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Ecco dove sono le radici della presente apostasia

Ci siamo chiesti, per anni, quali fossero le vere radici dell’apostasia che sta trascinando la ex Chiesa cattolica sempre più lontana da se stessa e sempre più lontana da Gesù Cristo, per seguire le mode e i gusti del mondo, dietro l’ingannevole espressione "dialogo" e dietro le ancor più truffaldine parole "inclusione", "accoglienza", eccetera, per non parlare di locuzioni ancora più spregiudicate, e addirittura blasfeme, come "nuova Pentecoste", ovviamente con riferimento al Concilio; e all’ancor più equivoca espressione "attuare lo spirito conciliare" (quale concilio? ma che domande! Il solo che conti per i modernisti travestiti da cattolici, il Vaticano II; tutti gi altri, per loro, contano meno di zero). E ce lo domandiamo con particolare urgenza e, perché negarlo, con autentica angoscia, ora che l’avvicinarsi del Sinodo per l’Amazzonia, da numerosi e non equivoci segnali, lascia intuire che si sta per attuare, de facto, un vero e proprio Concilio Vaticano III, ma con l’astuzia di non dichiararlo apertamente; un Vaticano III che spingerà ancor più lontano le frontiere del modernismo travestito da cattolicesimo, e renderà, nelle intenzioni dei suoi propugnatori, cioè, in buona sostanza, i vescovi progressisti tedeschi, impossibile qualunque marcia indietro, fosse pure fra cinquanta o cento anni. Per un certo tempo siamo stati inclini a individuare le radici nella deviazione dei teologi, prima i fautori della Nouvelle théologie, poi i sostenitori della "svolta antropologica" di Karl Rahner, al quale è succeduto brillantemente (si fa per dire) il suo degno discepolo Walter Kasper, tuttora ascoltatissimo teologo presso la corte — non si può chiamarla altrimenti – del signor Bergoglio, quell’individuo vestito di bianco che si fa chiamare papa, senza però esserlo. Ora siamo propensi a individuarla nella vasta galassia del mondo missionario, e specialmente fra i comboniani di Nigrizia e fra i missionari della Consolata; non tutti, naturalmente, ma quelli che, a un certo punto, si sono scordati di essere andati per convertire le anime a Cristo, e si son fatti convertire, loro, alle culture africane, asiatiche o latino-americane, meglio di tutto se "indigene", nel senso di primitive e non "contaminate" più di tanto dal contatto con l’impuro uomo bianco, portatore di ogni sorta di vizi e di malvagità. Li abbiamo conosciuti di persona, a suo tempo; siamo stati nei Paesi di missione; abbiamo riflettuto a lungo e siamo giunti alla conclusione che il male è partito da lì. Ad esso, naturalmente, si è aggiunto un altro male, un implacabile, astuto e paziente nemico esterno, il quale ha saputo sfruttare le debolezze e le deviazioni interne della Chiesa, compresa l’infiltrazione della massoneria e quella del marxismo, per scardinare progressivamente e irresistibilmente tutto il suo edificio, per stravolgere lentamente la dottrina e inquinare il Deposito della fede.

È almeno dalla dichiarazione Nostra aetate, del 28 settembre 1965, frutto avvelenato del Concilio, che i fautori del tanto decantato "dialogo" interreligioso trovano la pezza d’appoggio per incrinare la base stessa della fede cristiana: l’unicità della Verità in Cristo Gesù, e la necessità della fede in Lui come tramite necessario per la salvezza. Da lì agli incontri multireligiosi di Assisi, e all’idea, chiaramente presente in Instrumentum laboris per il Sinodo amazzonico, che, in fondo, non sono i popoli non cristiani a dover accogliere la Parola di Cristo, ma sono i cristiani a doversi convertire al culto della Madre Terra e a una nuova sensibilità ecologica, il passo non è nemmeno tanto lungo. E questo slittamento di prospettiva, questo abbraccio degli ultimi e dei poveri che diventa un abbraccio mortale, perché i missionari (non tutti, ripetiamo, ma alcuni) si sono letteralmente scordati che la vera e peggiore povertà è l’assenza di Dio e il rifiuto di Gesù Cristo, e non la povertà materiale, non è cosa di questi ultimi anni, ma parte da lontano: parte dagli anni immediatamente successivi al Concilio, nel quale ha trovato la sua giustificazione ideologica e pseudo teologica. Se ne potrebbero portare innumerevoli esempi: ci sarebbe da compilare una lista pressoché infinita di nomi, di fatti, di situazioni, di usi, e anche di libri e riviste. Scegliamo un testo praticamente a caso nel mucchio, L’olocausto degli "empobrecidos", sottotitolo Lettere di un italiano parroco in Brasile (1986-1988) di Fausto Marinetti (Brescia, Morcelliana, 1986, 1988), ideologico già dal titolo: che vuol dire "olocausto", in che senso viene fatto questo accostamento con l’Olocausto di cui ci parlano le cronache degli anni della Seconda guerra mondiale? E perché questa espressione di matrice religiosa, e quale offerta suggerisce? La sola vera Vittima che il cristiano conosce è Gesù Cristo, il Dio fattosi uomo, il solo perfettamente innocente perché perfettamente buono e fedele alla volontà del Padre; tutte le altre vittime della storia sono vittime in senso improprio, perché, in quanto esseri umani, recano il peso del Peccato originale, e nessuna di loro è perfettamente innocente. Ogni vittima è, almeno potenzialmente, anche carnefice. Forse che i kapò nei lager nazisti, che infliggevano sevizie ai loro compagni e li denunciavamo ad ogni infrazione, non erano, anch’essi, delle vittime? L’autore è un frate cappuccino, nato a Milano nel 1942 e ordinato sacerdote nel 1968 (che non è un anno qualsiasi…); la quarta di copertina ci informa che, licenziato in teologia, ha rinunciato al dottorato accademico per entrare nell’"università del popolo", ossia al servizio (citiamo ancora) dei "rifiuti umani, scaricati ai margini delle città". Come si vede, la retorica del "popolo", inteso non più come il popolo di Dio, ma come quarto stato da adorare perché povero e l’idea dei preti di strada, nascono negli anni ’60 e non ai nostri giorni; se non ce n’eravamo accorti, è perché eravamo distratti e non perché le cose non fossero fin troppo chiare già cinquanta anni fa. Poi padre Marinetti è stato per dieci anni a Nomadelfia, la città in cui tutto è di tutti, fondata da don Zeno Saltini, e dove (citazione) "si sta tentando l’avventura dell’uomo nuovo" (che non è l’uomo rinnovato da Cristo, ma l’uomo che ha instaurato il comunismo). Indi, "tre anni sul Calvario del terzo mondo" che gli hanno rivelato "la più grande tragedia della storia: l’oceano della miseria, l’arricchimento dei popoli del nord al prezzo della povertà estrema di quelli del Sud". A parte la semplificazione inaccettabile delle ragioni per cui il Sud della Terra è povero, colpisce in queste espressioni l’assenza di riferimenti cristiani: la più gran tragedia della storia non è l’assenza o il rifiuto di Cristo, da cui discendono tutti gli altri mali, compresa l’ingiusta distribuzione delle ricchezze, ma è la ricchezza in se stessa, o meglio la ricchezza del Nord della Terra, realizzata sfruttando senza pietà i popoli del Sud. Questo è il linguaggio di un marxista, non riflette il modo di pensare di un prete cattolico. Va da sé che se un missionario si reca in terra di missione gravato da simili sensi di colpa per la malvagità della società da cui proviene, finirà per dubitare che anche il cristianesimo non sia altro che una delle forme di violenza che il Nord del mondo esercita sul Sud: a meno, beninteso, che il missionario non si faccia "perdonare" sia il fatto di essere bianco, sia il fatto di essere prete cattolico, sposando al cento per cento l’ottica marxista e schierandosi al fianco dei poveri in una battaglia per la loro emancipazione che ben poco conserva di autenticamente cristiano, perché si pone sul piano materiale e rifiuta, di fatto, la dimensione spirituale della vita. Il capitolo che meglio esprime questo concetto è quello intitolato, significativamente, Chi può evangelizzare? (pp. 173-177), dove si possono leggere affermazioni come queste:

Non so dove ho letto queste parole: "Evangelizzare è, prima di tutto, lasciarsi evangelizzare". (…)
SOLO UN POPOLO CHE SOFFRE HA IL DIRITTO DI EVANGELIZZARE. Se la redenzione è entrata nel mondo attraverso la sofferenza e la croce ("senza spargimento di sangue non c’è remissione"), bisogna pur anche dire che la redenzione viene da quei popoli che sono messi in croce dal nostro mondo. Il Cristo, l’uomo dei dolori, non vive, oggi, sotto forma di popolo, nei popoli calpestati e crocifissi dalla fame e dalla schiavitù? Dovremmo camminare in punta di piedi sulla terra sacra degli "empobrecidos", e baciare il suolo irrorato dal loro sangue e dalle loro lacrime".

E avanti così di seguito, per pagine e pagine: questa è l’idea centrale del libro (scritto dall’Autore dopo pochissimi anni di soggiorno nel cosiddetto Terzo Mondo: la prima edizione coincide con il primo anno, la seconda con il terzo). Si parte da un’affermazione erronea ed eretica, ma che ha qualche apparenza esteriore di verità, evangelizzare è, prima di tutto, lasciarsi evangelizzare, senza però specificare che qui non s’intende "predicare il Cristo", ma "convertirsi e cambiar vita"; e da quella erronea ed eretica affermazione si traggono conclusioni sempre più lontane dall’ortodossia cattolica, di carattere panteista, relativista e soggettivista. Solo un popolo che soffre ha il diritto di evangelizzare: ma quando mai? Quando mai la predicazione del Vangelo è stata una questione di "popoli"? E quando mai la sofferenza di un popolo garantisce, di per sé, che il predicatore abbia "il diritto" di evangelizzare? Il diritto di evangelizzare viene da una cosa sola: la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio e Redentore dell’umanità. Credi tu in questo? Se lo credi, sei cattolico, e hai non solo il diritto, ma il preciso dovere di evangelizzare; se non lo credi, non sei cattolico, sei qualcos’altro, e allora no, che non hai quel diritto, ma non perché non ne sei degno, in quanto non appartieni a un popolo sofferente, ma perché il tuo Dio non è Gesù Cristo, il Solo che è Via, Verità e Vita. Il bello è che Marinetti, senza rendersene conto, formula qui una vera e propria teologia razzista, e sia pure di un razzismo all’incontrario: solo i popoli ha soffrono hanno il diritto di evangelizzare (ma di evangelizzare nel nome di chi: di Cristo, di Buddha, di Maometto o di chi altro?), allora i popoli che non soffrono non ce l’hanno. I popoli del Nord della Terra, secondo lui, non solo non soffrono, ma sono colpevoli, direttamente e in prima persona, della miseria dei popoli del Sud: quindi, a rigore, nessun figlio di un Paese del Nord ha il diritto di evangelizzare. Conclusione assurda, ma logica. Ma lui, come ci informa il suo libro, ha convissuto per anni con i "rifiuti umani scaricati ai margini", ecc.: dunque, non è vero che presso i popoli del Nord tutti stanno bene e nessuno soffre. Se ne dovrebbe dedurre che anche presso i popoli "colpevoli", cioè colpevoli di non soffrire, o di non soffrire abbastanza (ma chi stabilisce questa graduatoria?), c’è qualcuno che ha il "diritto" di evangelizzare: i rifiuti umani scaricati ai margini, ecc. Benissimo. Ecco da dove viene l’idea dei preti di strada e dei vescovi di strada: dal senso di colpa dei cittadini del Nord della Terra rispetto alle sofferenze dei popoli del Sud. Gesù Cristo, però, non ha inviato i suoi Apostoli a evangelizzare il mondo per lenire i loro sensi di colpa, ma semplicemente perché tale era la Sua Volontà: per offrire a tutti gli uomini i mezzi necessari a conoscere la Verità e a meritare la salvezza eterna. Se un sacerdote italiano, o francese, o tedesco, è afflitto da sensi di colpa per il fatto di venire da una società ricca, non è adatto a evangelizzare, perché metterà nella sua predicazione un elemento politico-sociale, e perfino razziale, estraneo al Vangelo. Inoltre, sarà portato a idealizzare fino al parossismo i popoli presso i quali si reca in missione: li vedrà come perfettamente buoni e giusti, in quanto soffrono. Ma la sofferenza non è la redenzione: è una possibile via di redenzione, questo sì. Non è però affatto automatico che chi soffre sia giusto, o che i popoli sofferenti siano di per sé più vicini al vero Dio di chiunque altro. Se la sofferenza è vissuta come una maledizione, se è rifiutata, se è attribuita a cause puramente materiali, e non anche, in ultima analisi, al rifiuto di Cristo, allora quella sofferenza è inutile e non redime affatto.

Se la redenzione è entrata nel mondo attraverso la sofferenza e la croce ("senza spargimento di sangue non c’è remissione"), bisogna pur anche dire che la redenzione viene da quei popoli che sono messi in croce dal nostro mondo. Qui la confusione teologica è totale e, crediamo, voluta; impossibile che un sacerdote non si renda conto della mostruosa distorsione che vien fatta del concetto di redenzione. La sola Redenzione che sia tale per un cattolico, è quella di Gesù Cristo, e si scrive con la maiuscola. La redenzione con la minuscola non è la Redenzione di Cristo; e in ogni caso non viene dai popoli, buoni o cattivi che siano. Non solo l’Autore opera uno slittamento semantico intollerabile della parola "redenzione", ma ragiona in tutto e per tutto da marxista, non da cattolico: la sua è un’analisi puramente materialista del fenomeno della povertà. Oltretutto, pare che per lui non esista altra forma di povertà che quella economica; e si scorda che la povertà più grave è l’assenza di Cristo. Poi giunge a una vera e propria divinizzazione dei popoli sofferenti, identificati senz’altro col Cristo: il quale, bisogna ricordarlo, non è solo l’Uomo dei dolori (con la maiuscola, perché non è solo uomo), ma è anche, e soprattutto, il nostro Salvatore e Redentore. La sofferenza di Cristo salva e redime perché Egli è Dio; se non fosse Dio, non salverebbe e non redimerebbe nessuno. Prevediamo l’obiezione di quelli che la pensano come lui: si fa presto a parlare, vivendo nell’agiatezza; ma bisogna vivere con gli ultimi della Terra, per capire certe cose. Rispondiamo: forse i missionari che hanno evangelizzato per secoli non erano abbastanza sensibili, né credibili, come cristiani? Molti di loro hanno reso testimonianza a Cristo sacrificando la propria vita: ciò non ne fa dei testimoni autorevoli e veritieri? In compenso, crediamo d’aver capito donde viene il bacio dei piedi ai politici sudanesi da parte di Bergoglio, e da dove il documento eretico di Abu Dhabi…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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