipico atteggiamento dei progressisti; disprezzano ciò che non appartiene ala loro mentalità e alle loro abitudini; denigrano e calunniano ciò che detestano, a cominciare dalla tradizione. Dio, la Patria e la Famiglia, per loro, sono parolacce: anche se hanno la misera astuzia, come fa Alvaro, di non dirlo apertamene, ma di suggerire che essi non odiano quei valori, ma la loro deformazione e la loro esasperazione — come quella che ne ha fatto, tanto per cambiare, l’aborrito fascismo, autentica testa di turco sulla quale scaricare tutte le colpe e tutti i mali non solo dell’Italia, ma dell’universo intero. Ecco qui un brevissimo florilegio di giudizi che Corrado Alvaro esprime, anzi emette, su uomini a lui contemporanei nel suo "capolavoro" Quasi una vita, sottotitolo Giornale di uno scrittore (Milano, Bompiani, 1950):
Molti preti meridionali hanno l’aria di dirvi: "Sono un povero innocente fatto prete per ragioni di famiglia, e per giunta voi ve la prendete con me". Uno di essi mi dice che in alcune famiglie meridionali chiamano il prete "il porco di casa", e non per altro se non perché è utile e tutto buono… (p. 312).
Giovanni Papini mi porta davanti a uno scaffale di libri: sono le sue opere tradotte in molte lingue straniere; me ne fa il conto e mi chiede se anch’io abbia un numero simile di traduzioni. Sa che è impossibile. Mi dice poi che è sempre stato ossessionato da Dio, e che prima voleva essere Dio lui stesso. Dice di avere frequentato nella sua vita due grandi toscani, Leonardo in gioventù, Michelangelo in vecchiaia. Ripete che ha cominciato a leggere a cinque anni… (p. 329).
Gli mancava un solo fatto: l’istigazione all’odio di classe, e lo ha compiuto (…) Responsabile di tutto, si schiera ora con quelli che hanno subito il male, come se anch’egli fosse una vittima [evidentemente parla di Mussolini, che però evita perfino di nominare]. (p. 338)
Gli articoli di Pavolini nel "Messaggero". Scrive di politica con la sventatezza di Papini. Non ha avuto tempo di imparare altro. La letteratura serve a qualche cosa. (p. 344)
Il giorno della caduta di Tripoli, Luigi Federzoni, per non turbare la moglie, pregò gli amici di non darle la notizia, non ancora pubblicata dai giornali, se non dopo il pranzo cui erano invitati. (p. 346)
Longanesi ha diffuso una delle sue spiritosaggini a proposito dei bombardamenti delle città italiane: "Ci stanno rovinando gli originali delle fotografie Alinari". È lo stesso autore di alcuni manifesti di propaganda di guerra. è sempre pronto al disprezzo dei caduti, come tutti quelli che disprezzano se stessi. e il proprio paese. Egli trova facilmente il ridicolo in tutto. è la forza dei deboli. (p. 356)
Di d’Annunzio (sic) ci rimane l’insegnamento e il talento di non dire le cose come stanno, ma con giri di frasi e amplificazioni. Vedere fino a che punto l’ipocrisia nostrana ha ritrovato un codice un lui. Vedere fino a che punto Studiare un carattere teatrale di questo tipo. (p. 376).
Giungiamo così alla conclusione che la "promozione" di Corrado Alvaro nell’Olimpo dei grandi scrittori non si deve a questa o quella sua opera, e meno che mai a quella che gli è valsa il conferimento del Premio Strega, ma a ciò che egli rappresenta come intellettuale pseudo impegnato, pseudo morale e pseudo antifascista, cioè nella sua quasi perfetta incarnazione di ciò che deve essere, dal punto di vista della cultura progressista e politicamente corretta, uno scrittore che si rispetti. Un antifascismo alquanto prudente, il suo, peraltro; perché, se è vero che nel 1925 egli firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti, è altrettanto vero che nel 1934 aveva pubblicato, per le edizioni dell’Istituto fascista di cultura, il saggio Terra Nuova. Prima cronaca dell’Agro Pontino, nel quale non solo esaltava la bonifica delle Paludi Pontine, ma celebrava anche il regime che l’aveva concepita, voluta e realizzata. Si è anche tentato di far passare il volume L’uomo è forte per una critica in codice al fascismo e al nazismo; sarà: ma di fatto esso è la critica del comunismo sovietico; contro il fascismo, Alvaro non ha mai scritto un rigo — non prima del 25 luglio del 1943, quantomeno. La Resistenza, poi, non l’ha vista neanche con il telescopio, visto che da Roma è fuggito a Chieti e si è mantenuto nella zona occupata dagli eserciti alleati per tutta la durata del conflitto. In compenso, dalle pagine di Quasi una vita lascia cadere critiche impietose, caustiche, sprezzanti, contro il Duce e contro tutti gli uomini del regine coi quali ha avuto a che fare, senza peraltro avere neanche il coraggio di scrivere per esteso il nome di Mussolini — non si sa mai. Si direbbe che abbia sfogato la sua impotenza e la sua prudenza forzata, accumulate per anni, arrotando i denti e intingendo la penna nel vetriolo, ma sempre stando seduto su una comoda poltrona. Mentre Pavolini, per dirne una, da lui preso a bersaglio quale tipico gerarca rozzo e spaccone (mentre era un intellettuale più raffinato di lui), girava per l’Italia in automobile da solo e senza scorta, quando tutti i partigiani avevano giurato di fargli la pelle. E cosa non dice di Papini e di D’Annunzio (del quale non sa scrivere neanche il nome correttamente): giunge a un tal punto di bassezza da spiattellare il contenuto di una conversazione privata per far cadere il ridicolo su Papini ed evidenziare il suo egocentrismo. Oh, sì: in molte pagine Alvaro afferma che l’egocentrismo, la vanità, il narcisismo sono i vizi peggiori degli esseri umani; ma egli davvero ne è immune? Quanta posa c’è dietro il suo continuo sparare a zero sui difetti e le miserie degli altri, e nell’assumere, per se stesso, la posa dell’antico filosofo stoico, superiore alle ambizioni umane perché ha compreso, come Leopardi, l’infinita vanità del tutto!
Riassumendo, ci sembra che siano almeno tre le ragioni della fortuna di Alvaro presso la critica politicamente corretta degli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Primo, era stato un antifascista, anche se i fascisti, del suo antifascismo, dopo il 1925 non si erano mai neppure accorti: strano, vero? Tuttavia, in questo essere contro senza esporsi, senza rischiare, ma limitandosi a collezionare maldicenze letterarie che avrebbe pubblicato solo a guerra finita, l’italiano medio, allineato con la cultura democratica e progressista, poteva rispecchiarsi più facilmente che non con quanti, bene o male, avevano rischiato in prima persona. Adelante, Pedro, con juicio. Secondo: è stato assurto a simbolo del meridionalismo, vale a dire della voglia di riscatto del Sud. Della voglia di riscatto, si noti la piccola differenza, e non del riscatto, che non c’è mai stato: e ancora oggi lo stiamo aspettando. Ma quale riscatto poteva mai esserci se le teste pensanti del Sud facevano propria la leggenda vittimista e auto-consolatoria di un Sud ingiustamente sfruttato e brutalizzato da un Nord egoista e rapace? Troppo comodo limitarsi, come il Vittorini di Conversazione in Sicilia, agli "astratti furori": se i "furori" dei meridionalisti fossero stato un po’ meno astratti e un po’ più concreti, forse qualcosa si sarebbe mosso, da allora ad oggi e il Sud avrebbe cominciato a risolvere i suoi problemi, facendo appello alla volontà della sua gente, invece di aspettare i soldi della Cassa per il Mezzogiorno. Terzo: privo di genio letterario, ma in compenso buono per (quasi) tutte le stagioni, purché rigorosamente antifasciste, Alvaro, premiato un anno dopo Pavese e un anno prima di Moravia, incarnava benissimo quello che, parafrasando Robert Musil, si potrebbe definire l’intellettuale senza qualità: abbastanza pregevole da emergere al di sopra della folla anonima, ma anche abbastanza mediocre da non dare ombra ai colleghi scrittori, notoriamente assai gelosi l’uno dell’altro, specie nella vastissima parrocchia dominante: repubblicana, democratica e antifascista…
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