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Quanti ebrei perirono nei lager per le bombe alleate?

L’argomento è scottante, sgradevole e politicamente scorrettissimo. Si tratta di questo: nelle statistiche relative alle vittime del nazismo che perirono nei campi di concentramento, si mettono nel conto tutte le persone che vi entrarono e non ne uscirono vive: ma è corretto questo modo di fare i conti? Siamo dolenti di dover parlare di quegli uomini e di quelle donne come se si trattasse di una qualunque contabilità aritmetica, ma non è colpa nostra; del resto, si fa così per le vittime di qualsiasi guerra, di qualsiasi catastrofe, di qualsiasi calamità naturale: si contano i morti, e pare che si tratti solo di numeri, mentre si tratta di esseri umani in carne e ossa, le cui vite vennero bruscamente spezzate da eventi drammatici. Dunque, dicevamo dei campi di concentramento in cui vennero rinchiusi i nemici del Terzo Reich, o quelli che erano considerati tali, anche solo potenzialmente, nonché soggetti la cui libertà di movimenti era considerata incompatibile con il "nuovo ordine" che il nazismo voleva instaurare in Germania e in Europa: oppositori politici, ebrei, zingari, delinquenti comuni e omosessuali. Non è corretto addebitare al Terzo Reich la morte di tutte le persone che effettivamente perirono nei lager perché, durante la guerra, gli Alleati effettuarono numerosi bombardamenti su di essi, con bombe incendiarie e dirompenti che provocarono un alto numero di vittime. Anche volendo sottrarre a questo conto i detenuti che perirono all’esterno dei lager, mentre erano impegnati in lavori di sgombero delle macerie e di ripristino della viabilità stradale e ferroviaria, e limitandosi esclusivamente a quelli che trovarono la morte all’interno delle strutture detentive, resta il fatto che il loro numero è alto, anche se non è mai stato stabilito con esattezza, per la semplice ragione che nessuno se ne è mai assunto l’onere. Così pure — ma questo è un alto discorso – si addebita alla volontà di sterminio dei nazisti la cifra di quanti morirono a causa delle malattie infettive, della denutrizione e dello sfinimento: mentre è evidente che qui ci si muove su un terreno ambiguo, perché, se è vero che il vitto fornito ai prigionieri era scarso e scadente, e se è altrettanto vero che le cure mediche, se pure c’erano, si limitavano al minimo indispensabile, e anche qualcosa di meno, resta il fatto che, specie negli ultimi tempi della guerra, negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, la morsa di ferro e fuoco che stringeva la Germania da ogni lato e gli effetti devastanti dei bombardamenti aerei sulle città avevano determinato una situazione alimentare e igienica a dir poco drammatica anche per la popolazione civile tedesca, e senza dubbio molti dei detenuti nei lager che perirono, negli ultimi giorni, di tifo e di fame, furono vittime della penuria di rifornimenti alimentari, della interruzione delle vie di comunicazione e della scarsità di medici e infermieri in Germania e nei territori occupati essendo quasi tutti impegnati sui fronti di guerra, più che da una precisa volontà di sterminio da parte dei carcerieri. Il filmato girato dalle forze armate britanniche subito dopo il loro ingresso nel campo di Bergen-Belsen, per esempio, e al cui montaggio collaborò anche il giovane Alfred Hitchcock, che mostra al pubblico inorridito mucchi di cadaveri scheletriti nel momento in cui vengono gettati sbrigativamente nelle fosse comuni per prevenire lo scoppio di epidemie, non testimonia ciò che parrebbe a prima vista, cioè che i nazisti fecero morire intenzionalmente quelle persone di fame, ma soltanto che esse morirono di fame, se per una volontà precisa dei loro carcerieri o per mancanza di rifornimenti alimentari, è da vedere.

Addirittura, negli anni seguenti alla Seconda guerra mondiale si è diffuso uno strano atteggiamento da parte di alcuni autori e pubblicisti, una sorta di "processo" post rem alle autorità politiche e militari angloamericane perché non hanno bombardato i campi di concentramento o non abbastanza da distruggerli o renderli inutilizzabili. Secondo questa corrente di pensiero, guidata dallo scrittore ebreo americano Elie Wiesel, reduce da Auschwitz, gli Alleati sapevano quel che accadeva in quei luoghi e perciò avrebbero dovuto usare il loro potenziale strategico e militare per fermarlo. Ora, a parte il fatto che, quanto alla durezza del trattamento e al numero delle vittime, i gulag di Stalin, principale sostegno e alleato delle democrazie occidentali nella lotta contro la Germania, non avevano nulla da invidiare ai lager nazisti, tranne i forni crematori e le camere a gas (ma le camere a gas sono un fatto controverso, e i forni crematori venivano utilizzati per bruciare i cadaveri e non, come talvolta si vuol suggerire al pubblico, per eliminare delle persone vive), pare che a questi Soloni non sia venuto in mente che un bombardamento sistematico dei campi di detenzione nazisti avrebbe comportato la morte, o comunque un altissimo numero di vittime, proprio fra coloro che vi erano rinchiusi. Secondo questa corrente di pensiero, gli Alleati sapevamo che in quei campi si stava consumando un genocidio, eppure non fecero nulla per fermarlo, in sostanza per il sovrapporsi di tre ordini di cause: l’ottusità burocratica dei comandi alleati, il fastidio dei militari di fronte a una richiesta proveniente da ambienti civili e stranieri, come il Congresso Mondiale Ebraico, e infine una certa dose di antisemitismo, che sarebbe stato diffuso agli alti livelli politici delle democrazie: il che è come dire che gli Alleati sapevano e non se la presero tanto calda perché, in fondo, non erano troppo dispiaciuti che Hitler facesse per loro il "lavoro sporco" di ridurre drasticamente il numero degli ebrei.

Va da sé che nella richiesta "retrospettiva" di autori come Wiesel, il quale dice di aver chiesto, ma invano, a decine di persone perché gli americani non abbiano bombardato Auschwitz e gli altri lager — il che non è esatto, perché i bombardamenti comunque ci furono, anche se non "totali" come essi avrebbero voluto — c’è un sottinteso: ossia che le condizioni dei prigionieri erano così infernali, che anche l’eventualità che restassero uccisi sotto le bombe non avrebbe comportato sensi di colpa per gli Alleati, perché sarebbe stata, per quei poveretti, una "soluzione" pietosa. Il fatto è che noi tutti abbiamo una certa idea di cosa furono i lager nazisti, ma non ne abbiano affatto una di cosa furono i gulag di Stalin; e meno ancora sappiamo cosa furono i campi di prigionia alleati ove, dopo la fine della guerra, milioni di soldati tedeschi furono lasciati morire di stenti e di malattie. Nel bagaglio culturale di ogni persona che si rispetti c’è la lettura, o almeno la nozione, di libri come Se questo è un uomo di Primo Levi; ma non è necessario che vi sia Arcipelago Gulag di Solzhenitsyn, perché nessuno gliene domanderà conto, mentre chiunque si scandalizzerà davanti all’ignoranza rispetto al libro di Levi o al Diario di Anna Frank. Pertanto nessuno ha trovato pazzesca la domanda sul perché gli Alleati non abbiano distrutto Auschwitzi coi bombardamenti aerei, mente tutti troverebbero pazzesca la domanda sul perché essi non abbiano mai pensato di distruggere allo stesso modo i campi di concentramento staliniani, nei quali venivano fatte morire milioni di persone innocenti. Similmente, noi tutti consideriamo normale, anzi giusto, che i governi inglese e francese abbiano dichiarato guerra alla Germania per venire in aiuto alla Polonia; ma ben pochi si sono chiesti perché mai, se il loro scopo era salvare la Polonia, non abbiano mosso un dito contro l’Unione Sovietica, quando fu Stalin, due settimane dopo l’attacco tedesco, a invadere quel Paese da Est, in base a un accordo di spartizione fatto proprio con Hitler. La spiegazione di questa discrepanza nella percezione dei due rispettivi problemi, i crimini nazisti e i crimini comunisti, risiede ovviamente nel fatto che la Seconda guerra è stata vinta dagli Alleati insieme all’Unione Sovietica, anzi, col supporto fondamentale di quest’ultima; e la storia, si sa, la scrivono i vincitori, anche nel senso che la letteratura, il cinema, i libri di testo riportano in modo unilaterale le loro ragioni, nella stessa misura in cui minimizzano o negano le ragioni di vinti. Nel caso del nostro tema, tuttavia, c’è un ulteriore elemento che ha pesato nella costruzione del nostro immaginario collettivo: lo sterminio di sei milioni ebrei, presentato come il più grave, se non l’unico, genocidio della storia. Il fatto che le vittime di Stalin siano state circa 20 milioni di cittadini del suo stesso Paese, in confronto, impallidisce, perché gli ebrei rivendicano per sé un primato nella gravità del destino che i loro correligionari europei hanno subito negli anni della Seconda guerra mondiale. Impossibile discutere, pertanto, sul numero e anche sulle modalità di quelle vittime: chiunque ponga in dubbio la cifra di sei milioni e chiunque avanzi delle perplessità sul sistema delle camere a gas, immediatamente viene ricoperto di contumelie e ridotto al silenzio, con l’accusa inappellabile di antisemitismo. Si può discutere legittimamente sul numero delle vittime di Stalin e sulle modalità con cui vennero eliminate; si può discutere delle vittime di Mao o di Pol Pot; ma non si può discutere sulle vittime di Hitler, specie se si parla delle vittime ebree.

Ora, che gli Alleati abbiano bombardato i lager con tutti i loro prigionieri e non soltanto le recinzioni, come qualche anima bella avrebbe voluto, per far fuggire quanti vi si trovavano, è un fatto; e che quei bombardamenti insensati, fatti con bombe incendiarie, non avessero lo scopo di alleggerire le sofferenze dei detenuti, ma quello di provocare il maggior numero di vittime, forse proprio per poi poterle addebitare alla barbarie nazista (che ci fu, ma che è stata sovradimensionata per ragioni di opportunismo ideologico) è un altro fatto, parimenti innegabile. Si potrebbero citare molti esempi per illustrarlo; ci limiteremo a uno solo, quello della morte della sfortunata principessa Mafalda di Savoia, sposa di Filippo d’Assia-Kassel e relegata, com’è noto, nel campo di Buchenwald dopo l’armistizio dell’8 settembre, per rappresaglia contro Vittorio Emanuele III. Si sa che la principessa morì il 28 agosto del 1944; non tutti sanno, però, che la sua morte non fu dovuta in alcun modo ai nazisti, bensì a un bombardamento aereo alleato, nel corso del quale rimase gravemente ferita e ustionata, spegnendosi dopo una dolorosa agonia di quattro giorni. Come riferì poi, per iscritto, il medico del campo, dottor Gerhard Schiedlausky (cit. in: Renato Barneschi, Frau von Weber. Vita e morte di Mafalda di Savoia a Buchenwald, Milano, Rusconi, 1982, pp. 158-159):

Durante il bombardamento di Buchenwald, avvenuto il 24 agosto 1944 dalle 12 alle 12,40, tutti gli abitanti della baracca, tranne Maria Ruhnau, si trovavano nella trincea di protezione contro le schegge, situata nelle immediate vicinanze della baracca stessa. Baracca e annessi furono colpiti da più bombe incendiarie e dirompenti. In questa circostanza la suddetta trincea cedette seppellendo le persone che vi erano rifugiate. La principessa Mafalda, sepolta fino alle braccia e alla testa, venne ustionata leggermente al viso. Erano invece gravi le ustioni riportate al braccio sinistro e altrettanto quelle alla spalla sinistra anch’essa seriamente colpita (secondo il mio parere era il braccio sinistro, tuttavia qui mi abbandona la memoria e il braccio colpito poteva anche essere quello destro).

Segue la descrizione dettagliata degli ultimi giorni di vita della sventurata principessa. Dopo di che Renato Barneschi si dilunga per quattro pagine a mettere in dubbio l’attendibilità del dottor Schiedlausky, affermando che cercava di accreditare di sé l’immagine di un medico scrupoloso e umano al solo scopo di poter meglio difendersi nel processo che lo attendeva come criminale di guerra per aver condotto esperimenti crudeli sui prigionieri, e che si concluse con la sua condanna a morte. È strano che non abbia dedicato neanche quattro righe a riflettere sulla utilità pratico e sulla liceità morale di quel bombardamento, così come quella di altri bombardamenti analoghi, che prendevano di mira proprio le baracche dei prigionieri e che uccisero inutilmente un grande numero di quegli infelici, cosa che non può considerarsi un effetto collaterale, visto l’uso di bombe incendiarie e dirompenti. Erano, del resto, gli stessi gloriosi piloti, specie americani (i britannici operavano di notte, i loro colleghi d’oltreoceano di giorno) che volentieri si abbassavano a volo radente per mitragliare con maggior precisione i treni, le automobili e le persone a piedi, compresi donne e bambini profughi, in fuga sulle strade dalle province dell’Est, invase dai sovietici, perché si ritenevano autorizzati a mostrare tutta la loro potenza e perché, quando volavano sulla Germania e sui territori da essa occupati, si gloriavano non concedere tregua a nessuno. Questo è un buon esempio di come tutta la storiografia politically cocrrect ha presentato, e continua a presentare, gli eventi di quel periodo, usando costantemente due pesi e due misure differenti, a seconda che si tratti della Germania o degli Alleati. Senza dubbio qualcuno si chiederà dove vogliamo arrivare con questo discorso e quale sia il nostro fine recondito: come se voler chiarire le pagine poco studiate della storia recente implicasse per forza qualche subdolo scopo. Ma questo è appunto il nervo scoperto della storiografia e, più in generale, di tutta la cultura progressista odierna: la quale vorrebbe cristallizzare la versione dei vincitori del 1945 e negare ai vinti, al senso di giustizia e alla ricostruzione onesta del passato recente, un minimo d’imparzialità e di obiettività. Non si tratta di capovolgere il giudizio della storia, anche perché la storia non è un tribunale e non ha il compito di emettere sentenze; ma di ricordare che, per comprendere il presente, bisogna studiare il passato con animo scevro da passioni ideologiche: sine ira et studio, come dice Tacito nei suoi Annales (1, 1, 3).

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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