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La sublime grandezza di Bach è nella sua solitudine

C’è un grande mistero nella vita e nell’opera musicale di Johann Sebastian Bach, che poi sono così strettamente legate che è impossibile tracciare una linea di separazione fra esse; un mistero che ha a che fare con la sua prodigiosa capacità di concentrazione, con la sua austera e totale dedizione al lavoro, con l’imperturbabile abbandono a Dio che caratterizza tutta la sua produzione, così come ogni singolo giorno della sua esistenza terrena. Sposo, rimase vedovo ancora relativamente giovane, per poi risposarsi; padre, ebbe venti figli, e metà morirono prima di lui. Se fosse la biografia di Leopardi, gli studiosi non mancherebbero di rilevare in quelle tragedie familiari la radice del suo pessimismo. Il fatto è che non si trova traccia di pessimismo nell’opera gigantesca di Bach, che pure sonda con estrema puntualità ogni ambito dell’esperienza umana, e che, nella Passione secondo San Matteo, non esita a contare una ad una, per così dire, e con estremo realismo, le piaghe di Gesù Cristo. Bach possiede un animo capace di provare il dolore, ma possiede anche una straordinaria capacità di assorbirlo, sublimarlo, trasfigurarlo nell’arte e nella sua vita operosa, scandita da ritmi semplici e ordinati, tutti improntati alla gioia della musica, che coinvolgeva l’intera numerosa famiglia attorno al clavicembalo. E in questo, per noi, vi è qualcosa di sconcertante, qualcosa che lascia perplessi e quasi increduli: ci appare persino come un po’ disumano. Per l’uomo moderno, soffrire ed esternare la propria sofferenza è un’unica cosa. Inoltre l’uomo moderno è continuamente tormentato da dubbi, mentre non vi è mai tracia di dubbio nella vita di Bach: né nella sfera privata, né nella composizione delle sue opere. Bach procede con la tranquilla sicurezza di un gigante in mezzo a un formicolare di nani inquieti e frenetici. Ci si chiede da dove gli venga quella sicurezza, dove egli attinga quella tranquillità; si è persino sfiorati dal dubbio che possa nascere da un’intima freddezza, da una incapacità costituzionale di provare dei sentimenti profondi. Ma tale supposizione può venire solo da chi non abbia ascoltato con vera partecipazione la sua musica. Bach si riflette nella sua musica con immediatezza assoluta: è forse il musicista che più di ogni altro ha lasciato cadere il diaframma che lo separa dalle sue composizioni. Non c’è alcuna distanza fra i giorni di Bach e il rigo musicale sul quale egli scrive, con mano sicura, le sue note, mettendole infila una dopo l’atra, con inesauribile creatività e, nello stesso tempo, con un senso delle proporzioni che ha qualcosa di grandioso, di architettonico, nel senso in cui gli architetti del medioevo concepivano e realizzavano le grandi cattedrali gotiche. E in quelle note, in quelle fughe, in quei canoni, in quelle meraviglie contrappuntistiche c’è tutto Bach: un animo ricchissimo, capace di gioire e di soffrire, ma sempre sorretto da una fede luminosa, da una certezza incrollabile: tutto è nelle mani di Dio, tutto deve esser fatto in gloria di Dio, nient’altro è importante a questo mondo, perché le cose di questo mondo passano e rimane solo la realtà della vita eterna.

Bach fu un solitario, non perché fosse un misantropo, ma perché non fu capito. Tutto il suo mondo, la sua vita sociale, si esauriva nella famiglia e nel rapporto con gli allievi delle scuole musicali ove insegnava; se si aggiunge qualche fastidio e qualche lite di carattere finanziario coi colleghi e i superiori, si avrà tutto il quadro della sua vita sociale. Pochissimi viaggi, e solo all’interno della Germania: tutto il contrario del cosmopolita e ammiratissimo Händel. La verità è che nessuno si era accorto di lui, né in patria, né, meno ancora, all’estero; passava per un virtuoso dell’organo, ma come compositore era sconosciuto o rifiutato; del resto, non pubblicava le sue composizioni. Non inseguiva la gloria, scriveva solo e unicamente per la gloria di Dio. E non era affettazione: la sua fede era semplice, schietta, ma solida come una roccia, priva di qualsiasi posa. Bach è stato il sommo artista del contrappunto; e il contrappunto, al suo tempo, cioè nei primi ani del XVIII secolo, stava appunto tramontando, sostituito dal gusto per l’armonia. Pertanto egli appariva un sorpassato, un uomo fuori del tempo; non solo non era un musicista alla moda, ma non dedicava alcuna attenzione a ciò che mandava in visibilio il pubblico del suo tempo. Era solo, nel senso più profondo del termine: solo come può esserlo l’ultimo uomo sulla Terra dopo un cataclisma cosmico. E tuttavia, se pure provò, qualche volta, l’amarezza, non permise mai a quella cattiva pianta di mettere radici nel suo animo; non c’era posto in esso per sentimenti negativi, così come non c’era posto per nulla che non fosse lode e gloria di Dio. E questo non è moderno, è medievale: Bach è stato l’ultimo genio del Medioevo, sorretto dalla solida fede in Dio che era stata di Dante Alighieri o di san Tommaso d’Aquino. Quella fede riempiva tutta la sua esistenza, ispirava tutte le sue opere, consolava tutti i suoi dolori e asciugava tutte le sue lacrime; quella fede dava una luce, uno slancio, una forza irresistibile alla sua tempra di borghese tranquillo e di onesto maestro di cappella, oltre che di genio musicale assoluto. Ma questo era il suo segreto; lo conoscevano solo lui e Dio, e ciò gli bastava; non provava rammarico per l’incomprensione degli uomini e non si struggeva d’invidia e gelosia per le lodi tributate a tanti musicisti infinitamente più piccoli di lui. La sua era la serenità dei santi quotidiani, frutto di rigorosa disciplina, spirito di sacrificio e un altissimo senso del dovere.

Ci sembrano interessanti le osservazioni del musicologo Massimo Mila (Torino, 1910-ivi, 1988) sul rapporto che intercoree fra l’arte geniale di Bach e la sua condizione oggettiva di grande isolato nella società e anche nella cultura, musicale e non musicale, del suo tempo (in: M. Mila, Breve storia della musica, Torino, Einaudi, 1963, pp. 155-146; 151; 154):

La vita di Bach fu precisamente quella di un onesto e laborioso organista tedesco del nord. Ebbe due mogli e una ventina di figli, dei quali dieci sopravvissutigli, tutti musicisti e tre, almeno, tali da occupare un posto cospicuo nella storia. Una fede religiosa improntata a robusta e sana energia, una concezione di vita lietamente operosa e feconda, erano le caratteristiche della casa. "La vita familiare del tempo dei Bach non conosceva morbidezze di sentimento, né lacrime, né baci" (Borkowsky). Alle sei del mattino tutti i numerosi Bach grandi e piccoli saltavano puntualmente giù dal letto e radunati intorno al clavicembalo nella stanza da lavoro cantavano un inno di grazie al Signore. "C’era una devozione virile, una fede esatta e senza riserve, semplicità di cuore, fiducia nella forza della preghiera. Mai l’incertezza del dubbio, ma sempre sicurezza di vita, esatto adempimento di dovere, allegra operosità. Nessuna debolezza nella vita e nel lavoro quotidiano" (Borkowsky). I giorni di Johann Sebastian Bach sarebbero stati sempre felici se egli avesse potuto vedere condivisa dal mondo circostante la sua intatta fede nel potere formativo della musica, in seno alla concezione luterana. Le amarezze della sua vita, e le battaglie che ne seguirono, si dovettero all’urto con l’insorgere di una moderna e razionalistica concezione del mondo, che portava con sé, tra l’altro, il tramonto completo, anche se temporaneo, dello stile contrappuntistico nella musica. Ma mai la sua preghiera per il pane quotidiano si levò da un cuore che la miseria opprimesse fino allo smarrimento. "Dopo aver ben misurato, egli aveva scelto la via della vita e teneva in pugno il destino. La croce ch’egli portò, non gli pesava fino a ferirlo. Egli fu uno dei felici che sempre credono di aver posto la loro causa nelle mani stesse di Dio. Nn avrebbe quindi mai potuto diventare un uomo del dubbio, un sovvertitore. Tutto ciò ch’è umano dà affanno, e insieme all’affanno solleva: la partecipazione di Bach a questo scambio non fu tale da logorare le sue forze. Di anno in anno egli elevò sempre più le mura intorno al proprio bosco sacro; le tempeste non potevano scuoterne la sommità. Egli ebbe la tranquillità dei grandi solitari, la calma e la forza dei grandi creatori" (Borkowsky). Contraddetto nella sua arte dall’indirizzo musicale dell’epoca, che andava verso la superficialità dello stile galante, con abolizione d’ogni residuo contrappuntistico e trionfo della melodia accompagnata, secondo il modello del melodramma, si trasse sdegnosamente in disparte, accentuando negli ultimi lavori il culto di quel passato polifonico, dai fiamminghi al Rinascimento, di cui si sentiva l’erede predestinato. Sconfitto sul piano tattico, e dimenticato per oltre mezzo secolo, trionfa sul piano strategico: la sua nuova fortuna ha inizio coi romantici, e oggi nessun musicista del passato è così presente come Bach, a indicare il difficile cammino della musica contemporanea. (…)

L’accanimento nel proposito di estrarre da un tema tutte le combinazioni contrappuntistiche, astraendo perfino dalla materiale possibilità d’esecuzione, culmina nell’"Arte della fuga", monumentale testamento nel quale il prodigioso artigiano dei suoni trasmise ai posteri tutti i segreti del mestiere onde attraverso l’agevolezza e la trasparenza della notazione musicale l’espressione interiore si fa pura e cristallina. Sopra un unico tema Bach svolge una formidabile architettura, che comprende canoni e fughe secondo tutti gli ordini de contrappunto semplice e doppio. (…)

Bach riassunse nella sua opera monumentale tutta la musica che lo aveva preceduto, e incarnò in sé il principio del contrappunto che stava allora per cedere al principio dell’armonia: i contemporanei lo giudicarono un dottissimo e oscuro pedante; e i posteri oggi non si stancano di ritrovare in lui miracolosi germi dell’avvenire musicale. Händel, invece, fu esattamente figlio del suo tempo, eroe dell’età barocca, conobbe il successo immediato e fu, senza volgari concessioni, artista alla moda. Conobbe la musica europea del suo tempo, viaggiò, allargò i limiti delle sue esperienze artistiche quanto era allora possibile: tutto ciò in contrasto con la chiusa, concentrata e modesta vita di Bach.

Più si studia il "mistero" di Bach, e più ci si rende conto che esso è terribilmente semplice: è il mistero dell’anima che si abbandona a Dio con totale, illimitata fiducia. Abbiamo detto poc’anzi che Bach, per taluni aspetti della sua vita, del suo carattere e della sua concezione del lavoro e della famiglia, ci sembra un uomo del medioevo, perché in lui non vi è nulla di moderno; ma forse sarebbe più esatto definirlo semplicemente un uomo sano. Era sano perché la sua vita era costantemente in relazione con Dio, così come deve essere la vita di ogni uomo. L’uomo moderno è malato perché ha reciso quella relazione: i mostri e i fantasmi del suo inconscio scaturiscono da tale condizione innaturale, da lui stesso provocata, e producono quella "coscienza infelice", come la chiama Hegel, che lo condanna a un’esistenza umbratile, penosa e contraddittoria, lacerata fra ambizioni sbagliate e brucianti sensi di colpa. In Bach non vi è traccia né di ambizioni smodate e disordinate, né di ingiustificati sensi di colpa; non se la prende con Dio per la morte della prima moglie e per quella di tanti suoi figli; non ha conti in sospeso da regolare con alcuno, solo giusti diritti da far valere circa le sue retribuzioni. Con una famiglia tanto numerosa da mantenere, non poteva lasciar correre su certi abusi: è già duro immaginarselo nel ruolo modestissimo di direttore del coro o di maestro di cappella, a insegnare latino e greco a dei ragazzi indisciplinati e a tentare di trasformarli in coristi accettabili per le funzioni sacre. Ma forse è più duro per noi, che conosciamo la sua grandezza misconosciuta, di quanto lo fosse per lui, che era in pace con Dio e che dalla vita non chiedeva altro se non di poter mettere il suo talento al servizio del Signore. Con questo atteggiamento, con questa umiltà e con questa fede Bach affronta le difficoltà della vita e ne esce ogni volta vittorioso. È come se in lui vi fosse una sorgente misteriosa dalla quale attingeva una forza sovrumana allorché si trovava alle prese con grossi dispiaceri o preoccupazioni. In altre parole non si lasciava turbare dalle vicissitudini della vita, né da quelle affettive, come la perdita delle persone care, né da quelle economiche: era sempre uguale a se stesso, conservava la sua inalterabile compostezza; e si ha l’impressione che la vita, nella sua casa, fosse sobria ed austera, ma non priva di allegria; che quei bambini e quei ragazzi vivessero con gioia i frequenti momenti trascorsi tutti insieme, a fare musica, sotto la direzione del padre. Non c’era posto per la tristezza in loro, perché in Bach avevano l’esempio vivente di come si possano attraversare le burrasche dell’esistenza a testa alta e senza mai perdere il sorriso.

Avrete notato che molte copertine dei dischi di Bach recano le immagini di qualche solenne ghiacciaio: sembra che la neve, il ghiaccio e le solitudini dell’alta montagna siano le cose più adatte a evocare le caratteristiche della sublime arte del contrappunto di Bach. Bisogna però chiarire che tali immagini non alludono a una presunta freddezza spirituale: anche se la musica di Bach è matematicamente perfetta, con tutte le note esattamente al loro posto, là dove devono essere secondo una vera e propria proporzione aurea, come i pieni e i vuoti sulla facciata di una cattedrale, nondimeno la neve e il ghiaccio non alludono al freddo e all’insensibilità, ma, al contrario, alle nobili, elevate, rarefatte altitudini cui giunge l’arte di questo titano della musica di tutti i tempi. Perciò, un consiglio: quando si vuole ascoltare una toccata o una fuga o una passacaglia di Bach, non bisogna far altro che togliersi le scarpe, entrare scalzi e silenziosi e lasciarsi prendere per mano.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Ylanite Koppens from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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