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Jaspers come Heidegger, cattivo maestro di Rahner

Il debito di Karl Rahner, cattivo teologo e pessimo sacerdote, regista occulto della "svolta antropologica" al Concilio Vaticano II, nei confronti di Martin Heidegger, è esplicito e ben conosciuto; quel che è meno conosciuto è il debito di Rahner, e un po’ di tutti i cattivi teologi della svolta conciliare, Hans Küng, Edward Schillebeeckx, Yves Congar, Henri de Lubac, verso un altro filosofo tedesco contemporaneo, anch’egli di tendenza esistenzialista, anche se molto diverso, per certi aspetti, da Heidegger: Karl Jaspers. Probabilmente l’influenza di Jaspers sulla teologia, specialmente tedesca e francese, che è sfociata nella rivoluzione conciliare, è stata sottovalutata, tanto più che mentre Heidegger era il filosofo "cattivo" perché, pur essendo di estrazione cattolica, aveva aderito al nazismo, sia pure per un breve periodo, Jaspsers, sia per le sue posizioni etiche, sia perché aveva sposato una moglie ebrea e a causa di ciò, non avendo voluto separarsene, perse la cattedra, è sempre stato considerato l’esistenzialista "buono", in quanto si era opposto al pensiero filo-nazista e si era così collocato dalla parte giusta della barricata. Anche Jaspers era di formazione cattolica e non ripudiò mai la sua origine; inoltre, poiché la sua filosofia riserva molto spazio alla problematica religiosa, tanto che la si può considerare come un’introduzione o una preparazione all’incontro con Dio nell’esperienza della fede, è certo che ha esercitato un’influenza diretta sui pensatori e sui teologi cattolici della seconda metà del Novecento, e che uomini come Karl Rahner hanno ricevuto il suo influsso in ciò che il suo pensiero ha di più caratteristico: l’idea del naufragio come occasione per la rivelazione dell’essere nell’esserci, ossia come rivelazione dell’assoluto nella dimensione dell’esistenza concreta degli enti. E non solo l’idea del naufragio come approdo salvifico, ma non scontato, della coscienza di fronte alla prospettiva del nulla e della morte, ma anche l’idea del dramma della libertà come scoperta della fragilità dell’esistenza, perché dove c’è libertà ci sono anche la validità e la durata, e né l’una né l’altra possono pensare l’essere senza contraddizione. Di qui un salto dalla dimensione della logica alla dimensione dell’intuizione immediata dell’essere, che oltrepassi la logica e giunge a una rivelazione intima, personale, che illumina la coscienza come un fascio di luce improvvisa.

Dal punto di vista della teologia cristiana classica, sia patristica, sia scolastica, e specialmente tomista, tutto ciò è un discostarsi dal sentiero della limpida dimostrazione razionale, mutuata dalla filosofia greca classica, e specialmente da Aristotele, per avventurarsi sul terreno sdrucciolevole dell’esistenza concreta e della coscienza soggettiva e su quello, ancor più ambiguo e malagevole, dell’intuizione, che rimanda a Bergson e confina pericolosamente e con l’irrazionalismo di matrice decadentista e simbolista: più un fatto poetico, o, se si preferisce, sentimentale, che rigorosamente filosofico. E qui i punti in comune col modernismo religioso, con la fede quale intuizione soggettiva ed emozionale della coscienza, sono anche più palesi: l’incontro col divino si configura sempre meno come un incontro anche di tipo intellettuale, e perciò contrassegnato da una verità oggettiva, e sempre di più come un fatto sentimentale, e perciò caratterizzato da una "verità" soggettiva e interiore, difficile o impossibile da verificare razionalmente. Ma cos’è la Rivelazione cristiana, se non una sintesi mirabile di razionalità e fede, nella quale la prima sostiene la seconda, la chiarisce e, a sua volta, se ne lascia guidare e illuminare? Ora, è proprio questo aspetto che entra in crisi con la "svolta antropologica" di Karl Rahner, la cui teologia è tutta incentrata sulla dimensione dell’umano, del concreto, del contingente, dello storico, e perde il contatto con l’assoluto, perché nega che l’assoluto sia accessibile all’uomo e pretende che lo divenga solo a patto di essere mediato, che divenga esserci, che sia calato in situazione. Ma questo è modernismo. È tipicamente modernista l’idea che il divino, per essere accessibile agli uomini, debba concretizzarsi nella storia, fino al punto che solo l’umano può rivelarne la presenza; e così facendo è l’assoluto che si storicizza, non la storia che si apre al mistero dell’assoluto.

Per esplicitare questi concetti riportiamo alcuni estratti della parte finale della terza sezione dell’opera capitale di Karl Jaspers, Filosofia, intitolata Metafisica (titolo originale: Philosophie: Metaphysyk, Berlin, Springer Verlag, 1932, 1948, 1956; traduzione dal tedesco di Umberto Galimberti, Milano, Ugo Mursia Editore, 1972, 1977, 1978, e Novara, Istituto Geografico De Agostini (in volume unico), 2009, pp. 1173-1176):

La constatazione che dovunque volgiamo lo sguardo e dovunque ci attacchiamo, alla fine ci troviamo in presenza del naufragio, fa sorgere la domanda se ciò deve accadere necessariamente. Le risposte, che non possono valere come conoscenze sicure, tentano di chiarire l’essere nella cifra.

1. Se c’è la libertà, la validità e la durata non possono che essere fragili. Se la verità dell’essere consiste nella VALIDITÀ DI CIÒ CHE SI PUÒ PENSARE SENZA CONTRADDIZIONE, allora la stabilità immobile di un essere uniformemente uguale a se stesso sarebbe come l’essere della morte a cui non posso credere. Pertanto, per penetrare la verità inconoscibile ma autentica dell’essere è necessario che la struttura logica naufraghi in antinomie. (…) Per esserci, l’essere è costretto ad assumere nella forma temporale la forma di un movimento verso il naufragio. (…)

2. Poiché la libertà c’è solo attraverso la natura e contro la natura, essa è costretta a naufragare o come libertà o come esserci. C’è libertà solo se c’è natura. La libertà non esisterebbe senza un ostacolo da superare e senza un fondamento in se stessa. Ciò che nelle malattie mentali acquista una forza tale da distruggere l’uomo come se fosse un nemico appartiene all’esserci dell’uomo, alla stessa natura oscura che lo produce e contro cui egli deve combattere. L’uomo può trovarsi in una situazione tale da non riconoscersi in ciò che ha fatto. È come se qualcosa gli avesse tolto il senno, eppure quello che ha fatto lo ha fatto e, quindi, ne deve rispondere. È vero che il suo genio esige che sia disposto e aperto a tutto, e che quindi abbia a prendere liberamente la propria decisione. Ma la sua natura, che ascolta la voce del genio, non lo assiste con la sua presenza in un modo sicuro e costante. (…) La trascendenza, quindi, non è solo nella libertà, ma, attraverso la libertà, anche nella natura. La trascendenza, nella sua alterità rispetto all’esistenza, è la cifra di quel fondamento trascendente da cui anch’io, ma non solo io, sono. La realtà del mondo, che è più comprensiva dell’esserci delle esistenze possibili, se da un lato appare solo come il materiale della mia libertà, dall’altro sembra annunciare un essere proprio della natura a cui io pure sono soggetto. L’impossibilità di fondare la totalità in un’unità conoscibile, non consente di assolutizzare la natura, né di intendere l’esistenza come la totalità. Si impoverirebbe la filosofia dell’esistenza se la si limitasse alla sfera del se-stesso. (…)

3. Per contenere qualcosa d’autentico, il finito non può che essere frammentario. Poiché nella sua incondizionatezza, l’esistenza vuole superare i limiti della finitezza propria dell’esserci, in questo suo slancio l’esistenza finisce con l’andare in rovina. Perciò il naufragio è la conseguenza dell’essere autentico nell’esserci. L’esserci implica la coesistenza di più cose di cui ciascuna deve lasciare all’altra possibilità e spazio. La struttura del mondo, basata su misure, limitazioni, concessioni e compromessi è in grado di procurare una relativa stabilità. Ma, per essere veramente, io devo turbare questa stabilità perché l’incondizionatezza non conosce misura. La colpa della incondizionatezza, che è ad un tempo la condizione dell’esistenza, viene espiata con l’annientamento dell’esserci che vuole mantenersi e persistere. Per questo ci sono nel mondo due forme di etica. Una, che pretende di avere una validità universale, si esprime nell’etica della misura, della prudenza, della relatività, e non ha alcun senso del naufragio; l’altra, nella problematicità del suo non-sapere, si esprime nell’etica della libertà incondizionata, che considera tutto possibile, ed è completamente catturata dalla cifra del naufragio. (…) L’esistenza deve concepire se stessa come esserci finito che ha fuori di sé le altre esistenze e la natura. Ma come esistenza possibile vuole necessariamente realizzarsi in tutto e raggiungere, nella propria attuazione, il compimento della sua opera e di se stessa. La sua incondizionatezza consiste nel cercare l’impossibile. Quanto più risolutamente essa segue la sua linea e scarta ogni accomodamento, tanto più tende a superare i limiti della finitezza. La sua più alta misura non ha più misura. Per questo deve naufragare. Il carattere frammentario del suo esserci e della sua opera diventa la cifra della trascendenza per un’altra esistenza che la sta a guardare.

Anche se alcuni concetti, come quello di "genio dell’uomo", usato probabilmente come sinonimo di "coscienza autentica", o quello dell’"andare in rovina" dell’esistenza, o, ancora, quello di "naufragio", che pure è centrale nella sua concezione, sospeso fra la possibilità della dispersione e quella della rivelazione della trascendenza, appaiono poco convincenti sul piano razionale, perché troppo vaghi e indefiniti o troppo poetici e letterari, più che strettamente filosofici, l’impianto complessivo del discorso di Jaspers è chiaro. Si potrebbe anche dire, non senza una punta di malizia, che queste idee sono già stata esposte e sviluppate, fino agli esiti più paradossali, da Luigi Pirandello, specialmente nel suo teatro. Tuttavia l’intuizione che la coscienza, per rivelarsi a se stessa, deve fare l’esperienza del naufragio, o, se si preferisce, dello scacco (o dell’angoscia e della disperazione, come in Kierkegaard), è senz’altro valida ed esprime una profonda verità; così come è valida l’idea che l’esserci, come modalità autentica dell’essere, non può che scegliere l’incondizionato, perché se scegliesse il condizionato, si annullerebbe come esserci e diverrebbe altro da sé, alienandosi; ma l’incondizionato, per l’esserci della coscienza, equivale all’impossibile. Ed ecco lo scarto fa realtà e ideale, fra Sancio Panza e Don Chisciotte, o, per restare a Pirandello, fra persona e personaggio. La persona ha l’esistenza, ma non l’essenza, perché incapace di scegliere l’indeterminato e, con ciò, di aprirsi all’assoluto, e quindi si disgrega in uno, nessuno e centomila, mentre l’esserci che opta per l’incondizionato naufraga nel vasto oceano dell’impossibile ma, appunto naufragando, ha la possibilità di ritrovarsi e di riconquistarsi. Viceversa, il personaggio ha l’essenza, ma non l’esistenza, e quindi di lui si potrebbe dire, usando le parole di Jaspers, che la stabilità immobile di un essere uniformemente uguale a se stesso sarebbe come l’essere della morte. Sbaglia, però, a nostro credere, quando attribuisce questo concetto all’essere in quanto essere, oppure quando sottintende che l’essere non può esistere se non come esserci, perché perde di vista proprio il suo campo di riflessione: la metafisica. L’ente che si irrigidisce in una esistenza non autentica si dota di una stabilità che è simile alla morte, questo è vero; ma ciò non si applica all’essere in quanto essere, per il quale la stabilità non è sinonimo di rigidità e di morte, ma di suprema perfezione e pienezza ineffabile di esistenza. Se così non fosse, come mai nel naufragio della coscienza dell’ente si rivelerebbe la luce della trascendenza? Se quella luce si rivela, è perché la trascendenza è fatta di armoniosa stabilità e di assoluta permanenza, che sono gli attributi dell’Essere. Jaspers, insomma, sembra estendere all’essere le riflessioni che svolge a proposito dell’esserci; ma, così facendo, finisce per divinizzare l’uomo, o per umanizzare troppo Dio. Ebbene, questa è appunto la cattiva teologia uscita dalla stagione del Vaticano II: con un uomo che pretende di assolutizzarsi e un Dio che sempre più si confonde con l’umano; ed ecco spiegato tutto il gran parlare che i neo-teologi fanno di Gesù come uomo, e il loro virare di bordo quando si tratta di asserire la sua divinità. Inoltre, quando afferma che esistono due forme di etica, una che si definisce nella misura e nella universalità e l’altra che si esprime nella libertà incondizionata, Jaspers fa un pessimo servizio sia al pensiero filosofico e teologico, sia all’uomo concreto, che pure gli sta tanto a cuore. Anche l’affermazione della doppia etica appare come l’esito di una premessa sbagliata: che l’essere si risolva nell’esserci e che l’essere possibile si identifichi con la libertà assoluta. Egli dice che l’esistenza, come esistenza possibile vuole necessariamente realizzarsi in tutto, e quindi vuole l’impossibile: perché l’esistenza degli enti è sempre condizionata, e se è tale, allora evidentemente non può realizzarsi in tutto. Egli sostiene che, a questo punto, la coscienza fa l’esperienza del naufragio; molto più persuasivo è Kierkegaard, il quale dice che essa fa l’esperienza dell’angoscia. L’angoscia, per Kierkegaard, nasce dalla vertigine di fronte alla possibilità, la più pesante di tutte le categorie: perché se tutto può essere, allora può essere anche ciò che più terribile. Non si percepisce, in Jaspers, tutta la spaventosità del possibile, anche se egli ammette che superare i limiti della finitezza e il rifiutarsi di avere una misura sono atti estremamente problematici. Non si coglie, tuttavia, il timore e il tremore di fronte al mistero dell’Assoluto.

Jaspers sostiene che la cifra dell’essere si trova nel naufragio ("cifra" è un’altra delle sue espressioni criptiche; più o meno sta a significare "essenza", "natura profonda", ma anche "chiave per la comprensione del reale"), ma ammette senz’altro che è impossibile vivere con lo sguardo rivolto al naufragio. La coscienza cerca la pace; ma esistono due forme di pace, l’una illusoria, l’altra reale. È illusoria la pace che viene dalle false certezze, dal bisogno di placare l’angoscia del naufragio e dalla vertigine della trascendenza, mente proprio il naufragio e la rivelazione della trascendenza determinano il venir meno di ogni cifra. Nella dissoluzione della cifra appare l’assurdo dell’esistenza, e la tendenza istintiva della coscienza è quella di aggrapparsi a qualsiasi cosa, dunque anche al naufragio, pur di tenersi attaccata all’essere. Questo atteggiamento genera la pace illusoria, che non sa trarre la giusta lezione dal naufragio e ne vanifica le potenzialità di accettazione dell’assurdo; essa, per esempio, dà luogo alla religione come superstizione. Ma la vera pace è di tutt’alta natura, e consiste essenzialmente nell’accettazione dell’ambiguità del linguaggio del naufragio per aprirsi alla certezza dell’essere. La pace vera diventa possibile allorché la coscienza accetta la finitezza dell’esserci, il dileguare dell’istante: solo allora il mondo diventa trasparente, si accende di una bellezza indicibile e lascia vedere l’intima connessione di tutte le cose, del passato e del presente. Ciò, del resto, è pressoché inesprimibile con il ragionamento logico e discorsivo, perché si tratta di un’esperienza ineffabile. Viene in mente il celebre aforisma di Wittgenstein: bisogna tacere ciò che non si può dire.

Non nel godimento della perfezione compiuta, ma lungo la via della sofferenza, con lo sguardo fisso sul volto inesorabile dell’esserci del mondo, e nell’incondizionatezza del proprio se-stesso nella comunicazione, l’esistenza possibile può raggiungere ciò che non rientra in alcun piano e che desiderato, diventa assurdo: sperimentare l’essere nel naufragio.

Con queste parole si chiude l’opera gigantesca Filosofia, e il lettore, perplesso, si chiede se erano necessarie quasi 1.200 pagine per giungere a una conclusione tanto mortificante. La "pace" di cui parla Jaspers somiglia stranamente a quella trovata da Vitangelo Moscarda alla fine del romanzo di Pirandello Uno, nessuno e centomila: una sorta di ebbrezza cosmica che consiste nell’abbandono di ogni pensiero cosciente, di ogni volontà, di ogni desiderio, per lasciarsi andare al grande flusso della vita. Ricorda anche l’atteggiamento di Nietzsche, l’accettazione piena e integrale della vita, così com’essa è, senza nulla volere che non sia la vita stessa, infinitamente, sino all’eterno ritorno dell’uguale. Ci sembra però che sia Pirandello che Nietzsche, nei rispettivi ambiti, abbiano espresso il concetto dell’abbandono/accettazione della vita con maggior forza e chiarezza di quanto non faccia Jaspers. Il quale, in quanto pensatore cristiano, dà l’impressione di essersi scordato l’essenza del pensiero cristiano: non la trascendenza come "scoperta" dell’esserci che si abbandona interamente a se stesso, ma come rivelazione personale che viene da Dio e illumina di certezza, anche razionale e non solo intuitiva, sentimentale o mistica, la vita dell’essere umano. Non diciamo che si scorda di Cristo, perché Jaspers è un filosofo e non un teologo; ma che si scorda dell’essenza del religioso, perché nella sua concezione si direbbe che l’uomo faccia tutto da solo. Da solo fa naufragio; da solo lotta contro l’angoscia; da solo cerca la pace; da solo la trova (forse) nella resa totale e incondizionata all’essere dell’esserci. Dunque si resta sempre all’interno di una prospettiva immanentistica e antropocentrica, anche se egli parla di trascendenza. La trascendenza vera è lo scardinamento dell’immanenza e di tutti i suoi movimenti; ma nella presa d’atto dell’essere integrale, nel pieno abbandono all’incondizionato prospettato da Jaspers, la trascendenza rischia di diventare una parola vuota, perché nessuna trascendenza può rivelarsi all’uomo, nella prospettiva cristiana, se non perché l’Assoluto si china sul relativo. L’iniziativa dell’incontro parte da Dio, non dall’uomo; l’uomo, da solo, non può fare nulla, se non divorare se stesso nella propria angoscia, nello scacco matto dell’esistenza, nella tensione irrisolta fra l’ansia di eternità e la constatazione del limite posto dal tempo e dalla morte. La vera libertà dell’uomo consiste nel dir sì alla rivelazione di Dio e non nell’elaborare da sé la risposta al naufragio esistenziale. Questo, semmai, lo fanno le filosofie orientali, come lo Zen o lo Yoga: alle quali il pensiero di Jaspers si direbbe più vicino…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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