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L’8 settembre spezzò per sempre l’unità nazionale

Gli italiani si dice, sono un popolo disunito: presi individualmente, sono capaci di grandi cose; ma come squadra, fanno regolarmente fiasco: e si dice una cosa giusta. Si dice anche che sono sempre stati disuniti e che sempre lo saranno; che, da questo punto di vista, sono irriformabili. Questa, invece, è una cosa che va precisata. A parte la previsione circa il futuro, che vale quanto qualsiasi altra previsione, la costatazione sul passato sembra una ovvietà; tuttavia, non è proprio così evidente come appare. Se ci si riferisce ai lunghi secoli dei comuni, delle signorie e dei principati, nonché delle dominazioni straniere, si dice una cosa giusta; ma dal 1861 – cioè da oltre un secolo e mezzo, che su scala storica, e a paragone delle altre grandi nazioni, non è tanto, ma nemmeno poco – l’unità nazionale è stata raggiunta e anche l’evoluzione del popolo italiano verso la piena coscienza di sé ha fatto, bene o male, un po’ di strada.

Certo: è difficile parlare del sentimento nazionale degli italiani senza fare un discorso approfondito, non tanto sui secoli della frammentazione politica, quando la patria degli italiani erano la propria città, la propria signoria o il proprio principato, quanto sul Risorgimento, del quale in generale abbiamo tutti un’idea distorta, in quanto esso è stato idealizzato oltremisura, proprio per fornire una base ideologica, psicologica e sentimentale al nuovo Stato unitario. L’interpretazione estrema, in negativo, è che esso è stato poco più di una cinica e spietata operazione di conquista e di rapina da parte del Piemonte a danno degli altri Stati preunitari, con il compiacente sostegno della grande finanza internazionale, che, allora, era prevalentemente britannica e non si era globalizzata, scavalcando le frontiere e subordinando a sé gli Stati nazionali, come sta accadendo oggi. Un’interpretazione meno estrema, ma pur sempre severa, vede in esso un tentativo, un abbozzo, motivato da interessi economici e finanziari e che avrebbe dovuto diventare un fatto politico e morale, ma si arrestò, per tutta una serie di complesse ragioni, a metà dell’opera. Il fascismo, che viene generalmente presentato come una brusca interruzione di quel processo, fu, al contrario — questa è la nostra interpretazione — un estremo e quasi disperato tentativo di recuperare il tempo perduto e di scongiurare la concreta minaccia di un ritorno al disordine e all’anarchia (un ritorno puro e semplice ai vecchi Stati essendo impossibile) nel clima di crisi materiale e morale determinatosi all’indomani della Prima guerra mondiale. Fu anche, a nostro avviso, il tentativo di salvare l’eredità più preziosa di quell’esperienza, lo spirito di sacrificio e di fierezza che si era creato tre anni e mezzo di guerra di trincea, e che aveva avuto la sua epopea, più che nella rivincita di Caporetto, a Vittorio Veneto, nella eroica resistenza sul Grappa e sul Piave, proprio all’indomani della catastrofe di Caporetto. Mussolini, che aveva fatto la guerra in trincea, e non sulla poltrona del suo giornale o imboscandosi in qualche tranquillo servizio di retrovia, sentì che quello spirito stava per essere sommerso da un altro spirito, quello dei disfattisti che avevano sperato in una sconfitta dell’Italia (proprio come i bolscevichi in Russia) e che, nel 1919, erano rabbiosi e scontenti per la crisi economica, e riversavano tutto il loro rancore e la loro frustrazione proprio sull’esercito, specialmente sugli ufficiali, e in genere su chiunque mostrasse sentimenti patriottici, perché vedevano in essi i responsabili di quella che, a loro giudizio, era stata una tremenda sciagura nazionale, ossia la partecipazione alla guerra stessa.

Qui sarebbe necessario fare anche un discorso su come l’Italia entrò in guerra nel 1915, in seguito alle decisioni segrete di tre soli uomini, Salandra, Sonnino e il re, quando la maggioranza del Parlamento e, senza dubbio, anche del popolo italiano, erano di sentimenti neutralisti. Si rimprovera sempre a Mussolini di aver deciso da solo l’ingresso dell’Italia in guerra, nel 1940, senza nemmeno convocare il Gran Consiglio del Fascismo (ma qualcuno glielo avrebbe rimproverato, se l’esito della guerra fosse stato vittorioso, come nel 1918?); e si sorvola sul fatto che una decisione altrettanto unilaterale era già stata presa nel 1915, con la differenza che Salandra era il presidente liberale di un governo costituzionalmente eletto, mentre il fascismo non aveva mai preteso di essere altra cosa da una dittatura. Sia come sia, il fatto è quello: la maggioranza degli italiani nel 1915 non voleva la guerra; nondimeno, quando essa fu dichiarata, e soprattutto quando la patria fu realmente in pericolo, cioè all’epoca di Caporetto, la maggioranza degli italiani trovò in sé l’energia morale necessaria per conservare la calma e respingere il pericolo con le forze riunite. Si spiega così il "miracolo del Piave" che tanto stupore desta negli storici militari: lo stesso esercito che alla fine di ottobre aveva ceduto quasi senza combattere, ora, alla fine di novembre, si batteva con vigore leonino e sbarrava la strada agli invasori, quando tutte le previsioni lo davano per spacciato, e gli alleati consigliavamo una ritirata almeno fino al Po e al Mincio. Mussolini, dunque, nel 1919 vide che quelle belle energie morali rischiavano di esser sopraffatte dallo spirito disfattista e antinazionale dei socialisti, e scese in campo per salvare quell’eredità, quel bagaglio di esperienze e quel capitale di orgoglio patriottico; sicché non era solo retorica la frase che pronunciò davanti a Vittorio Emanuele III dopo la marcia su Roma: Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto. Così come non era solo strumentale la frase che pronunciò in Parlamento il 3 gennaio 1925, dopo la crisi seguita al delitto Matteotti: Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Egli cioè voleva reagire all’interpretazione riduttiva e meschina del fascismo come movimento puramente reazionario e la sua identificazione, sic et simpliciter, con lo squadrismo: esattamente l’interpretazione che è divenuta canonica dopo il 1943, e che per decenni la vulgata resistenziale e antifascista ha ripetuto a tre generazioni d’italiani.

Tuttavia, ripetiamo, se la guerra si fosse conclusa diversamente, oggi il fascismo – che si sarebbe estinto da solo, pacificamente, come il franchismo in Spagna – sarebbe ricordato come il regime che portò ad altezze mai viste le fortune della Patria e il suo ricordo, invece di essere esecrato e disprezzato oltre ogni limite del ragionevole e del giusto, sarebbe addolcito dalla bontà dei risultati. Che non si sarebbero limitati alla vittoria militare, o alla partecipazione alla vittoria (tedesca), con tutti i suoi vantaggi economici e politici, facendo dell’Italia una delle grandi potenze mondiali, ma avrebbero agevolato e forse condotto a termine il processo rimasto incompleto del Risorgimento, ossia la formazione di una salda coscienza nazionale. Checché se ne dica, una guerra vittoriosa ha sempre un effetto corroborante sullo spirito di un popolo, mentre una guerra persa ha sempre un effetto mortificante; e se un popolo non ha ancora realizzato pienamente la propria coscienza nazionale, allora si può esser certi che la sconfitta ne allargherà le crepe e ne accentuerà gli elementi di disunione e di debolezza, primo dei quali lo spirito di fazione che avvelena la lotta politica e che offre comode sponde alle potenze straniere, per fomentare indefinitamente le divisioni interne, Proprio quello che è accaduto all’Italia dopo il 1945 e che continua puntualmente a verificarsi, con un "partito dello straniero", in questo caso dell’UE e della BCE, che farebbe qualsiasi cosa pur di ostacolare l’opera di governo dei suoi avversari interni, bollati come "sovranisti", quasi che l’amor di patria e il desiderio di affermare e difendere la sovranità dello Stato fossero delle colpe vergognose dalle quali ci si deve liberare, se vi vuole essere ammessi nel salotto buono della comunità internazionale; a dispetto del fatto che quei sentimenti sono apprezzati e anzi considerati come del tutto naturali in ogni altra nazione d’Europa e non solo d’Europa, grande o piccola. E se per il PD è perfettamente lecito e naturale che un suo esponente, Sandro Gozi, accetti di entrare a far pare del governo di Macron in qualità di responsabile per gli affari europei, ci piacerebbe sapere se per un partito politico francese, o tedesco, o britannico, una cosa del genere potrebbe accadere, e se sarebbe considerata perfettamente lecita e naturale. Quanto a noi, siamo certi di no, perché pensiamo che in quei Paesi, come del resto è giusto e normale che sia, il sentimento nazionale è abbastanza saldo da considerare una eventualità del genere come una prostituzione inammissibile agli interessi di una potenza straniera.

Non si può negare che il fascismo, pur coi suoi limiti e i suoi difetti, aveva fatto molto per proseguire l’opera incompiuta del Risorgimento, ossia, come aveva auspicato nel 1861 Massimo D’Azeglio, per fare gli italiani; e di fatto esso, verso il 1935-36, cioè con la guerra d’Etiopia e la proclamazione del’Impero, ma anche con tutte le riforme sociali e giuridiche che avevano migliorato, e non di poco, la condizione dei lavoratori italiani, nonché con le iniziative a favore della scuola, degli italiani all’estero e per la difesa e l’espansione della cultura italiana, aveva raggiunto un alto grado di consenso popolare e aveva costituito, sia pure su basi fragili e provvisorie, una coscienza nazionale, unita a un senso di fierezza, quale mai prima di allora, e mai più dopo di allora, gli italiani, come nazione, avrebbero provato. A quel punto sopravvenne la guerra del 1940: e Mussolini era così lontano dall’averla voluta o desiderata, almeno in quel momento, che stava prodigando denaro ed energie non per rafforzare l’esercito, la flotta e l’aviazione, ma in vista dell’Esposizione Universale del 1942, che avrebbe dovuto essere la pacifica apologia del regime e dell’Italia, addirittura costruendo a Roma per l’avvenimento un quartiere nuovo di zecca (cfr. il nostro articolo L’esposizione universale del 1942 e la tomba del sentimento nazionale italiano, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 18/09/09 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 11/12/17).

Quello di entrare nel conflitto, il 10 giugno 1940, fu un passo estremamente arrischiato; ma, come abbiamo cercato di mostrare in altri scritti, esso era pressoché obbligato, visto che anche la scelta di una neutralità assoluta avrebbe comportato dei rischi non meno gravi della scelta di intervenire al fianco dell’alleato tedesco, nonché probabile vincitore del conflitto, che, se si fosse concluso felicemente, dopo un impegno militare non più lungo di qualche mese, come allora si sperava e si credeva, avrebbe non solo ulteriormente rafforzato il prestigio del regime e il consenso interno, ma avrebbe anche posto l’Italia fra le massime potenze mondiali e le avrebbe assicurato una posizione invidiabile, grazie alla quale avrebbe reperito i mezzi materiali per proseguire e ampliare la politica di riforme sociali e di espansione delle strutture produttive e finanziarie – proseguendo, anche in questo caso, un indirizzo politico che risale a prima del fascismo, se è vero, come è vero, che il colonialismo italiano, da Crispi a Giolitti, mirava a cercare in Africa i mezzi per la soluzione di problemi economici interni (cfr. Fu il ricatto inglese, nel 1940, a spingere l’Italia in guerra?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 04/11/10 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 10/12/17; Ma è proprio vero che l’Italia avrebbe potuto tenersi fuori dalla Seconda guerra mondiale?, rispettivamente il 12/03/10 e il 21/12/17; L’egoismo delle plutocrazie spinse l’Italia nell’abbraccio mortale di Hitler, il 06/07/15 e il 31/12/17). Invece di qualche mese, la guerra durò parecchi anni; e l’Italia, le cui strutture industriali non erano preparate per ad uno sforzo simile, specie in difetto di materie prime, con le corazzate ferme nei porti per mancanza di carburante, dopo tre anni e mezzo (la durata della sua partecipazione alla Prima guerra mondiale) si trovò in un vicolo cieco; e fu grave errore del fascismo non aver saputo dare alla guerra un carattere veramente nazionale, invece che di partito. Affamato, demoralizzato, sottoposto ai martellanti bombardamenti terroristici delle flotte aeree angloamericane, il popolo italiano non solo ritirò il suo consenso al regime fascista, ma cominciò a perdere il senso della coesione nazionale, così di recente, e solo in superficie, raggiunto. Il fatto, poi, che l’invasione straniera partisse dalla Sicilia, cioè dal profondo Sud, dove più debole erano sia il consenso al regime, sia il recente spirito di concordia e solidarietà nazionale, mentre nel 1917 era giunta dal profondo Nord, dove aveva trovato le popolazioni più reattive, anche per la più sentita tradizione risorgimentale e per la più forte presenza di stimoli irredentisti e antiaustriaci, contribuisce a spiegare la differente reazione a livello sia militare, che popolare. Nel 1917, dopo Caporetto, gli italiani videro gli austriaci come invasori: era il nemico storico che tornava per vanificare l’opera del Risorgimento, e quindi doveva essere fermato a qualsiasi prezzo; nel 1943 gli italiani, e specialmente i siciliani, videro gli angloamericani come i liberatori, o, quanto meno, come coloro che venivamo a por fine ai tormenti di una guerra sentita come un peso insopportabile. Ma bisogna pur dire che anche nel 1917 c’era stata qualche avvisaglia di disfattismo, e non era mancato chi aveva visto nell’invasione nemica la desiderata premessa per scatenare una rivoluzione sociale e una guerra civile (appunto come stava accadendo in Russia proprio in quei mesi, e come faranno i partigiani comunisti e i terroristi dei G.A.P. nel 1943-45). La vera differenza fra le due situazioni è che nel 1917 il governo conservò i nervi saldi e la macchina dello Stato continuò a funzionare perché i suoi uomini rimasero al loro posto; mentre nell’estate del 1943, e specialmente dopo l’8 settembre, il governo si dimostrò inesistente, la macchina dello Stato si sfasciò e i suoi rappresentanti, iniziando dal re e scendendo fino all’ultimo segretario comunale, si diedero alla fuga, secondo la filosofia del si salvi chi può. I pochissimi che rimasero al loro posto pagarono un alto prezzo, specie nella Venezia Giulia, dove subito i partigiani slavi si diedero ad ammazzare ed infoibare gli italiani, accanendosi specialmente sui funzionari pubblici. Valga per tutti la sorte di Vincenzo Serrentino, l’ultimo prefetto di Zara italiana, che rimase coraggiosamente al suo posto e che, a guerra ormai finita, venne processato, condannato a morte e giustiziato da un tribunale jugoslavo per pretesi crimini di guerra, il 15 maggio 1947: ed è significativo che il suo nome sia rimasto pressoché sconosciuto al grande pubblico italiano, e che non venga mai ricordato nelle scuole, mentre non c’è studente che non abbia sentito i professori parlare dei sette fratelli Cervi. Fatto tanto più eloquente se si considera che, quando il plotone d’esecuzione lo fucilò, a Sebenico, nel 1947, in Italia non c’era più il fascismo, ma un governo democratico uscito, come allora si diceva, dalla Resistenza: a riprova dell’eclisse del sentimento patriottico e del prevalere di un diffuso senso di vergogna e umiliazione nazionale: non, come in Germania, per la guerra perduta, ma per aver combattuto dalla parte moralmente e politicamente sbagliata. Tale è stata, per sette decenni, l’immagine che la scuola, l’università, il cinema, la letteratura e i cosiddetti intellettuali hanno voluto dare agli italiani di se stessi, o meglio dei loro padri e dei loro nonni, come conseguenza della sconfitta e del modo in cui l’Italia è ritornata alla democrazia: cioè per la forza delle armi straniere, ancora una volta, e non per un moto spontaneo, visto che anche la caduta di Mussolini, il 25 luglio del 1943, non fu in alcun modo il risultato di un’azione popolare, né di una iniziativa delle forze antifasciste.

Scrive Carlo Mazzantini nel suo bel saggio I balilla andarono a Salò. L’armata degli adolescenti che pagò il conto della storia (Venezia, Marsilio Editore, 1995, pp. 106-109):

Per vent’anni, fascisti per convinzione o per opportunismo o per conformismo, non fascisti ed ex antifascisti convertiti e non, avevano coabitato gli uni accanto agli altri, avevano condiviso esperienze comuni, avevano, volenti o nolenti, parlato lo stesso linguaggio.

La mattina dell’8 settembre nella quasi totalità dei suoi cittadini l’Italia, sia pur prostrata nella sventura e nella sconfitta, era un paese ancora sostanzialmente unito. L’appello contenuto nel proclama che Badoglio aveva lanciato nell’assumere il potere quarantacinque giorni prima, "si serrino le file attorno al re, simbolo della Patria", era stato sostanzialmente accolto da tutti, Mussolini compreso. Il "lungo viaggio attraverso il fascismo" è stato percorso dall’intera comunità e gli italiani, sia pur pesti e sgomenti, sono ancora una nazione.

Sono i modi con cui verrà attuato l’armistizio, il cui annuncio sarà diffuso dalla radio nel tardo pomeriggio di quel giorno infausto, e le conseguenze che scaturirono, che romperanno l’unità morale degli italiani.

"Bisognava comunicare all’ambasciatore tedesco che non eravamo in gado di continuare la guerra e che avremmo chiesto l’armistizio dando alle truppe tedesche il tempo di ritirarsi, nostri dovere elementare", dichiarerà Vittorio Emanuele Orlando, il Presidente della Vittoria. "Se la Germania non accettava saremmo entrati in guerra contro di lei, senza la vergogna dell’armistizio e con perfetta lealtà".

La totalità degli ufficiali, dei soldati e dei cittadini, che si sarebbero stretti intorno al re "simbolo della Patria", avrebbero tutti convinti, sia pur con pena e rammarico, che non restava altra via d’uscita, eseguito gli ordini, conservando l’unità dello stato e della nazione, come dichiarò esplicitamente il comandante della Xa Mas, Junio Valerio Borghese.

"Non ho difficoltà ad ammettere che se il governo ci avesse fatto uscire dalla guerra e dalla alleanza in modo decoroso e onorevole, con la nazione compatta, logicamente avrei obbedito, dato che non si sarebbe presentato il caso di coscienza che si pose quando per la defezione dei capi ognuno dovette decidere per suo conto".

Le premesse per la guerra civile in cui precipitò il Paese, stano dunque in quel giorno che impresse una svolta radicale all’evoluzione del postfascismo e creò i presupposti psicologici e materiali della spaccatura che divise l’Italia. La mancanza della i elementare lealtà nei confronti della Germania (che colpì, checché se ne sia poi detto, nel profondo moltissimi italiani, "si sentono traditi e insieme traditori", dice Mario Soldati), la fuga del re e del governo dalla capitale, l’abbandono senza ordini dell’esercito, determinarono nell’animo della maggioranza degli italiani la decadenza non solo della monarchia ma, essendo stata questa l’estremo presidio in cui essi come nazione si erano rifugiati, del senso stesso dello stato, del sentimento di appartenenza e di fedeltà a una comunità unita in un organismo politico, lasciandoli nel più profondo disorientamento, al quale solo i migliori e più responsabili reagorono cercando una via personale di riscatto e di dignità che condusse su sponde avverse.

Inoltre, provocando la divisione del territorio nazionale in due tronconi, occupati da due eserciti stranieri, diede a questi l’opportunità di suscitare e sostenere tutte quelle iniziative (organizzazione e armamento della guerriglia da una parte, sostegno alla RSI dall’altra) che potessero giovare alla loro guerra e che contribuirono a mettere gli italiani gli uni contro gli altri.

In questa situazione, da una parte si offrì a quel pugno di ex gerarchi fascisti che erano riparati a Monaco e che trovarono in Mussolini, liberato dai tedeschi e costretto a riassumere responsabilità di governo dai ricatti e le minacce di Hitler, una bandiera che poteva ancora suscitare risonanze emotive e adesioni, la possibilità di ritornare sulla scena e di etichettare come fascista il soprassalto di indignazione e di rifiuto dell’armistizio che si manifestò in una non trascurabile minoranza; e dall’altra al vecchio antifascismo che tornava dalle prigioni e dall’esilio, anch’esso ancora assolutamente minoritario, e che nessuna parte aveva avuto nella caduta del regime, l’insperata opportunità, col sostegno degli alleati, di un esame di riparazione in cui legittimarsi di fronte al paese e dare contenuto di atti concreti alla propria bandiera, gloriosa per coerenza e dirittura di pochi individui e per antiche lotte, ma assente, ahimè, da due decenni dalla scena politica italiana.

Ma soprattutto — e questo è il punto fondamentale — si crearono le condizioni per l’inserimento prepotente sulla scena politica italiana di un partito comunista di osservanza staliniana e di formazione cominformista il quale, portatore di una utopia rivoluzionaria che ogni contraddizione della Storia sembrava potesse risolvere, sostenuto dalla ferrea determinazione dei suoi quadri dirigenti, attrasse in breve nel suo ambito — in un momento di grandi incertezze e disorientamento — gran parte della intelligenza fascista e suscitò in vasti strati popolari tante ingenue speranze e dedizioni. Questo partito grazie alla sua incalzante azione militare e politica, influenzò in modo determinante le dinamiche, le modalità e gli esiti di quella svolta storica, e fondò le basi organizzative e propagandistiche della sua abnorme crescita da cui tutta la successiva dialettica politica fu condizionata costringendola in un nuovo vicolo cieco, quello che si aprì solo quarantacinque anni dopo con la caduta del Muro di Berlino e dando alla nostra vicenda nazionale uno svolgimento totalmente anomalo rispetto alle altre nazioni dell’Occidente uscite dal conflitto, Germania compresa.

Tutto questo al di là delle aspirazioni e delle pallide previsioni di cui era capace in quel momento l stragrande maggioranza degli italiani, la quale, se solo avesse avuto la fora di sollevare il capo dallo stato di prostrazione morale e fisica in cui era precipitata, certo avrebbe voluto seppellire per sempre il fascismo e non davvero riesumare il suo contrario, del quale era rimasta solo un’eco lontana e sbiadita (fortemente condizionata dalla condanna e dal disprezzo che per vent’anni gli aveva riservato la propaganda ufficiale) come appunto dichiarava il giornalista "fascista" Stanis Ruinas.

Anche se Mazzantini, a nostro avviso, esagera un po’ il peso effettivo di un singolo giorno, l’8 settembre del 1943, sulla vicenda complessiva della storia nazionale italiana, e traccia una linea troppo netta fra il prima, caratterizzato, secondo lui, da una soddisfacente unità di spirito degli italiani, e il dopo, segnato da una spaccatura irreparabile, resta la validità di quella data come spartiacque simbolico. Da allora gli italiani non hanno più ritrovato la loro unità spirituale, e ciò perché il partito egemone a livello culturale, dal 1945 in poi, è stato, come osserva giustamente Mazzantini, proprio quello che si presentava come uguale e contrario al fascismo sconfitto: il Partito comunista. Grazie ad esso, per oltre cinquant’anni gli italiani si sono sentiti dire che la destra era politicamente inaccettabile e moralmente ignobile; che, essendo erede del fascismo, non aveva il diritto di esistere, né di parlare, perché portava idealmente la responsabilità dei suoi crimini: e ciò a dispetto del fatto che i crimini del comunismo, sia a livello mondiale che nazionale (si pensi solo alle mattanze dell’aprile 1945) abbia fatto molte più vittime del fascismo e mostrato un maggiore disprezzo per la vita umana e per le sofferenze dei vinti. Un partito, oltretutto, "inutile", perché nel suo massimalismo stalinista, del quale si è liberato, e solo parzialmente, dopo molti e molti anni, non ha offerto uno sbocco politico atto a contribuire al governo del Paese e quindi alla soluzione dei suoi molti problemi, interni e internazionali. L’esistenza di un partito anomalo come il PCI ha bloccato la democrazia per mezzo secolo, "costringendo" la DC a restare permanentemente al governo, coi suoi alleati minori, con l’inevitabile conseguenza che deriva dalla mancanza di alternanza; il cancro della corruzione, che lentamente l’avrebbe uccisa. Così, il PCI ha ereditato il difetto fondamentale del vecchio PSI di fine ‘800 e dei primi due decenni del ‘900: ha raccolto milioni di voti ma non ha dato a quei voti alcuna sponda concreta per governare il Paese, lasciando ad altri l’onere di prendere le decisioni politiche, e riservandosi il comodo mestiere dell’opposizione sterile e sistematica. Privo di una cultura di governo, per struttura e per vocazione, se non nei termini brutali e polizieschi del PCUS, anche quando si è lentamente evoluto in senso democratico liberale, il PCI, e con lui i suoi eredi, fino al PD attuale, ha conservato il vezzo di credersi moralmente superiore a tutti gli altri partiti e di guardar dall’alto in basso chiunque non militi nelle sue file e soprattutto chiunque non condivida la sua impostazione ideologica: la quale ha conosciuto una trasformazione impressionante dopo la caduta del Muro di Berlino. Finita la Guerra Fredda, infatti, che altro restava da fare al vecchio PC se non tentare di riciclarsi in senso libeale e riformista e proclamarsi "kennediano"? E scomparsa l’URSS, dalla quale aveva ricevuto suggerimenti e denari, cha chi altro poteva appoggiarsi se non agli USA, il nemico storico divenuto improvvisamente amico e modello? Ed ecco gli ex comunisti convertiti al liberalismo, al radicalismo e all’ecologismo, insomma a quell’individualismo borghese che avevano sempre criticato e detestato, e considerato come la peggiore aberrazione antropologica, farsi paladini della nuova ideologia dei diritti civili: ideologia da ricchi, in ultima istanza, visto che consente a chi ha denaro di esercitarli in misura ben maggiore di chi non ne ha. Non è un caso che dei leader della sinistra vadano all’estero ad acquistare bambini per poterseli portare casa e adottare nell’ambito delle coppie omosessuali, aggirando le leggi italiane che vietano l’utero in affitto; mentre le famiglie povere e disagiate della Val ‘Elsa si vedevano sottrarre i figli, che erano affidati a famiglie simpatizzanti per la sinistra e per l’ideologia omosessualista. Questa è la prova della mutazione genetica subita dalla sinistra italiana ed è anche l’esito naturale, a ben guardare, del fatto che la sinistra italiana, almeno dal 1914 in poi – come aveva visto il giovane Mussolini, allorché scelse l’intervento e si fece cacciare sia dall’Avanti!, sia dal vecchio PSI, non svolge più una funzione utile nella società italiana, In compenso, l’ha profondamente sovietizzata: ha posto uomini suoi in tutti i gangli delle pubbliche amministrazioni e, grazie alla politica della CGIL, prolungamento sindacale del PCI, ha reso inamovibili quei lavoratori pubblici, indipendentemente dalla loro efficienza, onestà e competenza. Inamovibili e anche ben pagati: nessuno trovava strano che l’amministrazione pubblica pagasse 170 euro all’ora le consulenze psicologiche della signora Nadia Bolognini, ora nella lista degli indagati nell’inchiesta su Bibbiano?

Il risultato è che l’Italia è, fra tutti i Paesi europei, il più simile alla vecchia Unione Sovietica, perché solo in essa chi fa impresa e realizza degli utili viene guardato con malcelata diffidenza se non con rancore, perché non si pensa ai posti di lavoro che crea, ma a ciò che guadagna "sulle spalle dei lavoratori", e quindi bisogna punirlo, caricandolo di tasse oltre ogni limite immaginabile. E questo è solo un esempio dello statalismo inefficiente, parassitario e ipergarantista che affligge la macchina della pubblica amministrazione e la rende così costosa, e quindi così bisognosa di spremere sempre nuovi introiti fiscali. Questa situazione irragionevole e schizofrenica, di uno Stato che consuma se stesso e di una società civile divisa e contrapposta fino all’odio reciproco, parte dai conti non fatti con la storia dopo l’8 settembre del 1943. Come la classe dirigente di allora volle uscire dal conflitto e dall’alleanza coi tedeschi, ma senza pagare il prezzo dei propri errori, così oggi la classe dirigente, culturalmente egemonizzata dalla neo-sinistra ex comunista, vuol salire sul carro della globalizzazione, ma senza fare i conti con le proprie contraddizioni. Meglio, molto meglio far pagare i costi a quel popolo lavoratore che un tempo era, almeno a parole, la ragione sociale del PC. Sarà per questo che il PD preme in tutte le maniere per estendere il più velocemente possibile la cittadinanza agli immigrati, sapendo di aver perso irrimediabilmente i voti delle classe lavoratrice, da quando è diventato il partito di una classe dirigente quanto mai spregiudicata, oltre che lo strumento degli interessi della BCE nel nostro Paese?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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