La vera, grande miseria umana è l’assenza di Dio
4 Ottobre 2019La banale semplicità del sistema che ci schiavizza
6 Ottobre 2019L’egoismo è sempre esistito, è un sentimento umano originario e fondamentale. Non è un carattere specifico della modernità, ma un marchio perenne dei figli di Eva, anche se talune dinamiche specifiche della modernità tendono a esaltarlo e a cronicizzarlo in una misura tale da rendere difficoltosi i normali rapporti sociali, a cominciare dalla convivenza all’interno delle famiglie e nel rapporto fra vecchie e nuove generazioni. Ciò che è caratteristico della modernità, invece, è l’egotismo, termine introdotto nel linguaggio comune da Stendhal col suo romanzo Ricordi di egotismo (Souvenirs d’égotisme), scritto nel 1832 ma pubblicato, postumo, solamente nel 1892, ossia l’esagerata e narcisistica considerazione di se stessi. L’egotista si considera una persona eccezionale, dotata di qualità rare, che pochi altri, o forse nessuno, possiede in misura pari a lui: in altre parole, usa due sistemi di misura: uno per valutare se stesso, esaltando oltre ogni limite i propri meriti, e uno per tutto il resto dell’umanità, alquanto più severo, svalutando e disprezzando i meriti e le qualità altrui.
Questo sentimento è tipico della modernità perché è stata la modernità a proclamare, mediante l"invenzione" della democrazia, che tutti gli uomini sono ugualmente capaci di collaborare, mediante la partecipazione alla vita politica, al bene comune; di qui all’estensione più estrema del concetto, fino a presupporre che tutti gi uomini siano ugualmente dotati d’intelligenza, volontà e senso di responsabilità, il passo è stato relativamente breve. C’era e c’è, tuttavia, un problema; se tutti gli uomini sono intelligenti, volonterosi, onesti, ecc., allora più o meno si equivalgono; ma una volta che nelle menti, anche dei meno dotati, dei meno intelligenti, dei meno laboriosi, ecc., sia entrata l’idea democratica della sostanziale uguaglianza di tutti, ciascuno tende a "leggere" questo principio nel senso di avere qualcosa in più di chiunque altro. Se tutti, infatti, abbiamo il "diritto" di ritenerci intelligenti, capaci, onesti, perché mai dovrei accettare l’idea che qualcuno lo sia più di me? Al contrario, io penso e credo di esserlo un po’ di più, o magari assai di più, di tutti gli altri. Se il criterio di giudizio è soggettivo, come la modernità pretende, avendo abolito l’oggettività, allora perché non dovrei giudicare nel senso che maggiormente gratifica il mio ego? Possiamo perciò dire che l’egotismo è la versione moderna dell’egoismo: un egoismo fondato sulla sopravvalutazione di sé e sull’affermazione della propria eccellenza, cosa che ovviamente si scontra con tutti gli altri egotismi in quel fenomeno caratteristico della società moderna che è l’individualismo di massa. Se tutti si sentono eccezionali e tutti vantano di avere dei meriti iperbolici, per forza di cose si innesca una competizione paranoide, avente il fine di dimostrare la effettiva superiorità di ciascuno nei confronti di tutti. In una simile ottica non si stenta a capire perché Sartre sostenesse che l’inferno sono gli altri.
Uno dei più chiari riflessi dell’avvento del’egotismo è visibile nella letteratura, nella poesia, nelle ari figurative e, da ultimo, nel cinema e nella musica leggera. L’artista moderno, infatti, o colui che si ritiene tale – e chi mai non si sente un po’ artista, un po’ poeta, nonché un po’ filosofo, nella società moderna?; e chi mai, avendo una sia pur minima coscienza dei propri limiti, riconosce di non possedere alcuna delle attitudini proprie dell’artista, del poeta, del pensatore? — non si pone il fine, come gli artisti del passato, di farsi comprendere e di essere ammirato per la sua capacità di rappresentare la realtà, sia pure trasfigurandola, dalla totalità del pubblico, ma solo quello di esplicitare le pulsioni del suo ego, di sfogare le proprie sensazioni soggettive. Non è necessario che il pubblico capisca; per capire, ci sono i critici, i quali si fanno garanti della profondità e della validità della sua arte; quanto al resto, se la gente comune non capisce, tanto peggio: è il pubblico che deve sforzarsi di capire, non già l’artista che deve essere chiaro. Questa nuova concezione dell’arte, che fa la sua comparsa col romanticismo, esime l’artista da qualunque responsabilità nei confronti del pubblico: non è per la gente che egli realizza le sue opere, ma per portare alla luce quel che egli sente, e, in definitiva, quel che egli è. L’arte diventa una sorta di auto-psicanalisi, un modo per rendere palesi gli impulsi dell’inconscio. Non è importante rappresentare la realtà, bensì rappresentare ciò che l’artista prova di fronte ad essa. Vi è un filo rosso che unisce il romanticismo al simbolismo, all’espressionismo, al surrealismo e all’arte informale: il filo rosso del soggettivismo esasperato e dell’egotismo dell’artista. L’artista parla di sé, si rivolge a se stesso, non si cura degli altri; gli altri possono solo apprezzarlo, ammirarlo, idolatrarlo; se non lo capiscono, se manifestano scetticismo nei confronti delle sue opere, ciò è la prova della loro mediocrità, del loro filisteismo, del loro infantile bisogno di certezze e punti di riferimento chiari e riconoscibili. L’artista moderno, invece, novello Ulisse alla rovescia che non cerca la patria perduta ma che accetta di navigare senza meta e senza scopo nell’oceano di un’esistenza sradicata (si pensi al Leopold Bloom di Joyce), ha compreso che la realtà è caotica e incomprensibile, è un non senso, e si limita a mostrarne il disordine caotico, l’incomprensibilità e l’assurdità (come nel teatro di Samuel Beckett).
Osservava il critico letterario e saggista Ferdinand Brunetière (Tolone, 1849-Parigi, 1906) nella sesta conferenza, dedicata a Madame de Staël e a Chateaubriand, del suo corso di lezioni su L’evoluzione dei generi nella storia della letteratura (titolo originale: L’Evolution des genres dans l’histoire de la littérature; traduzione dal francese di Paolo Bagni, Parma, Pratiche Editrice, 1980, pp. 174-175):
… Avete visto, infatti, come nel XVII e XVIII secolo si discutesse certo sull’applicazione delle regole, o sulla formula che conveniva darne, ma non si dubitava affatto che vi fossero delle regole e, poiché esse esistevamo, non si dubitava neppure che la loro autorità dovesse essere assoluta. Rousseau per primo, credo, ha fatto trionfare nella critica questa nozione di "relativo" che Perrault aveva sì sospettato, ma che Voltaire aveva impedito si sviluppasse; oggi verificheremo quali conseguenze racchiudesse questa sola novità.
Mentre fino ad allora, per duecento anni, ancora per un Voltaire, sicuramente il più personale degli uomini, la letteratura n effetti era stata quasi solo espressione di idee comuni — intendo, idee dell’opinione pubblica — con Rousseau essa diventa espressione di idee particolari e private, per così dire, o, se preferite, confessione dell’Io dello scrittore. Ben diverso in questo da Montaigne — ai cui "Essais" vedete ancora ogni giorno essere comparate le "Confessions" del cittadino di Ginevra — egli non si cerca affatto come l’altro, e soprattutto non cerca in sé l’uomo: al contrario, egli s’è trovato; e ciò che gli piace mostrare di se stesso, è quanto crede vi sia in sé nient’affatto di generale, ma d’individuale o di "unico".
"Non sono fatto come nessuno di coloro che ho visto; oso credere di non essere fatto come nessuno di coloro che esistono", così, in apertura delle "Confessions", ecco come egli stesso espone in tutta franchezza il suo disegno. È alla differenza che mira; quello che nella sua storia o nei suoi sentimenti può esserci di simile o d’analogo a quelli di ognuno, è per l’appunto quanto elimina dal suo racconto. "Rovesciamento dal pro al contro", avrebbe potuto dire qui Pascal. Guardandosi vivere e analizzandosi, Rousseau, come tutti gli scrittori, fa due parti di se stesso: l’una, la natura n generale, l’altra, la sua propria natura. Soltanto che, mentre prima di lui lo scrittore si sforzava di ridurre la propria natura all’universale – è l’espressione del tempo — e di rendersi simile agli altri quanto più poteva, per diventar intelligibile ad essi, Rousseau compie uno sforzo esattamente inverso. Esprime ciò che veniva trascurato, mostra ciò che veniva nascosto, esibisce ciò che veniva dissimulato. Che cosa sappiamo dei sentimenti di Voltaire per Madame du Châtelet? Poca cosa, e senza dubbio molto meno di quanto ne hanno saputo i contemporanei. Ma i contemporanei di Rousseau, invece, non hanno saputo niente di Madame de Warens; senza le "Confessions", forse ignoreremmo perfino il suo stesso nome.
Non devo qui mostrarvi i legami di questo egoismo, o, come si dice "egotismo" con le altre parti del carattere e del genio di Rousseau. Mi limito velocemente a dirvi che tutto il romanticismo è venuto da lì, se è vero che il suo principio è l’esaltazione del sentimento personale o l’ipertrofia dell’Io…
Rousseau dunque, mira a rappresentare, di se stesso, la differenza, quel che lo rende unico e diverso da qualsiasi altro. Non vi sarebbe nulla di male in questo, se non fosse accompagnato da un godimento narcisistico del proprio io e da una sopravvalutazione di sé che confinano con il delirio di onnipotenza, e se non vi fosse implicita la filosofia di una incessante competizione con altri gli io parimenti narcisisti e megalomani, e perciò una negazione, di fatto, di qualsiasi autentica comunicazione umana, perché il mondo si riduce a un fondale di teatro tappezzato di specchi. Il bello è che, sovente, nei romantici si nota una ostentazione dell’auto-compatimento, con una esibizione quasi impudica della propria fragilità e delle proprie insicurezze – Rousseau, per esempio, non solo ci racconta nel dettaglio le sue avventure amorose, ma anche di come, da ragazzo, non avendo altro modo di soddisfarsi, lo facesse da solo, con una franchezza che è quanto meno di dubbio gusto – però, nello stesso tempo, si servono di quella fragilità e di quelle insicurezze per farsene uno sgabello per salire più in alto nell’affermazione del proprio io, e nella pretesa che gli altri riconoscano loro una qualche forma di superiorità, se non altro per il loro essere "sinceri". È lo stesso atteggiamento di un regista come Wooldy Allen o di un artista come Andy Warhol o di un fumettista come Charles M. Schulz (l’ideatore di Charlie Brown): in fondo non hanno niente da dire, perché non c’è nulla, nella realtà, che meriti particolare interesse, ma tutto è banale, riproducibile, modesto, scoraggiante, frustrante; di fronte al mondo in cu viviamo, l’atteggiamento più logico da adottare è lo scetticismo e il rifiuto di qualsiasi illusione, di qualsiasi tensione ideale. Si giunge così a un ulteriore paradosso. Non solo l’individualista di massa è un signore che si crede eccezionale, ma non ha nulla di eccezionale, principalmente perché non possiede la profondità e il coraggio per andare veramente al fondo delle cose, e neppure l’umiltà e la semplicità di cuore per guardarle con un minimo di simpatia e benevolenza, se non proprio con stupore e gratitudine; ma è anche un signore che pretende di essere ammirato dagli altri proprio perché è annoiato, scettico, cinico e depresso, ma sempre — almeno così pare a lui — con un certo stile che lo distingue dalla massa e gli dà diritto a una particolar attenzione. Tale è l’atteggiamento di tante star della musica leggera, specie del rap, e dello spettacolo, e ancor più di tanti piccoli, squallidi divi della rete, i cosiddetti influencer, gente narcisista, egotista, che non ha mai lavorato un giorno in vita sua e che tuttavia pretende di guadagnare molto denaro solo per come si pone, per come si veste, per il taglio dei capelli e cose simili E i fatti, in verità, sembrano dare ragione queste pretenziose nullità montate in cattedra, perché milioni di followers le prendono a modello e ne decretano il successo, adottando e scimmiottando il loro modo di fare, di vestirsi e di tagliarsi i capelli, In una società vuota e ridotta a un deserto, non solo intellettuale e morale ma anche affettivo, i leader carismatici sono quelli che impersonano il vuoto, il nulla, il non senso.
Il rovesciamento della realtà è giunto al punto che le poche persone realmente originali, creative, e soprattutto dotate di vero spirito critico, non solo non vengono capite, il che è abbastanza normale nel clima di conformismo oggi imperante, ma vengono giudicate banali, noiose, insignificanti e semplicemente ignorate. Ed ecco milioni di studenti liceali abbandonare le lezioni e scioperare per il clima (con l’approvazione e anzi con l’istigazione del ministro, dei presidi e dei professori!; un po’ strano, no?) e andar dietro a Greta Thunberg, cioè alla sfacciata manovra mediatica organizzata dalla grande finanza per colpevolizzare ulteriormente la coscienza degli europei, facendoli sentire dei criminali ambientali che negano un futuro ai propri figli, e predisponendoli così ad accettare i costi economici e sociali che serviranno, in effetti, a convertire la produzione industriale dalle fonti energetiche inquinanti a quelle "pulite" e rinnovabili. Questo è solo un esempio, ma è significativo. Quegli studenti si sentono dei campioni incompresi della verità, degli araldi del mondo nuovo e degli apostoli di un altro paradigma culturale: in poche parole si sentono eccezionali, unici e originalissimi. A quanto pare non li sfiora l’idea di star facendo esattamente quel che altri vogliono che facciano: cioè di essere dei poveri burattini telecomandati di una gigantesca farsa, il cui scopo ultimo è completamente diverso da quello dichiarato. E tutto questo è possibile perché l’inganno del moderno pensiero democratico avalla e incoraggia un narcisismo e una sopravvalutazione di sé che servono a mascherare le strategie del potere mondiale occulto, mentre offrono agli abitanti sradicati e spersonalizzati della modernità un misero surrogato di ciò che non hanno: la pienezza di se stessi…
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