Povero San Pio X, in che modo lo raccontano i cattolici
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10 Ottobre 2019Una curiosa ma significativa esperienza è stata quella della figlia di due missionari francesi protestanti che si erano stabiliti nel Camerun per convertire gli indigeni, Claude Njiké-Bergeret, nata a Douala nel 1943, la quale invece, un bel giorno, si è convertita lei al modo di vita degli indigeni, al punto di accettare di unirsi in matrimonio con il sovrano dei banganglé, che aveva già un ricco serraglio di mogli africane. E questo dopo essere rientrata in Francia fin dall’età di tredici anni, aver studiato nei licei francesi e all’università, aver sposato un francese e aver avuto da lui due figli, e aver partecipato attivamente ai movimenti studenteschi del ’68. Salvo poi divorziare, nel 1972, e tornare in Africa per la nostalgia di quel continente, riprendere la sua attività missionaria e restare invece ipnotizzata, come lei dice, nel 1978, da un reuccio locale dal fornitissimo harem: esattamente dieci anni dopo la "mitica" stagione del Quartiere Latino. Chissà cosa avranno pensato di lei le ex sessantottine con le quali aveva sfilato nella sua Aix-en-Provence, così come quelle di mezza Europa, agitando cartelli femministi inneggianti all’assoluta parità dei sessi, alla rivolta delle donne contro il maschio padrone e al rifiuto sprezzante del ruolo tradizionale di mogli o madri, considerato alla stregua della catena di una odiosa servitù sessista. E chissà cosa avranno pensato i suoi superiori della Società missionaria protestante, ai quali ella aveva chiesto di prolungare di un anno la sua permanenza in Africa, e che la credevano tutta impegnata a predicare il Vangelo e a convertire gli africani, per poi apprendere che aveva usufruito di quell’anno per convertirsi lei e che, accettando un matrimonio poligamico, aveva gettato alle ortiche tutta la tradizione cristiana e anche l’educazione ricevuta dai suoi genitori.
Un fatto del genere ci sembra molto interessante e si presta a parecchie riflessioni su una problematica più ampia che riguarda gli strani mutamenti che sono sopravvenuti in Europa, negli ultimi anni, a livello psicologico, sociologico e culturale, per cui una quota non trascurabile di giovani che nel ’68 credevano fermamente in tutta una serie di cose, e parevano decisissimi ad affrontare qualunque sacrificio e qualunque ostacolo pur di vederle realizzate, qualche anno dopo, divenuti trentenni, facevano delle scelte di vita che erano la negazione più clamorosa e, al tempo stesso, più imbarazzante, della loro militanza di ventenni. Alcuni sono andati a Poona e sono approdati al misticismo indù, si sono posti al seguito di qualche "maestro" più o meno autentico, e hanno sostituito alla contestazione e alla lotta di classe la credenza nella trasmigrazione delle anime, il disprezzo del lato materiale dell’esistenza e la totale sottomissione alla loro guida spirituale, fino al punto, come nel caso dei seguaci di Osho, più tardi noto ai suoi seguaci come Bhagwan Shree Rajneesh (quello con la passione per le Rolls-Royce), di accettare da lui quando e con chi sposarsi, quasi fossero minorenni incapaci di decidere la propria vita. Altri hanno fatto scelte ugualmente sorprendenti, stabilendosi in Messico e facendosi adoratori del dio Peyote; qualcuno ha fatto come Gauguin e se n’è andato in Polinesia, diventando un velista senza fissa dimora. Una cosa, tuttavia, hanno in comune queste ed altre esperienze post-sessantottine: il fascino romantico del primitivo, dell’esotico e del barbarico; la seduzione esercitata dalle forme di vita dei popoli extra-europei, preferibilmente primitivi; il ripudio di tutto ciò che è occidentale, cristiano ed europeo, e quindi, paradossalmente, anche delle loro illusioni rivoluzionarie e delle loro utopie politiche: in breve, la rinascita vigorosa, sotto mutate spoglie, del mito russoviano del Buon Selvaggio, unito alla velleità di farsi Buoni Selvaggi pure loro. A questo proposito qualcuno ricorderà, forse, un film che ebbe molta notorietà proprio negli anni ’70, La ragazza dalla pelle di luna, nel quale, a parte la superficialità della trama e la banalità del contenuto (e fatta salva la bella colonna sonora di Piero Umiliani) emerge con prepotenza proprio questo aspetto dell’anima europea, che è quasi l’altra faccia della medaglia degli anni della contestazione: il disgusto della propria civiltà da parte del protagonista, e l’ingenuo sogno di evasione nei paradisi esotici (ed erotici).
E adesso vediamo più da vicino che cosa può spingere una donna europea di buona famiglia, che ha ricevuto un’educazione di prim’ordine, colta, socialmente impegnata, a scegliere, proprio negli anni del femminismo montante, di sposare un reuccio africano che ha già provato a violentarla e che, oltre a questo bel saggio di come egli intenda i rapporti sessuali e affettivi fra uomo e donna, ha già quaranta mogli; cosa la spinge ad entrare a far parte di un harem già tanto numeroso. E inoltre, che cosa può spingere una donna francese e cristiana, moderna, emancipata, dinamica, a rinunciare alle comodità e alle soddisfazioni, anche professionali, della vita in Europa, o comunque secondo lo stile europeo, per andare a rinchiudesi in un harem come una odalisca dei secoli passati, una di quelle che vivevano nei palazzi dei sultani o degli sceicchi, recidendo i legami con la propria cultura, con la propria mentalità, con la propria concezione del mondo e dei rapporti sociali. Infine, soprattutto, poniamoci la domanda, sommamente imbarazzante, come sia possibile, per una donna europea, una cristiana, addirittura una missionaria, nonché una ex sessantottina, accettare tutto ciò, senza vedervi un’auto-umiliazione e un’auto-degradazione volontarie, quali a stento si potrebbero concepire, a meno che fossero, invece, il frutto di una pressione esercitata dall’esterno e del tutto indipendente dalla sua volontà.
È lei stessa che si pone questa domanda e che la pone, retoricamente, ai suoi lettori. E così risponde, nel libro che rievoca le circostanze della sua vita e del suo secondo matrimonio, e nel quale gioca di furbizia già nella scelta del titolo, perché la "passione africana" alla quale allude si può intendere sia come l’amore per l’Africa, per la sua gente, per il suo tipo di vita, sia come l’amore per l’uomo, quel piccolo re del Camerun così abile nella danza e così disinvolto e intraprendente con le donne, nere o bianche, che l’ha stregata, come lei stessa dice, e al quale ha deciso di unire la sua vita (da: Claude Njiké-Bergeret, Passione d’Africa; titolo originale: Ma passion africaine, Éditions Jean-Claude Lattès, 1997; traduzione dal francese di Arianna Dagnino, Milano, Mondadori Editore, 1999, pp. 145-146):
"Cosa mi sta succedendo? Cosa mi sta succedendo?"
Non ricordo più adesso da quale festa danzante fossi rientrata. Era forse quella che era seguita, nel messaggio del ’77, al trionfo delle mie "figlie"? O una di quelle feste improvvisate che ogni tanto si tenevano alla "chefferie" [termine francese vagamente traducibile con "reggia"]? Non lo so, so solo che quella notte non riuscivo ad addormentarmi, sola nella camera che era stata dei miei genitori e che ora era la mia.
"Cosa mi sta succedendo?"
Mi sentivo come ricoperta interamente di colla. Continuavo a vederlo, sotto le mie palpebre abbassate,. Danzava, danzava… Sentivo ancora la sua mano appoggiata saldamente ai mie fianchi, e come mi sfiorava facendomi volteggiare sulla pista con dolce fermezza. Ero inesorabilmente attratta dal re danzante. Stregata.
Nei giorni, nelle settimane che seguirono, quelle immagini non mi abbandonarono più. Mi si erano incollate alla pelle. Non era possibile! L’amavo. Eppure razionalmente rifiutavo del tutto questa realtà.
"È una follia, Claude" mi dicevo. "È inconcepibile. Vivere con un uomo così lontano da tutto quello che sei…"
Dovevo fare qualcosa. Ma cosa? Pazientare ancora qualche mese e lasciare Bangangtè? Rientrare in Francia e cercare di dimenticare? E se non avessi dimenticato? Se per il resto della mia vita l’immagine del re danzante mi avesse perseguitata, se quel desiderio di unirmi a lui, fondermi con la sua pelle, non fosse mai scomparso e avesse finito per distruggermi, schiacciata sotto il peso del rimpianto, lassù, nel Nord?
Dovevo sapere. Dovevo provare a me stessa che mai una donna, bianca, istruita avrebbe potuto sposare un africano poligamo e vivere insieme ad altre mogli, nere, pressoché analfabete, in una "chefferie".
Presi una decisione rapida e chiesi alla Società delle missioni di Parigi di prolungare il mio contratto di un atro anno. Sarebbe scaduto in giugno. Ricevetti nel giro di breve tempo una risposta affermativa. Un anno sarebbe stato sufficiente per convincermi che non avrei mai potuto diventare una delle mogli del re.
Dopo che aveva tentato di prendermi con la forza, non aveva mai più mostrato il minimo atteggiamento ambiguo. Aveva voluto fare di me una semplice amante? O si era ormai rassegnato a vedermi partire per la Francia un giugno? Non lo sapevo e, in fondo, non m’interessava neppure. Il mio vero problema era riuscire a liberarmi di quella passione, di quella colla. Ma senza fuggirne.
Il resto l’abbiano anticipato: sì, quella cosa impossibile era proprio possibile; e la giovane divorziata francese è convolata a giuste nozze col poligamo capo africano, felicemente e imperturbabilmente. Anche se la signora in questione, sposando il reuccio indigeno, si è guadagnata l’appellativo di "Regina Bianca", e se lo è appeso come un trofeo da esibire a tutti, la verità è che ha lasciato un marito e due figli, l’Europa e la sua civiltà, per diventare una delle quaranta mogli stipate in un harem del Camerun: cosa ci sia di regale in un tale status sociale, e in cosa consista il salto di qualità rispetto alla sua condizione precedente, per non dire dei suoi trascorsi di protesta e dei suoi ideali di emancipazione degli anni in cui viveva in Francia, francamente non appare per nulla chiaro. A noi, senza voler entrare nella delicata e privata sfera dei sentimenti, sembra che si tratti, semmai, di una vistosa retrocessione, di una volontaria degradazione. Del resto, se la signora in questione ci vuol raccontare tutti i fatti i suoi, le sensazioni che provava e i sogni erotici che faceva, in un libro di oltre 300 pagine, che ha successo e viene tradotto e venduto in tutto il mondo, pure i lettori avranno qualche diritto di fare le loro considerazioni. Anche se ciò non piace ai progressisti: i quali sono abituati a dar sempre la pagella a tutti gli altri, e mai a vedersela dare; a giudicare tutto e tutti, dall’alto della loro pretesa superiorità intellettuale e morale, e mai a essere oggetto di critica. Nel caso specifico, possiamo perciò immaginare la reazione di quei signori: come osiamo criticare le scelte di vita di una donna che ha sposato un reuccio africano? Innanzitutto, al cuore non si comanda; in secondo luogo, non saremo per caso un po’ razzisti? Non ci darà fastidio il fatto che una bianca abbia scelto di unirsi a un africano? Strano, però, che ora i progressisti, e specialmente le femministe, rivendichino la filosofia del al cuore non si comanda: è esattamente l’opposto di quel che dicevano, anzi strillavano, negli anni ’60 e ’70. Quanto al razzismo, ne parleremo più ampiamente in una prossima occasione, perché il discorso sarà lungo e complesso. Qui ci limitiamo a osservare che i progressisti, tutti quelli di sinistra, i cattolici alla Bergoglio, sono sempre pronti a denunciare il razzismo quando esso si dirige, a loro dire, contro gli extra-europei; non li sfiora minimamente l’idea che proprio il loro è un atteggiamento terribilmente razzista. Contro i bianchi, gli europei, gli italiani e i cattolici (quelli veri). Quando, per fare un esempio, la stampa e le stesse autorità si auto-censurano di fronte ai quotidiani fatti di criminalità che hanno per autori gli immigrati, quello è razzismo, naturalmente all’incontrario. E quando certi sindaci progressisti cancellano la commemorazione delle vittime di spietati assassini africani, per non "turbare" la comunità afro-islamica, anche quello è razzismo. È diretto contro di noi: perciò diventa lecito. Anzi, diventa cosa buona e giusta. Pertanto la domanda che dobbiamo farci è questa: come mai abbiamo introiettato un odio così feroce contro noi stessi, un disprezzo e un livore così palesi verso la nostra civiltà? Come mai accettiamo che gli stranieri facciano, anche a nostro danno, delle cose che, se provenissero dai nostri compatrioti, o dai nostri correligionari, ci farebbero montar su tutte le furie? Come mai le donne europee, che da mezzo secolo rifiutano il ruolo di donna oggetto e la sudditanza verso il maschilismo, sono felici di sposare un marito islamico, che di mogli ne ha già più di una? E a passare dalla minigonna al velo, e dalla militanza politica alla cura esclusiva della casa e dei figli? E come mai piacciono i guru alla Rajneesh, e non si leggono più Aristotele e Tommaso d’Aquino? E come mai la Chiesa trova normale che un papa assista benevolo ad una cerimonia animista, fatta da una sciamana amerindia, con tanto di simboli pagani, fra cui un fallo che ricorda il buon vecchio Priapo: e ciò a un passo dalla Basilica di San Pietro, principe degli Apostoli? E come mai gli uomini di Stato trovano normale lo sbarco/invasione incessante di milioni di africani, e come tale lo fanno digerire ai concittadini/sudditi? È chiaro che qualcuno coltiva a bella posta un tale odio di noi stessi.
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