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21 Settembre 2019Ancora oggi non sono in molti a sapere, fra il grosso pubblico, di quale infamia si macchiarono gli alleati angloamericani nel 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale: la riconsegna a Stalin di tutte le truppe russe anticomuniste che avevano combattuto, sotto le bandiere tedesche, non per tradire la loro patria, ma nel tentativo di abbattere il comunismo e con la speranza di veder finire la disumana signoria del dittatore georgiano. Fra queste truppe spiccavano i cosacchi, del Don, del Kuban, del Caucaso e di altre regioni, più quelli che dopo la guerra civile avevano scelto la via dell’esilio, i quali per lunga tradizione, fin dal 1918, sotto l’ataman P. N. Krasnov, si erano sempre battuti contro i bolscevichi, né mai si erano rassegnati alla loro vittoria. Ma c’erano anche gruppi e singoli individui, specialmente prigionieri di guerra, i quali pur avendo creduto nel comunismo, o avendolo accettato per necessità, ne erano rimasti totalmente delusi e, alla fine, avevano colto l’occasione che si offriva loro, dopo l’inizio della guerra tedesco-sovietica, nel 1941, per accettare di mettersi agli ordini dei suoi nemici. L’Armata russa di liberazione (R.O.A.), questo era il suo nome ufficiale, arrivò a comprendere 120.000 uomini, aveva una bandiera dai colori bianco e azzurro ed era posta sotto il comando del generale Andrej Andreevic Vlasov, un ex eroe dell’Armata Rossa, che aveva combattuto brillantemente nella battaglia di Mosca dell’inverno 1941, ma poi, caduto nelle mani dei tedeschi, aveva deciso di aderire alla causa anticomunista. Del resto le autorità sovietiche trattavano da traditori tutti i soldati che venivano fatti prigionieri dai tedeschi: per essi non c’era alternativa se non combattere sino a farsi uccidere, oppure essere giudicati per le spicce e giustiziati, qualora fossero stati "liberati" dai loro commilitoni. Vlasov venne consegnato dagli americani, ai quali si era arreso, ai sovietici: processato e condannato per alto tradimento, fu impiccato il 2 agosto 1946.
I cosacchi non erano inquadrati nella R.O.A., ma in altre unità prevalentemente di cavalleria, le quali indossavano l’uniforme tedesca ed erano in parte sotto il comando della Wehrmacht, in parte sotto quello delle Waffen-SS. Pochissimi sanno che anche l’ARMIR, l’Armata italiana in Russia, arruolò una unità delle dimensioni d’un battaglione, chiamata Gruppo squadroni cosacchi Campello, dal nome del suo comandante, il maggiore Ranieri di Campello della Spina (1908-1959), e formata principalmente con prigionieri catturati durante l’avanzata sul Don. Il gruppo più consistente di cosacchi era quello posto agli ordini del generale tedesco Helmuth von Pannwitz, che operò specialmente nella repressione delle forze partigiane jugoslave; da ultimo venne inglobato direttamente nelle Waffen-SS, contro il parere del suo comandante. Un altro gruppo era al comando del generale Pëtr Nicolaevic Krasnov, molto conosciuto anche a livello internazionale per aver pubblicato numerosi romanzi nel periodo fra le due guerre, uno dei quali in particolare, Dall’aquila imperiale alla bandiera rossa, vasto affresco della società russa dai primi del Novecento alla fine della guerra civile, fu molto apprezzato tra i fuoriusciti russi e venne da taluno paragonato a Guerra e pace di Tolstoj; e non sempre il confronto era a favore di quest’ultimo. Il suo gruppo fu destinato alla Carnia, sempre per combattere i partigiani, italiani in questo caso. Non si trattava semplicemente di una unità combattente ma di un’intera popolazione, con donne, bambini, cavalli e perfino cammelli al seguito: in pratica, essi credevano che quella regione fosse stata loro concessa quale nuova sede definitiva, come una sorta di risarcimento per le perdute dimore nel Kuban e alle pedici del Caucaso.
Nel 1945 entrambi i gruppi si ritirarono combattendo in Austria e infine si arresero ai britannici dopo essere giunti sulle rive della Drava, presso Lienz; ma da questi vennero consegnati ai sovietici, pur sapendo benissimo il destino che li aspettava. Ci furono indescrivibili scene di disperazione: molti si suicidarono gettandosi nelle acque vorticose del fiume. L’eroico Pannwitz, che aveva combattuto con senso di umanità, risparmiando le chiese e facendo comminare la pena di morte per gli uomini che avessero seviziato la popolazione civile, avrebbe potuto salvarsi, in quanto tedesco, ma non volle separarsi dai suoi uomini, fra i quali era estremamente popolare, e preferì seguire la loro sorte. Venne impiccato a Mosca, il 17 gennaio 1947; più tardi, nel 1996, il presidente russo Boris Eltisn lo fece riabilitare, purgando la sua memoria dall’accusa di aver compiuto crimini di guerra e addirittura facendo assegnare una pensione ai suoi familiari. Krasnov fu impiccato lo stesso giorno, sempre nelle carceri della Lubianka, appeso per il mento a un gancio di ferro, le mani legate dietro la schiena, come l’ultimo dei criminali. Il suo corpo venne poi cremato e le ceneri sepolte in una fossa comune presso il monastero di Donskoj.
Ha scritto il saggista Adriano Bolzoni nel suo libro I dannati di Vlassov. Il dramma dei russi antisovietici nella seconda guerra mondiale (Milano, Mursia, 1991, pp. 132-133; 149; 216):
Ancora oggi, quarantacinque anni dopo il verificarsi di quegli avvenimenti, l’opinione pubblica dei Paesi liberi e democratici del Occidente, dove la libertà di stampa e di infrazione è totale [sic], conosce poco o nulla non soltanto dell’enorme fenomeno di collaborazione attiva — anche militare — prestata alla Germania dai russi anticomunisti ed ostili al potere sovietico, ma anche e soprattutto di quella che è stata la spaventosa tragedia di milioni di russi condannati ad essere sterminati od a sparire nei Lager dell’URSS perché consegnati contro la loro volontà dai governi alleati alla macchina omicida di Stalin. Di quello che avvenne negli anni 1944-46, quindi anche mesi dopo la fine del conflitto, anche dopo che l’URSS calò con un tonfo cupo il "sipario di ferro", vale a dire della vicenda dei rimpatri forzati di russi non solo prigionieri degli Alleati, ma anche ex prigionieri russi liberati dai campi dall’arrivo delle truppe anglo-americane, profughi, fuggiaschi e persino esuli finiti in Occidente anche prima dell’inizio della guerra, il mondo libero conosce ben poco. "il dramma dei rimpatri forzati è rimasto in un oscuro angolo della storia", come dice Nicolai Tolstoy. E si è trattato di una vicenda infame, di un autentico genocidio. Milioni e milioni di vittime: russi anticomunisti o meno. E non solo quanti di loro appartennero, volontariamente o costretti dalle vicissitudini della guerra, alle formazioni militari che affiancarono la Wehrmacht, le unità delle Waffen SS o altri reparti tedeschi; non soltanto i reparti combattenti dell’Armata Russa di Liberazione del generale Andrej Vlassov, dei corpi cosacchi, dell’armata ucraina, dei corpi baltici, dei battaglioni ausiliari del lavoro, ma anche centinaia di migliaia di altri russi che in modi diversi erano scampati dai campi di lavoro e di prigionia in Germania e nei territori occupati; eppoi ancora, senza nessun rispetto mai per le leggi dell’umanità e del diritto d’asilo, altre masse di russi di ogni sesso ed età, che nel marasma della guerra avevano cercato scampo e rifugio nelle zone dell’Ovest poi raggiunte dagli eserciti alleati. Tutti furono consegnati, spesso proditoriamente e vilmente, al carnefice di Mosca. (…)
Ma la grande tragedia, nutrita di disperazione, si consumò su quanti russi vennero riconsegnati a Stalin con la forza, con l’inganno, in modi molto spesso francamente miserabili da parte degli anglo-americani. Una tragedia che, vale ripeterlo, per il numero delle vittime non si stacca troppo dall’Olocausto ebraico effettuato dai nazisti. I responsabili della politica britannica ed in certi casi — certamente di gran lunga minori — della politica americana, si sporcarono le mani in maniera indelebile. (…)
Ancora una volta vale la pena di sottolineare l’incredibile; l’operazione dei trasferimenti forzati dei russi operata dagli inglesi, ed in misura minore dagli americani, specialmente dalle zone dell’Austria – che tra l’altro determinò lo sterminio dei corpi cosacchi — poté compiersi sena testimonianze di rilievo dei media dell’epoca senza clamore o critiche di peso da parte di un numero notevolissimo di inviati e corrispondenti di guerra in genere attivissimi in campo anglo-americano. È vero però che certi risvolti dell’operazione ebbero nei combattenti inglesi ed americani, ufficiali e soldati, testimoni disgustati e profondante colpiti, che non potevano dimenticare ed in realtà non dimenticarono l’orrore e la vergogna di quanto era accaduto. "Non si poteva essere sicuri", ha scritto Nicolai Tolstoy, "che essi (i reparti) avrebbero accettato una seconda volta di compiere azioni simili". Lo stesso scrittore ha documentati episodi verificatisi a Lienz e nella zona austriaca dove, nonostante la disciplina caratteristica tra i reparti britannici, vi fu davvero pericolo di rifiuti d’obbedienza e, in alcuni casi, gli ordini vennero eseguiti solo in parte. Indubbiamente la pesante responsabilità di un così vergognoso e disonorevole affare — i rimpatri forzati dei russi — in campo militare cadeva sulle spalle del maresciallo inglese Sir Harold Alexander, divenuto comandante in capo del teatro di guerra del Mediterraneo. Ma la prima vera responsabilità doveva e deve attribuirsi al governo di Londra ed in misura di gran lunga minore a quello di Washington.
E cioè, più precisamente, la responsabilità dei rimpatri forzati ricadeva sui due massimi esponenti del Partito conservatore, allora al governo in Gran Bretagna: il primo ministro Winston Churchill e il ministro degli Affari esteri, Anthony Eden (quest’ultimo, sia detto fra parentesi, implacabile e astioso nemico dell’Italia), entrambi proni alle imperiose richieste di Stalin affinché tutti i cittadini sovietici, per qualsivoglia ragione finiti sotto la giurisdizione civile o militare alleata, gli venissero prontamente riconsegnati. La cifra assai vaga, ma comunque enorme, di "milioni e milioni" di individui, ci lascia molto perplessi; riteniamo che ci si possa avvicinare ad essa solo comprendendovi quelle popolazioni russe, o comunque viventi entro i confini sovietici del 1941, che non furono consegnate dagli angloamericani, ma che semplicemente ebbero la sfortuna di ricadere sotto il tallone di Stalin, dopo aver accolto favorevolmente l’avanzata dell’esercito tedesco al tempo dell’Operazione Barbarossa, specialmente in Ucraina, dove assai vivo era il drammatico ricordo della carestia provocata forse a bella posta dalle autorità comuniste nel 1932-33 per debellare il ceto dei kulaki, e che aveva causato milioni di morti. I drastici provvedimenti puntivi si applicarono talvolta a intere popolazioni, come nel caso dei Tatari di Crimea (quasi 240.000 persone) i quali vennero deportati fin dal maggio 1944, cioè un anno prima della fine della Seconda guerra mondiale, su ordine di Mosca dai soldati del NKVD, il temuto Commissariato del Popolo per gli Affari Interni, nel lontanissimo Uzbekistan, sotto l’accusa di aver tradito la "patria sovietica" collaborando con l’invasore nazista. Il fatto che la cifra suggerita da Adriano Bolzoni sia sovrastimata nulla toglie alla crudeltà della politica di Stalin, né alla pavidità. o peggio. di quella di Churchill e Roosevelt, e quindi non inficia la giustezza delle sue osservazioni. Un’altra cosa che non ci persuade è la sua fiducia illimitata e, a nostro parare, alquanto ingenua nella bontà del sistema dell’informazione pubblica nelle odierne democrazie liberali. Non è vero che si può essere informati di tutto quel che accade nel mondo, sia perché notizie importantissime possono essere taciute, sia perché le notizie possono essere deformate in misura tale da risultare incomprensibili. Il che è perfettamente logico, se si considera che tutte le notizie passano attraverso il vaglio di poche, colossali agenzie d’informazione, le quali sono soggette al "controllo" del vero potere mondiale oggi esistente, quello della grande finanza internazionale, che elude o surclassa di gran lunga anche quello degli stati comprese le maggiori potenze. Ciò detto l’impianto complessivo del ragionamento di Bolzoni sul dramma dei rimpatri forzati ci sembra largamente condivisibile.
Giunti a questo punto, non possiamo non notare la stridente contraddizione esistente fra il contegno adottato nel 1945 dalle autorità militari britanniche e americane, su ordine dei rispettivi governi, e la normativa oggi proposta, o meglio imposta a livello internazionale, circa l’accoglienza dei profughi, anzi di coloro che dicono di essere profughi, anche se, nel 90% ed oltre delle verifiche, risulta che non lo sono affatto. Oggi è divenuto un dogma delle democrazie liberali quello del dovere di accoglienza da parte degli Stati ai cui confini essi si presentano, mentre allora gli alleati non ebbero scrupoli nel riconsegnare a una brutale dittatura, quella sovietica, tutti i disgraziati che ne erano fuggiti e che erano caduti nelle loro mani, pur sapendo benissimo che ciò, per loro, significava una certa condanna a morte. Un corollario di quel cinico atteggiamento si può ravvisare nel trattamento riservato dal governo italiano ai suoi profughi veri e non finti, in fuga dalle province cedute alla Jugoslavia col trattato di pace del 1947, trattamento che ebbe qualcosa d’indegno, per la diffidenza delle autorità statali e per il disprezzo di una parte, quella comunista e socialista, dell’opinione pubblica. Certo, si potrebbe obiettare che le cose sono assai cambiare e che le democrazie liberali, ai nostri dì, sono divenute molto più umane e sollecite verso i soggetti deboli. Ma è proprio così? O piuttosto esse, oggi come allora, non fanno altro che eseguire i voleri del grande potere finanziario?
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