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Per amare la Chiesa bisogna amare la modernità?

Fino al Po XII, per millenovecento anni, la Chiesa cattolica ha avuto, in tutto e per tutto, una sua Weltanschauung, come dicono i tedeschi, una sua visione del mondo, oltre, naturalmente, al suo specifico messaggio di fede: precisiamo specifico, perché di questi tempi, specie dopo il documento di Abu Dhabi e dopo la preparazione del Sinodo per l’Amazzonia, pare che la fede n Gesù possa felicemente coesistere, o anche essere sostituita, da una qualsiasi altra fede, in Yhavé, in Allah, in Buddha e anche nello sciamanesimo e nel paganesimo tribale. La Chiesa aveva una sua morale, una sua dottrina sociale, una sua concezione della politica, una sua idea su tutte le principali questioni etiche, giuridiche, esistenziali, dal divorzio all’aborto, dall’eutanasia alla pena di morte, dalla guerra alla convivenza fra i popoli. Poi, a partire dal Concilio Vaticano II, tutto è stato cambiato, ma senza aver la franchezza di dirlo: del resto sarebbe stato impossibile dirlo, perché ciò che si è fatto era spesso al di là del cattolicesimo, quindi era una vera e propria eresia e una vera e propria apostasia. Bisognava conservare il marchio di fabbrica, ma cambiare la ragione sociale dell’impresa: bisognava fare in modo che un miliardo di fedeli credessero di essere ancora cattolici, come lo erano stati i loro genitori e i loro nonni, mentre in effetti non lo erano più. E così è stato. Con la truffa dell’ecumenismo si è tirato un rigo sopra l’eresia protestante, anzi il signor Bergoglio è giunto al punti di dire esplicitamente che Lutero aveva ragione; con la truffa del dialogo interreligioso e, più tardi, dell’incontro interreligioso di Assisi, del 1986 (rinnovato nel suo trentennale, nel 21016), si è aperta la porta al relativismo e all’indifferentismo religioso; con l’affermazione della libertà religiosa si son cestinati quasi due millenni di Magistero, secondo il quale accettare la Verità di Cristo non è una possibilità come qualsiasi altra, ma la sola scelta che l’uomo può fare in vista della salvezza; e stravolgendo, pochi anni dopo, la liturgia, si sono trasformate le chiese da case di Dio in case del popolo, e si è trasformata la Messa in una specie di assemblea del popolo, in cui il sacerdote non è più un alter Christus, che officia a nome e per conto del Padre, ma un presidente dell’assemblea, e il vero protagonista della funzione non è più il Sacrifico di Cristo, ma l’uomo che in piedi, e poi con le sue mani, prende il Pane eucaristico e se lo porta in bocca, come a dire: Io sono il protagonista di tutto questo, io sto alla pari con Dio. La Nostra aetate e la Dignitais Humanae, pubblicate a conclusione del Concilio, hanno sanzionato questo capovolgimento della dottrina, e qualche anno dopo il Novus Ordo Missae ha capovolto anche la liturgia. Non è vero, come dicono i suoi estimatori, che il Concilio Vaticano II è stato un concilio puramente pastorale; dietro la facciata del sedicente rinnovamento pastorale si è operata una vera e propria rivoluzione dottrinale e disciplinare, o meglio, si sono poste le premesse affinché una tale rivoluzione divenisse non solo possibile, ma inevitabile. Era solo questione di tempo: e il tempo, infatti, ha lavorato a favore dei rivoluzionari.

Nel corso dei cinque decenni successi, invocando continuamente un non meglio identificato "spirito del Concilio" (con la lettera minuscola), papi, vescovi e sacerdoti hanno fatto a gara nello spingersi sempre più in là: una modifica alla volta, una concessione alla volta, una innovazione alla volta, nel giro di mezzo secolo sono riusciti nell’intento di portare la Chiesa fuori dall’autentico Magistero, ossia fuori dal cattolicesimo e quindi lontano da Gesù Cristo. La prova? Era necessario fare un test, per verificare sino a che punto il processo fosse stato felicemente condotto a termine, e se i cattolici si fossero resi conto di non essere più tali. Allora è stato eletto, illegalmente, il signor Bergoglio, il quale, fra le prime cose, ha pubblicato un documento apertamente eretico, Amoris laetitia. La reazione c’è stata, ma debolissima: solo quattro cardinali, peraltro persone stimate ed eminenti, hanno chiesto dei chiarimenti, ravvisando elementi di eresia in quel documento, e specialmente nella parte che riguarda la Comunione ai divorziati risposati. Ma nessuna riposta hanno mai ricevuto, e intanto due di essi sono già morti. Il misericordioso Bergoglio ha fatto finta di nulla, ha lasciato che ciascuna diocesi interpretasse quel documento come preferiva, salvo poi dire che l’interpretazione giusta era quella dei vescovi della diocesi di Buenos Aires. Ambiguità mai vista prima, perché i documenti del vero Magistero cattolico sono sempre stati di una chiarezza cristallina. Ma anche qui, è stato il Concilio Vaticano II a introdurre lo stile dell’ambiguità. Si legga un qualsiasi documento del Concilio, e si vedrà che esso può venire interpretato in diverse maniere: ciò non si era mai verificato prima. Bisogna quindi concludere che una calcolata ambiguità è stata adottata come strategia fondamentale da quanti volevano operare lo slittamento della Chiesa cattolica fuori da se stessa, cioè fuori dalla Verità perenne di Cristo. A parte i quattro cardinali, comunque, nessun altro ha fatto sentire la sua voce. Solo una settantina di sacerdoti e di teologi, persistendo il silenzio del papa, o meglio di colui che viene chiamato papa, hanno redatto una filiale correzione di quel documento eretico, e raccolto un certo numero di firme; ma,di nuovo, la cosa si è esaurita in se stessa. Il signor Bergoglio non si è scomodato a rispondere, ha lasciato in compenso che i suoi fedelissimi si scagliassero con parole di fuoco contro i "nemici del papa", che lo attaccano, senza minimamente badare alla sostanza della questione: che non è la lealtà verso il papa, ma lealtà verso Cristo. Il papa dell’apertura e del dialogo, il papa che non voleva neanche essere chiamato papa, ma solo vescovo di Roma, ha mostrato la sua vera natura di tiranno, che si comporta come se la Chiesa fosse una sua proprietà; che caccia, commissaria, punisce quelli che non si allineano con la sua rivoluzione; che si circonda di fedelissimi yes-men, i quali ne sparano una più grossa ogni giorno: i Sosa, gli Spadaro, i Galantino, i Bassetti, i Parolin, tutta una pletora di vescovi e cardinali senza fede, senza onore, senza dirittura, sdraiati nella venerazione idolatrica del falso papa e dimentichi del dovere di obbedienza a Dio solo, nonché della promessa di guidare il gregge verso la sola Verità; un falso papa talmente protervo e talmente accecato dal delirio del cambiamento radicale, da aver nominato apposta dieci nuovi cardinali di sua assoluta fiducia, in modo da aver la certezza che, dopo di lui, verrà eletto un altro simile a lui, e che lo strappo con l’ortodossia cattolica sarà irreversibile.

Ora si vuol far digerire ai cattolici non solo la liceità della sodomia, ma anche il dovere di lasciarsi invadere da milioni di africani di fede islamica; li si vuol convincere che tutte le religioni e tutte le credenze, compreso l’ateismo, sono belle e buone, e che tutte le strade portano alla meta (quale?); che non c’è peccato che non venga perdonato, senza neanche dover fare la fatica di pentirsi, confessarsi e promettere di non ricadere in esso; che uno stregone vale quanto un sacerdote cattolico che la sua benedizione ha lo stesso valore e significato di quella impartita nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; che scioperare e manifestare per il clima, per l’ambiente, per lo smaltimento dei rifiuti, è cosa tanto necessaria quanto la preghiera e la celebrazione del Sacrificio eucaristico, anzi è cosa più importante, perché il mondo deve essere cambiato e i cristiani lo devono fare, qui, ora, in senso puramente materiale e senza per niente convertirsi al Solo che è Via, Verità e Vita, ma riservando a se stessi la scelta di cosa credere, quanto credere, come credere, o anche di non credere affatto. E non dovremmo dire che tutto questo è eresia e apostasia, e che i papi del post-concilio, un poco alla volta, hanno portato un miliardo di fedeli fuori dal cattolicesimo, nella palude del relativismo e dell’indifferentismo, con l’astuzia e con l’inganno, senza che questi se ne rendessero conto? È necessario che i cattolici che hanno compreso questo enorme inganno, o che, almeno, incominciano a sospettarlo; i cattolici che sono rimasti tali, mentre il vertice della Chiesa, e anche gran pare delle diocesi e delle parrocchie, sono diventati modernisti, ossia eretici, riflettano su come sia stato possibile tutto questo; su come sia stato possibile che nessuno, o quasi, si sia accorto di nulla. I primi a rendersi conto del colossale tradimento avrebbero dovuto essere i pastori; i laici sono più scusabili, almeno all’inizio, anche se stiamo parlando di un arco di tempo di oltre mezzo secolo e non di poche settimane o pochi mesi. Ma l’azione dei vescovi modernisti è stata così abile, così astuta, così diabolicamente perfetta nella sua perfidia, che non era facile, per molti, capire quel che stava succedendo. Se il papa per primo — Giovanni XXIII e poi Paolo VI — approvava e glorificava il Concilio; se i vescovi e i sacerdoti lo approvavano; se tutti i media cattolici facevano a gara nel decantarne le lodi, con pochissime voci fuori dal coro, proprio come oggi fanno a gara nel magnificare l’autenticità, l’umiltà (!), l’apertura al dialogo di Francesco, davvero non era facile capire cosa realmente stava accadendo sulla testa dei fedeli. A favore del disegno dei rivoluzionari giocavamo da un lato l’ignoranza dottrinale dei laici — bisogna pur dirlo!; altrimenti avrebbero capito — e dall’altra il fatto che il veleno modernista, evidentemente, era penetrato già da anni dentro i seminari. Diversamente non si spiega il fatto che la reazione dei sacerdoti non ci sia stata, e quella dei vescovi ancor meno. Sbaglia, perciò, chi attribuisce il disordine dottrinale che imperversa nella Chiesa ai nostri dì, al fatto che i seminari sono caduti in potere del modernismo a partire dal Concilio: la penetrazione delle dottrine moderniste era avvenuta già prima, e il Concilio arrivò al momento giusto per coagulare i frutti velenosi dell’eresia, su di un terreno che era già stato predisposto.

Come è noto, una delle pochissime voci di dissenso rispetto alla rivoluzione conciliare, e la più autorevole, è stata quella dell’arcivescovo Marcel Lefebvre, il quale, solo, pose il non placet sia alla Dignitatis Humanae, sia alla Gaudium et Spes, e criticò la riforma liturgica con lo scritto Breve esame critico del Novus Ordo Missase (pubblicato nel settembre 1969 con la prefazione del cardinale Ottaviani e del cardinale Bacci). Poco dopo egli fondava la Fraternità Sacerdotale San Pio X e, coerentemente, dopo vani tentativi per giungere a un accordo con la Santa Sede, senza però capitolare alla rivoluzione conciliare, affrontò i rigori della scomunica, che gli venne formalizzata il 30 giugno 1988 da Giovanni Paolo II (sarebbe morto di cancro tre anni dopo, il 25 marzo 1991). La scomunica, tuttavia, è bene ricordarlo o farlo sapere a quanti lo avessero scordato o non lo avessero mai saputo, gli fu comminata per ragioni disciplinari, cioè per il suo rifiuto di astenersi dalla nomina di nuovi vescovi, e non per ragioni dogmatiche e dottrinali. Nessuno, né allora, né poi, ha potuto trovare una sola proposizione erronea o eretica nei suoi scritti e nei suoi sermoni. La cosa è alquanto significativa e dovrebbe far riflettere quanti sono in buona fede. Se un vescovo viene scomunicato per aver rotto la comunione con Roma, ma non ha mai detto o fatto nulla che sia in contrasto con l’insegnamento perenne di Roma, quale conclusione se ne deve trarre? Non è forse evidente che Roma, e non lui, si è discostata dal Magistero, e quindi dalla Verità di Cristo? Impossibile sostenere, infatti, che il magistero possa cambiare: sarebbe come dire che anche la Verità di Gesù Cristo è soggetta a cambiamento, a seconda dei tempi e dei luoghi in cui viene annunciata. E infatti, astutamente, i rivoluzionari hanno sempre negato di aver cambiato la dottrina; hanno solo sostenuto di averla resa più comprensibile e accessibile agli uomini del nostro tempo. Perfida astuzia e misero stratagemma, perché non c’è chi non veda che si tratta di un gioco di parole per evitare di ammettere la sostanza del fatto: che la dottrina è stata cambiata, e il Magistero è stato stravolto. Ma monsignor Lefebvre, con la sua coerenza, con la sua trasparenza (tradidi et quod accepi, "vi ho trasmesso solo quel che ho ricevuto") era la testimonianza vivente di questo inganno e di questa perfidia: bisognava scomunicarlo per far credere ai cattolici che la sua colpa fosse stata di essersi allontanato, lui, da Cristo, mentre ad allontanarsi era stata la Chiesa conciliare. Perciò non bastava la scomunica; ci voleva anche la damnatio memoriae.

Un esempio fra mille: la poderosa biografia di Wojtyla scritta da dal teologo George Weigel, trionfalistica e poco obiettiva già nel titolo, Testimone della speranza (titolo originale: Witness to Hope, 1999; traduzione it. Milano, Mondadori, 1999, p. 7024), nella quale, su quasi 1.300 pagine di testo, alla vicenda dei lefebvriani ne sono dedicate appena tre, e dove si può leggere questo ingiusto e lapidario giudizio sul vescovo francese:

In ultima analisi, comunque, erano state le sue idee [di Marcel Lefevre], e non la sua personalità, a condurlo allo scisma. Egli incarnava la versione estrema del cattolicesimo francese, che propugnava una "Chiesa di potere" allineata con uno Stato cattolico. In quel senso, Lefebvre era una vittima contemporanea della Rivoluzione francese. Al momento della scelta finale, aveva dimostrato di odiare la modernità più di quanto amasse Roma.

Ma la questione, messa in questi termini, è mal posta. Con lo steso gesuitismo col quale oggi gli Spadaro giurano su Francesco e non su Gesù Cristo, qui si dà a credere che l’importante sia amare Roma. Ma se Roma sbaglia? E se la modernità è la quintessenza di tutto ciò che si oppone a Cristo?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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