L’amore, una delle maschere dell’odio di noi stessi
9 Ottobre 2019Perché dilaga la sindrome del “carattere orale”
11 Ottobre 2019Quando è nato, in Europa e un Occidente, il sentimento di diffidenza, disamore, fastidio delle donne
nei confronti della maternità? Quando la società moderna ha incominciato a orientarsi verso la negazione della maternità come scopo principale dell’esistenza delle donne e come completa realizzazione del loro istinto fondamentale?
Elisabeth Badinter, classe 1944, che i dizionari definiscono "filosofa", è una femminista francese, studiosa di sociologia, sposata a un prestigioso ministro socialista del governo Mitterrand, Robert Badinter, molto ascoltato anche in sede europea; in passato è stata criticata dalle frange estreme del movimento per le sue posizioni non abbastanza dure verso il sesso maschile, al quale si rifiutava di dichiarare una guerra senza quartiere. Comunque, a parte la sua posizione "moderata" all’interno dell’ideologia femminista, la vita e la brillante carriera della Signora Badinter, culminata nella presidenza del consiglio di sorveglianza del gruppo Publicis, una multinazionale che opera nel campo della pubblicità, della comunicazione e del marketing, di cui è anche azionista, sono un perfetto esempio del passaggio degli intellettuali della rive gauche dalla contestazione a tutto campo del 1968, al felice e ben remunerato inserimento, qualche anno più tardi, nel sistema politico ed economico-sociale che in gioventù disprezzavano e contestavano così acerbamente: con tanto di uso sessista dell’immagine femminile da parte del gruppo pubblicitario in cui la signora ex femminista svolge un ruolo da dirigente. Una dinamica, occorre peraltro precisare, che non è certo sconosciuta al panorama degli intellettuali progressisti italiani e di altri Paesi occidentali, Stati Uniti compresi. Quello che qui ci interessa è svolgere una riflessione sulla critica che la Badinter ha condotto contro il concetto della maternità come istinto naturale, anche se la sua prospettiva storica e soprattutto etica è ben lontana, per non dire opposta, alla nostra: ella vuol "dimostrare" che nelle donne la maternità è una libera scelta e non una vocazione naturale, e che molte, forse tutte, ne sono prive, almeno in quanto istinto primario, salvo poi lasciarsi orientare dalla società in cui vivono e predisporsi alla maternità come se fosse la cosa più naturale e scontata per loro. In questo caso potremmo dire che anche un orologio rotto segna l’ora giusta per due volte al giorno: la tesi della Badinter è, a nostro avviso, criticabile perché totalmente ideologica: ella "vuole" che la donna sia libera e, da buona femminista, ancorché moderata, guarda con una forte diffidenza alla maternità, perlomeno nel modo in cui essa è presentata nella società occidentale, e quindi ha "bisogno" di negare l’istinto naturale alla maternità, proprio come Bakunin, per fare un parallelo, ha bisogno di affermare che l’uomo è libero, e quindi è costretto a negare l’esistenza di Dio, che, a suo parere, se esistesse, getterebbe un’ombra sulla sua libertà. Eppure nella tesi della Badinter, e ancor più nelle osservazioni che svolge per arrivare a formularla, ci sono degli aspetti validi, che meritano di essere evidenziati: altrimenti resterebbero inspiegabili i non rari casi di donne che abbandonano o maltrattano gravemente i loro figli. Per non parlare della frequenza con cui molte di esse fanno ricorso alla pratica dell’aborto, apparentemente senza provare rimorsi né sensi di colpa: frequenza che rende difficile, se non impossibile, invocare circostanze sociali o psicologiche estreme, tali da alterare l’istinto materno innato.
E tuttavia, anche se la ricostruzione storica che la Badinter fa del fenomeni della maternità rifiutata, o vissuta con evidente disamore, è sostanzialmente corretto, non condividiamo affatto la sua prospettiva: ella vuol sostenere che la maternità non è un istinto primario della donna; noi riteniamo invece che lo sia, però ammettiamo che, in una società permeata di materialismo, efficientismo, edonismo e femminismo, molte donne finiscono per perdere tale istinto, e per chiudersi nella difesa "sindacale" del loro diritto a non essere né madri, né spose, ma delle libere, ed eventuali, compagne dell’uomo. Ma potrebbero anche essere le compagne di un’altra donna, oppure di svariati uomini, o, ancora, di nessuno: per esse, l’importante è che la donna sia libera da qualsiasi legame precostituito; non le spaventa il fatto che non solo la donna, ma qualsiasi essere umano, compreso il maschio e compresi anche i bambini, se viene rescisso da qualsiasi legame durevole e impegnativo, finisce per evaporare nel nulla, perché noi siamo qualcosa solo se ci apriamo al reale e ci lasciamo penetrare da esso. Così, la suora, o il monaco, sono qualcosa se si lasciano penetrare da Dio: ma nessuno, crediamo, può essere qualcosa, e tantomeno se stesso, se si abbandona ad una libertà astratta e velleitaria, che lo rende del tutto irresponsabile. Per essere qualcosa, bisogna contrarre degli impegni, assumere delle responsabilità, affrontare dei sacrifici in vista di un fine; e, soprattutto, bisogna avercelo, un fine, e non girovagare senza meta, di qua e di là, come cani randagi, quasi disancorati dalle proprie radici.
Ci sembra che valga la pena di citare la pagina iniziale della monografia di Elisabeth Badinter significativamente intitolata L’amore in più. Storia dell’amore materno (titolo originale: L’Amour en Plus, Paris, Flammarion, 1980; traduzione dal francese di Rosetta Roy, Milano, Longanesi & C., 1981, pp. 7-8):
1780: il prefetto di polizia Lenoir constata, non senza amarezza, che dei ventimila bambini che nascono ogni anno a Parigi, appena mille vengono allattati dalle madri. Altri mille, dei privilegiati, sono allattati dalle balie a domicilio, tutti gi altri lasciano il seno materno per la casa più o meno lontana di una nutrice mercenaria.
Molti bambini moriranno senza aver conosciuto lo sguardo della madre, quelli che torneranno qualche anno dopo alla casa paterna troveranno una sconosciuta: colei che ha dato loro la vita. Non esiste prova che questi ritorni fossero felici, né che la madre si affrettasse ad appagare un bisogno di tenerezza che a noi sembra oggi così naturale.
Nel leggere e cifre del prefetto di polizia della capitale non possiamo fare a meno di interrogarci. Come spiegare l’abbandono di un neonato in un tempo in cui il latte e le cure della madre rappresentavano per lui forse l’unica probabilità di sopravvivenza? Come giustificare un simile disinteresse per il bambino, così contrario ai nostri valori attuali? Le donne dell’Ancien Régime si comportarono sempre così? Per quali ragioni la madre indifferente del Settecento si è mutata nella madre-pellicano dell’Ottocento e del Novecento? Che strano fenomeno questa trasformazione che contraddice l’opinione generale di un istinto innato comune alla femmina animale e alla donna!
Si è parlato così a lungo del’amore materno come di un istinto innato, che noi, oggi, siamo convinti che questo comportamento sia radicato nella natura stessa della donna, sena distinzione di luogo o di tempo. Per noi ogni donna, nel momento stesso che diventa madre, trova n se stessa tutte le risposte alla sua nuova condizione. Come se una predisposizione necessaria e automatica aspettasse solo l’occasione per manifestarsi. Poiché la procreazione un fatto naturale, si presuppone che al fenomeno biologico e fisiologico della gravidanza debba corrispondere un determinato comportamento materno.
Procreare non avrebbe alcun senso, se la madre non portasse a termine la sua opera assicurando fino in fondo la sopravvivenza del feto e la trasformazione dell’embrione in un individuo completo, Questa opinione è confortata dall’uso ambiguo del concetto di maternità che riguarda sia uno stato fisiologico momentaneo, la gravidanza, sia un’azione a lungo termine: allevare ed educare il bambino. Al limite la funzione materna avrà fine solo quando la madre avrà partorito l’adulto.
In quest’ottica è difficile spiegare la mancanza di amore materno, la freddezza e la tendenza all’abbandono che si manifestarono nella Francia urbana del Seicento e che si generalizzarono il secolo dopo. Per questo fenomeno, debitamente constatato dagli storici, furono trovate una quantità di giustificazioni economiche e demografiche. Una maniera diversa per dire che l’istinto vitale è più forte di quello materno. Al massimo si ammise che fosse malleabile e forse soggetto ad eclissi.
Questa ammissione suscita diverse domande. Che cos’è un istinto che si manifesta in qualche donna e in altre no? Bisogna considerare "anormali" tutte quelle che lo ignorano? Cosa di deve pensare di un comportamento patologico che riguarda tante donne di condizione diversa e dura per secoli?
Sono più di trent’anni che una filosofa, Simone de Beauvoir, ha rimesso in causa l’istinto materno. Psicologi e sociologi, in maggioranza donne, hanno fatto altrettanto. Ma poiché queste donne erano delle femministe, si preferì credere che la loro illuminazione fosse più militante che scientifica. Invece di discutere le loro idee, molti si misero a ironizzare sulla sterilità volontaria delle une o sull’aggressività e la virilità delle altre…
Anche se la Badinter fa del vittimismo sul fatto che la comunità scientifica si mostra scettica circa le affermazioni delle studiose femministe sul carattere secondario ed acquisito dell’istinto materno, il suo modo di argomentare tradisce appunto un pregiudizio ideologico. Che cos’è un istinto che si manifesta in qualche donna e in altre no?, domanda con aria innocente. Tuttavia sa benissimo che tale istinto si manifesta nella stragrande maggioranza delle donne, mentre a non mostrare di averlo sono solo dei casi minoritari: lei stessa ha mostrato che il fenomeno si manifesta per la prima volta a Parigi, fra Sei e Settecento, e non nelle campagne. Sa anche che psicologia e sociologia non sono scienze esatte e che ogni norma presuppone alcune eccezioni; pertanto, non c’è niente di strano nel fatto che alcune donne non manifestino l’istinto materno: ciò non prova nulla, è solo l’eccezione alla regola. Bisogna considerare "anormali" tutte quelle che lo ignorano?, chiede poi. Con questa domanda le sue finalità ideologiche vengono allo scoperto: ella si serve deliberatamente di un ricatto di ordine psicologico e morale per costringere l’interlocutore politically correct a rispondere che no, nessuno giudica "anormali" tali donne. Grazie alla cultura del ’68, la parola "anormale" ha perso il suo significato originario, o per meglio dire ha subito il bando da parte della dominante cultura progressista: è divenuta una parolaccia, che nessuna persona civile adopera più. Nessuno è anormale, perché ciascuno ha il diritto di essere quel che gli pare, in qualsiasi modo; anche le deviazioni, anche le perversioni, in questa prospettiva, diventano forme legittima di manifestazione del proprio io. Naturalmente non è affatto vero: ma quale studioso, quale intellettuale sarebbero disposti a sostenerlo? Basta confrontare un qualsiasi testo di psicologia degli anni ’50 o dei primi anni ’60 con uno degli anni e dei decenni successivi: il concetto di anormalità è stato abolito; anche quello di deviazione è sparito, e resta solo la registrazione spassionata di atti e comportamenti umani, nessuno dei quali, o quasi, può essere giudicato. Le cose accadono perché accadono, semplicemente perché in noi si è fatta strada una certa pulsione, un certo istinto: non accadono per una nostra libera scelta. Si noti, per inciso, che questa concezione si scontra frontalmente e irreparabilmente con il nucleo del pensiero femminista, e del pensiero progressista in generale, secondo il quale ciascuno è libero di essere se stesso, perché gli ostacoli da vincere sono tutti all’esterno del soggetto, non al suo interno; e se sono interni, dipendono da una auto-repressione. E il primo ostacolo sono i pregiudizi altrui. La malattia mentale, per esempio: il vero scoglio sono gli altri, i "sani", che hanno dei pregiudizi; ma non esiste, in realtà, una vera e propria malattia mentale, perché è stato abolito il concetto di normalità. Probabilmente era fascista, o quanto meno autoritario. Logico: Freud, il gran sacerdote della nuova religione psicanalitica, o piuttosto il suo grande stregone, ha sentenziato che non esistono atti e comportamenti giusti o sbagliati in se stessi, ma solo atti e comportamenti che fanno star bene e altri che fanno star male, ma ciò non ha niente a che vedere col giudizio e quindi con la morale.
Quindi la Badinter incalza: Cosa si deve pensare di un comportamento patologico che riguarda tante donne di condizione diversa e dura per secoli? La risposta che lei stessa suggerisce è che se molte donne, in tempi e luoghi diversi, hanno mostrato di non avere l’istinto materno, ciò significa che un tale istinto originario non esiste. Ma la conclusione, è evidente, è assai maggiore della premessa. Ciò che ella ha mostrato è che, in certi tempi e in certi luoghi, in verità sempre circoscritti, tale istinto pare venir meno. Ebbene, la spiegazione più logica di questo fatto è che in certi contesti culturali la maternità, per una serie di ragioni, viene fortemente scoraggiata, e quindi le donne introiettano tale orientamento. Ma questo dimostra solo che un istinto naturale può essere inibito e represso, se la pressione sociale è abbastanza forte da riuscirci. La compassione, ad esempio, è un istinto naturale: ma un sistema politico basato sulla crudeltà può estirparla dai suoi membri. Ciò è storicamente accaduto e senza dubbio continuerà ad accadere; tuttavia non dimostra che gli uomini siano naturalmente sprovvisto dell’istinto della pietà. Ci sono società deviate e momenti storici di crisi, nei quali istinti naturali — perfino quello della sopravvivenza — vengono minati e addirittura aboliti. Nella cultura eschimese, e in molte culture sudamericane e della Nuova Guinea, gli anziani erano incoraggiati a suicidarsi, oppure erano i loro figli che si incaricavano di sopprimerli. Ciò accadeva perché una bocca inutile da sfamare, in ambienti estremi, era considerata un lusso che la società non poteva permettersi. Ma cosa dimostra questo fatto? Certo non dimostra che presso quelle culture le persone nascessero prive dell’istinto di conservazione, ma solo che subivano una pressione culturale così forte, da accettare e considerare inevitabile l’eliminazione fisica dei vecchi. Queste, però, ripetiamo, sono le eccezioni alla regola: in condizioni normali, tali usanze non si trovano, anzi fanno inorridire. La stessa cosa vale per l’istinto materno. Se poi ci si riferisce a singoli casi individuali, nel contesto di una società che, nel complesso, è orientata verso la dolcezza della maternità, è chiaro che bisogna cercare la spiegazione per l’assenza di un tale istinto nella storia personale delle singole donne.
Ci sia consentito di osservare, però, che la Badinter sfiora il grottesco quando contrappone il XVII secolo, con lo scarso amore delle madri per i loro figli (cosa tutta da dimostrare, tranne per alcune specifiche realtà urbane) al profondo amore per i bambini dei secoli XIX e XX, laddove chiede con enfasi: Come giustificare un simile disinteresse per il bambino, così contrario ai nostri valori attuali? La Badinter evidentemente dimentica che i nostri tempi sono i tempi dell’aborto sistematico e legalizzato. Davvero si può dire che il XX secolo è stato contraddistinto dall’affetto per i bambini e dal rispetto per la loro fragilità, quando ogni giorno migliaia di nascituri vengono soppressi nel ventre delle loro madri nelle pubbliche strutture sanitarie, non per dolorose ma ineluttabili necessità mediche, ma su richiesta precisa di quelle madri, e ciò con l’approvazione della società o comunque nell’acquiescenza generale? Forse gli uomini del futuro, studiando queste nostre abitudini, si chiederanno, ma invano, come gli uomini del nostro tempo potessero mostrarsi tanto crudeli e insensibili verso i bambini che stavano per venire al mondo. Ma non giungeranno, per rispetto della logica e del buon senso, all’avventata conclusione che ciò dimostra l’inesistenza di un istinto materno originario…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels