Il papa può dimettersi come un qualsiasi impiegato?
30 Settembre 2019Quando Sadat attendeva Rommel con impazienza
1 Ottobre 2019C’è una leggenda che bisogna assolutamente sfatare, sulla quale poggia una serie di altre leggende, come quella della Resistenza quale secondo Risorgimento (altro mito da sfatare) e quale riscatto del popolo italiano davanti alla Storia e al Mondo; quella della Repubblica democratica nata dai sacrifici, dall’eroismo, dal sangue (partigiano) della Resistenza stessa; quella, infine, delle radici popolari e autenticamente democratiche della odierna Repubblica di Pulcinella, ossia la repubblica dei Monti, dei Letta, dei Renzi, dei Gentiloni e dei Conte (bis). La leggenda che bisogna assolutamente sfatare è che la guerra civile del 1943-45 sia nata da una bieca volontà di rappresaglia dei fascisti o, nel migliore dei casi, da una inesorabile necessità storica. Che altro avrebbero dovuto fare gli italiani, si dice, di fronte alle persecuzioni antisemite dei nazisti e di fronte alla chiamata alla leva della Repubblica di Salò, se non organizzarsi per resistere? Tralasciando il piccolo particolare che "gli italiani" non parteciparono affatto alla guerra civile, la subirono; che gli antifascisti erano una minoranza, e, fra essi, i comunisti, i soli che la guerra civile la volevano ardentemente, e gli azionisti con loro, erano una minoranza nella minoranza. Le persecuzioni antisemite? Onestamente, è difficile far credere a qualcuno che un popolo scelga la strada della guerra civile per difendere una minoranza razziale perseguitata non dai propri connazionali, ma da una potenza occupante; mentre è verissimo che la maggior parte degli italiani deprecava quella persecuzione e che fece il possibile per offrire solidarietà e rifugio ai perseguitati. La chiamata alle armi della R.S.I.? Ma era cosa perfettamente lecita e perfettamente logica: si era in guerra, nel pieno della più tremenda guerra che il mondo avesse mai visto; il Paese era invaso; che altro avrebbe dovuto fare il governo di Salo: lasciare che a battersi fossero solo i tedeschi? Ciò avrebbe dato loro il diritto di trattare l’Italia con estrema durezza, alla stregua di un Paese occupato, come la Polonia, e non come un Paese alleato, e sia pur travagliato da una gravissima crisi interna, che aveva portato gli elementi dissidenti a rescindere quella alleanza. No: la maggioranza degli italiani era stanca della guerra e non vedeva l’ora che finisse; non parteggiava né per Badoglio, né per Mussolini; e non considerava "liberatori" né gli alleati, né i tedeschi. I crudeli e quotidiani bombardamenti aererei delle città gli mostravano quanto importasse, agli angloamericani, la vita dei civili; le rappresaglie dei tedeschi avrebbero mostrato loro quanto essa importasse a questi ultimi. Quanto agli antifascisti, i quali dopo l’8 settembre 1943 stavano organizzando i primi Comitati di Liberazione Nazionale, la loro strategia iniziale era, come si sarebbe detto poi, spregiativamente, "attendista": non pensavano affatto a scatenare una guerra civile, perché vedevano bene che ciò avrebbe significato la rottura totale e definitiva dell’unità nazionale e avrebbe accumulato un carico di odi e risentimenti che avrebbe avvelenato la vita del Paese per intere generazioni. Gli unici che la pensavano diversamente, come abbiamo detto, erano i comunisti, spalleggiati dagli azionisti: essi vedevano nella guerra civile l’occasione storica non solo per abbattere il fascismo repubblicano e cacciare i tedeschi, ma, soprattutto, per innescare un processo rivoluzionario, eliminare fisicamente gli esponenti del moderatismo e della società borghese, e prepararsi a fare quel che i bolscevichi avevano fatto in Russia nel 1917: prendere il potere. I comunisti italiani erano pochi, ma estremamente determinati; si erano temprati nella guerra civile spagnola, erano stati istruiti a Mosca, erano sopravvissuti alle purghe staliniane e conservavano in Stalin una fiducia cieca, canina; avevano l’addestramento militare, avevano le idee politiche chiare (non importa se deliranti), avevano un odio bruciante per il "nemico" e non vedevano l’ora di passare all’azione. Oggi in Spagna, domani in Italia, lo slogan di Carlo Rosselli, era sempre stato anche il loro, fin dal 1936. E adesso la grande occasione storica era arrivata: non se la sarebbero lasciata sfuggire per nulla al mondo. E se il popolo non era pronto per accettare la loro logica, la logica del massacro, tanto peggio: lo avrebbero trascinati nel mattatoio a viva forza. Come? Spargendo il terrore nel Paese con una serie di attentati brutali, assassinando un certo numero di esponenti fascisti e aspettando la reazione, che prima o poi sarebbe certamente arrivata. Le rappresaglie avrebbero acceso l’odio, e il popolo, finalmente sarebbe stato con loro. È la logica dell’attentato di via Rasella: ormai è assodato che esso venne pensato e attuato dal vertice comunista al preciso scopo di provocare una rappresaglia tedesca, la più feroce possibile, nella speranza che ciò avrebbe innescato una sollevazione popolare e che gli alleasti, entrando a Roma, avrebbero trovato un P.C.I. forte di aver guidato la lotta di liberazione nella capitale. Ebbene: la stessa logica aveva ispirato lo scatenamento della guerra civile, a freddo, con azioni sanguinarie e mirate, pensate e attuate da uomini dei G.A.P. comunisti, allo scopo di mettere gli altri partiti del C.L.N., e, in ultima analisi, l’intero popolo italiano, di fronte al fatto compiuto della guerra civile.
Bisogna ricordare che, nell’autunno del 1943, vi era una forte dialettica, all’interno della classe dirigente della R.S.I., tra "falchi" e "colombe". Queste ultime si rendevano conto che il fascismo, così come lo avevano conosciuto, era finito e non avrebbe potuto più risorgere; si rendevano anche conto che la guerra, con moltissima probabilità, era persa. Si trattava quindi di tenere alto l’onore nazionale, infangato dall’armistizio di Badoglio, ma anche di creare le condizioni per una futura riconciliazione degli italiani. E di riconciliazione, infatti, parlavano i moderati della R.S.I.; non solo ne parlavano, ma mandavano segnali concreti. Furono clementi con i fascisti arrestatati; si adoperarono presso i tedeschi per attenuare la durezza dell’occupazione; mandarono segnali di apertura a tutti i moderati; confermarono delle cattedre universitarie professori dichiaratamente antifascisti (vedi il caso di Concetto Marchesi a Padova); giunsero al punto di abboccarsi segretamente con uomini dei C.L.N. per concordare una specie di modus vivendi da osservare sino al termine della guerra, e anche dopo, sempre nell’ottica di favorire la riconciliazione. I quali uomini dei C.L.N., tranne i comunisti e gli azionisti, non chiedevano di meglio: per un insieme di ragioni, materiali e morali, e d’interessi, sia concreti che ideali, non volevano spargimento di sangue fraterno e pensavano che la cosa più importante, al presente, fosse che il popolo italiano si raccogliesse in se stesso, si preparasse al dopoguerra e medicasse le proprie ferite senza esacerbarle o aprirne di nuove. Ecco perché fascisti come Giovanni Gentile erano "pericolosi": perché, predicando la riconciliazione, avrebbero potuto trovare ascolto sull’altra sponda, quella antifascista, e scongiurare lo scoppio della guerra civile. Essa non era inevitabile. Per quanto drammatica fosse la situazione del popolo italiano, stretto fra due occupazioni straniere, bombardato, mitragliato, affamato, demoralizzato, c’erano le condizioni perché la guerra civile scoppiasse, ma non erano abbastanza forti perché ciò accadesse effettivamente. Perché questo avvenisse, vi voleva una scintilla: e la scintilla s’incaricarono di accenderla i comunisti. Freddamente, lucidamente, essi formarono le squadre terroristiche dei Gruppi di Azione Patriottica, il cui obiettivo era l’assassinio politico. Presero di mira alcuni fascisti, i più moderati, i più in vista, i più indifesi: gente che girava senza scorta, che andava al lavoro coi mezzi pubblici, che continuava a vivere in famiglia, senza nascondersi, sena rinchiudersi in qualche caserma, sotto la protezione dei tedeschi. Così vennero assassinati uomini come Aldo Resaga, il federale di Milano, un fascista moderato, eroe di guerra, mutilato e pluridecorato, che, dopo essere stato ammazzato, venne descritto come un sanguinario e un bruto, in modo da infamarne l’immagine e da rendere meno odioso, o perfino accettabile, la sua esecuzione. I comunisti vollero completare l’opera sparando sulla folla che seguiva il feretro, durante il funerale. Questo avveniva a Milano, la capitale del Nord, fra il 18 e il 20 dicembre 1943. Non c’era ancora la guerra civile; non c’erano ancora le brigate in montagna; c’erano solo i G.A.P. che insanguinavano le città con i loro omicidi mirati, che spesso, come nel caso di Gentile, suscitarono orrore ed esecrazione fra la popolazione, e perplessità o aperta contrarietà fra gli stessi esponenti dei C.L.N., in quel caso compresi gli azionisti. Ma che importa la vita di qualche uomo, sia pure innocente, in confronto alla magnifica occasione di fare in Italia quel che i comunisti avevano fatto in Russia e che avevano poi cercato di fare anche in Spagna? La cosiddetta Resistenza vive di leggenda, la prima delle quali è che la guerra civile sia iniziata con la guerriglia delle bande, in montagna. Niente affatto: è cominciata nelle città, a Milano, a Torino, a Ferrara, proprio come sarebbe avvenuto con le Brigate Rosse negli anni ’70, gli anni di piombo, e in base alla stessa logica. È forse un caso che i terroristi del 1971 prendessero il nome di Gruppi di Azione Partigiana, ispirandosi direttamente ai Gruppi di Azione Patriottica del 1943? Dopo Aldo Resega, fu la volta di Igino Ghisellini, a Ferrara, il 13 novembre1943; di Ather Capelli, a Torino, il 31 marzo 1944; e di Giovanni Gentile, a Firenze, il 15 aprile 1944. Anche i mutilati e gli invalidi di guerra: il P.C.I. aveva dato ordine di non avere riguardo per nessuno, E non ne avranno, infatti, nella grande mattanza dell’aprile 1945: basti ricordare la fucilazione di Carlo Borsani, un altro moderato e uno spirito nobilissimo, cieco e medaglia d’oro al valor militare, fucilato il 29 aprile 1945 a Milano e poi gettato su un carretto della spazzatura. Il suo ultimo articolo di fondo su La Repubblica Fascista portava il titolo, quanto mai significativo, Per incontrarci; dopo di che era stato licenziato. Erano gli uomini di pace che andavano uccisi, salvo poi giustificare il loro assassinio attribuendo loro le peggiori nefandezze. Di nuovo: la stessa tecnica delle B.R. negli anni ’70. Mussolini, da uomo intelligente qual era, comprese subito il senso di quella strategia del terrore: conosceva bene i comunisti; e fece l’impossibile per trattenere la mano che si apprestava a scatenare le rappresaglie. Ma è evidente che l’uccisione dei moderati diede sempre più spazio ai "falchi": visto che i partigiani non guardavano in faccia a nessuno, perché farsi degli scrupoli? Alla violenza bisognava rispondere con la violenza, alla crudeltà con la crudeltà.
Queste cose, oneste e veritiere, sono già state dette, ad esempio da Carlo Mazzantini, più che nei suoi romanzi, in un saggio storico pregevolissimo, I balilla andarono a Salò; ma il grosso pubblico non le ha mai udite. Il grosso pubblico è stato inondato, per decenni, dai libri, dagli articoli, dai programmi televisivi ispirati alla vulgata resistenziale, nella quale si finge d’ignorare quali fossero i veri scopi dei comunisti e si accredita la leggenda di una Resistenza nella quale erano tutti belli, bravi e buoni, perché erano tutti "combattenti per la libertà"; e, per contro, di una R.S.I. dove tutti erano brutti e cattivi, tutti erano sadici e criminali, meritevoli della più dura punizione. Vale la pena di riportare una affermazione di Carlo Silvestri, il socialista che guidò la campagna di stampa contro il fascismo dopo il delitto Matteotti, e che poi, l’indomani dell’8 settembre 1943, si avvicinò a Mussolini, ne divenne amico ed estimatore, e si adoperò invano, anche lui, per una pacificazione degli italiani (in: Mussolini, Graziani e l’antifascismo, Milano, Longanesi, 1949, p. 143):
Affinché non vi siano ombre sulla mia chiarezza, testimonio ancora una volta , che tutte queste uccisioni [da parte dei G.A.P.] furono volute col criterio di esasperare la situazione e rendere inevitabile la guerra civile secondo il desiderio di Londra e di Mosca.
Ancora più chiaro, se possibile, Carlo Mazzantini, uno che aveva aderito alla R.S.I. a 17 anni e che visse dall’interno quelle vicende (da: I balilla andarono a Salò, Venezia, Marsilio, 1995, p. 121):
Sono azioni quelle dei G.AP. nelle quali gli esecutori spesso agiscono come veri e propri killer, cui è commissionato l’assassinio da compiere, senza neppure sapere chi sia la vittima, come accadde per il gruppo che uccise Aldo Resega, federale di Milano, della cui identità gli assassini verranno infornati dal proprio capo solo a esecuzione compiuta. O come l’uccisione di Ather Capelli, condirettore della "Gazzetta del Popolo" di Torino, del quale uno dei due partecipanti nulla sa, e l’altro, sempre il Pesce [Giovanni Pesce, partigiano comunista, 1918-2007], ancora ad anni di distanza continuerà a storpiare il nome in Cappelli nelle numerose citazioni del suo libro, dimostrando di non conoscerne esattamente l’identità, cosa che non gli impedirà di definirlo "il sanguinario incitatore delle rappresaglie", mentre si trattava di un vero moderato, patriota, ex combattente e mutilato di guerra, "giovane di nobilissimo animo" (A. Tamaro, "Due anni di storia"), il quale si era battuto per la riconciliazione e aveva lanciato appelli ala concordia nazionale: "Ritroviamoci tutti nel nome santo della patria, cadano tutte le barriere, tutti i rancori".
Un’ultima cosa. Gli uomini di Salò non erano fascisti nel senso specifico della parola; i fascisti di prima dell’8 settembre erano una minoranza. La maggior parte di quanti aderirono alla R.S.I. lo fece per senso del dovere e dell’onore, per amor di Patria e per la generosa utopia della riconciliazione…
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