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Che differenza c’è tra Priebke e Falco oppure Tigre?

Fino a qualche anno fa gli italiani, nella stragrande maggioranza, anche quelli che avevano fatto studi superiori e perfino universitari, praticamente ignoravano quel che è successo alla fine della Seconda guerra mondiale, dopo la firma della resa e dopo che i vinti si erano consegnati, disarmati, ai vincitori, secondo le leggi di guerra che tutelano l’incolumità dei prigionieri: e cioè un’orgia di vendette, massacri, torture, stupri, infoibamenti, sevizie inimmaginabili, morti bianche, vedove e orfani privati perfino di una tomba su cui piangere il proprio marito o il proprio padre, nonché di sfrenate ruberie; un’orgia di intensità e di violenza barbarica, quale mai si era vista da secoli e che le vicende della guerra civile, peraltro anch’essa negata a lungo come tale dalla cultura ufficiale, non valgono a spiegare, ma che affondano le loro radici in una cattiveria, in una malvagità, in una cultura di morte così profonda e viscerale, da chiamare in causa non solo il lato oscuro della psiche umana, ma anche una ideologia intrinsecamente perversa, per la quale il valore della persona umana è pari a zero e la sola cosa che conta sono le magnifiche sorti e progressive del popolo lavoratore, il cosiddetto proletariato.

Ne avevano parlato, di quelle stragi ingiustificate e ingiustificabili, sono alcuni studi di parte fascista, o ex fascista; ma quando mai i libri, pur documentati, di Giorgio Pisanò o di Marco Pirina sono giunti a perforare la corazza del silenzio ufficiale e a raggiungere il vasto pubblico? E così è stato anche per quelli di Antonio Serena: trattandosi di un parlamentare di destra, poi passato alla Lega e infine del tutto indipendente, le sue opere meritorie non sono valse ad accendere un vero e proprio dibattito nazionale, tale da interrogare la coscienza dell’intero popolo italiano. Perché ciò accadesse, era necessario che qualche crepa si aprisse sul fonte del politicamente coretto, cioè della cultura progressista, marxista e debitamente antifascista: solo essa aveva le credenziali a posto per parlare di un tale argomento. Altrimenti, era automatico che si trattava di "denigrazioni", di "travisamenti", di "revisionismi", termine, quest’ultimo, a lungo adoperato con una connotazione infamante, per designare chi, pur trovandosi dalla parte "sbagliata" della storia, ha l’assurda pretesa di cambiare il giudizio della storia stessa (come se la storia fosse un tribunale che emette le sentenze…) e di gettare delle ombre sulla parte "giusta", la quale invece, per definizione, è santa e intoccabile. E allora, ecco i primi, timidi e reticenti dibattiti sulle foibe, che riguardavamo, peraltro, il movimento di resistenza jugoslavo; poi ecco il Chi sa, parli! dell’ex partigiano comunista, nonché deputato, Otello Montanari; ecco lo storico Claudio Pavone che osa parlar apertamente di "guerra civile" e non più solo di "Resistenza" e che pone sul tappeto la questione della moralità di quel che accadde nell’Italia centro-settentrionale dopo l’8 settembre del 1943 e sino alla fine della guerra (ed oltre); ecco i libri, fortunatissimi, di Giampaolo Pansa, che in forma romanzata riprendevano gli studi pionieristici dei Pisanò, dei Pirina, dei Serena, e li rendevano accettabili al grande pubblico, appunto perché venivano da un giornalista dichiaratamente di sinistra, mentre in caso diverso non sarebbero stati accettati, non avrebbero trovato un grosso editore disposto a pubblicarli e non avrebbero dato vita a un dibattito di ampie proporzioni sul lato oscuro della tanto decantata Resistenza.

Perché il punto è proprio questo. Se gli uomini della Resistenza, anzi, per dir meglio, se i partigiani comunisti, erano stati capaci di ammazzare qualcosa come 30.000 persone inermi (cifra peraltro largamente ipotetica, e che potrebbe essere assai superiore), fra cui anche donne e bambini, a guerra ormai finita, quando i vinti avevano consegnato le armi e si erano arresi con la promessa di aver salva la vita, e non sussisteva alcuna necessità, né alcun pretesto di carattere militare che rendesse problematica la loro custodia; se la gran parte di essi vennero passati per le armi senza alcun processo, o con dei processi-farsa di pochi minuti, e dopo sentenze che condannavano a morte anche degli innocenti, delle persone capitate lì per caso, dei militari e dei civili che non avevano alcuna colpa specifica, tranne quella di aver creduto nel fascismo (ad esempio, delle maestrine che avevano avuto l’orrenda colpa di dettare agli alunni un testo di elogio per il Duce, magari dopo la conquista dell’Impero, fatto che aveva inorgoglito perfino molto antifascisti e uomini di sinistra); e se c’erano stati dei partigiani che si erano divertiti a cavare gli occhi ai prigionieri, a trafiggerli con degli spilloni, a strappare le unghie alle loro vittime, a spellarle vive e a sbudellarle, per poi richiudere il ventre con un lucchetto e proseguire con le sevizie, a gettarle nelle grotte o nelle fosse ancora vive, e altri che avevano violentato le donne "fasciste" più e più volte, prima di sopprimerle, e altri ancora che si erano servito della falsa accusa di spionaggio a favore del tedesco invasore per rapinare case, negozi, risparmi privati, e aver poi l’impudenza di pavoneggiarsi per le vie dei paesi indossando, loro e le loro donne, i gioielli delle vittime, e ostentando di colpo una ricchezza mai conosciuta, quando tutti li sapevano di estrazione sociale modestissima: ebbene, a quel punto bisognava e bisogna chiedersi cosa fu davvero la Resistenza. Perché è evidente che la versione ufficiale, che le stragi dell’aprile e del maggio 1945 (proseguite, in realtà, per circa tre anni, sia pure in scala ridotta e per così dire più discreta) fecero più morti di quanti ne abbia fatti la lotta sul campo; se le sofferenze della popolazione furono dovute anche ad atti irresponsabili e cinicamente pianificati dai quadri del Pci, come l’attentato di via Rasella, fatti al preciso scopo di provocare una rappresaglia tedesca, la più sanguinosa che fosse possibile; se, infine, i partigiani comunisti italiani avevano collaborato con quelli jugoslavi i quali, a loro volta si macchiarono dell’ecidio di migliaia di cittadini italiani, la maggior parte dei quali colpevoli non di essere fascisti, ma di essere italiani di Trieste, di Gorizia, dell’Istria, del Carso, di Fiume, di Zara e della Dalmazia: allora è tutto il paradigma resistenziale che deve essere rivisto, perché non si tratta più di episodi secondari e condannabili, sì, ma non tali da inficiare il valore morale complessivo della "lotta di liberazione", bensì della conclusione, a suo modo coerente, di una guerra di classe condotta con odio implacabile, e diretta non solo contro i fascisti, ma contro i podestà, i prefetti, i preti (che furono ammazzati a centinaia), i piccoli proprietari, gli uomini dei carabinieri e della polizia, e insomma tutti quelli che sarebbero stati di ostacolo al vero obiettivo della guerra civile. Che non era certo l’instaurazione della libertà e della democrazia, ma di una forma di comunismo militarizzato, come avveniva in tutti i Paesi d’Europa che ebbero la sventura di cadere nell’orbita dell’Armata Rossa di Stalin e come i comunisti italiani speravano ardentemente e fiduciosamente che sarebbe accaduto anche per il nostro Paese.

Scriveva Bruno Vespa nel suo libro Vincitori e vinti a proposito della strage della cartiera di Mignagola (Treviso), condotta dai partigiani comunisti sotto la guida del comandante "Falco", al secolo Gino Simionato da Sambughé di Preganziol, che produsse qualcosa come 300 0 400 morti, tutti orrendamente seviziati e torturati prima di essere uccisi (RAI/Eri-Mondadori, Roma e Milano, 2005, pp. 172-174):

Il numero delle persone uccise nella cartiera è vicino a quello delle vittime delle Fosse Ardeatine, la strage più orribile — con Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema — compiuta dai nazisti. Il comandante Falco ha responsabilità analoghe a quelle di Erich Preibke, che, su ordine di Kappler, organizzò la strage delle Fosse Ardeatine. Con una differenza, però: Priebke, che aveva fama di essere un nazista fanatico, obbedì a un ordine infame, Falco gli ordini li dette. Priebke, arrestato soltanto nel 1994, a 81 anni, e condannato all’ergastolo a furor di popolo nel 1998 dopo due sentenze più miti, non torna libero nonostante l’età avanzatissima (92 anni) perché il sentimento sociale non lo consente. Al punto che nell’agosto 2005 gli è stato impedito (Lega e sinistra d’accordo) un breve soggiorno- sempre agli arresti domiciliari e sotto sorveglianza dei carabinieri — a Cardana di Besozzo (Varese), nella villa di collina, affacciata sul lago Maggiore, che appartenne a Herman Bickler, capo della Gestapo di Parigi negli ultimi anni della guerra [è morto l’11 ottobre 2013, dopo aver ottenuto, dal 2007, gli arresti domiciliari e, dal 2009, il permesso di uscire qualche ora alla settimana, scortato, per fare la spesa e recarsi alla Messa, essendo un fervente cattolico].

So bene che toccare questi temi è molto scivoloso, perché la Storia della Resistenza — quella con la maiuscola — ci ha insegnato che da una parte stava il Male e dall’altra il Bene. Ma se, a sessant’anni di distanza, cerchiamo di fare i conti con la nostra coscienza civile, dimentichiamo per un momento chi era nazista, chi fascista e chi comunista, e mettiamo a confronto gli orrori. L’orrore di chi mette al muro 335 innocenti e li fucila, e chi uccide un numero simile di individui — che avevamo l’unica colpa di essere stati fascisti, senza nessun addebito di merito, badate, salvo qualche eccezione — dopo averli torturati nel più atroce e fantasioso dei modi.

Non ci scandalizziamo, infatti, se tra le vittime di Falco c’è stato Gaetano Collotti, un giovane commissario di polizia a capo di una squadra della Rsi di Trieste che dava la caccia ai partigiani slavi nella Venezia Giulia. Noto come torturatore delle vittime e ladro dei preziosi che queste portavano addosso, fu catturato dagli uomini di Falco mentre cercava di scappare. Lo riconobbe un partigiano triestino, Pietro Slocovich, che lo riteneva depositario di molti segreti che riguardavano la lotta partigiana su quel fronte. Slocovich suggerì di tradurlo a Trieste, di processarlo e di fargli confessare tutti i piani repressivi che erano stati messi in atto dai fascisti e dai nazisti in quella zona, ma gli uomini di Falco lo fucilarono. È comprensibile che in quei momenti prevalesse il parere di chi non andava tanto per il sottile.

Collotti, però, non viaggiava solo. Secondo un testimone era in compagnia di sei persone, secondo un altro di dieci. Gli altri non furono mai identificati, tranne — molti anni dopo — uno, ufficiale di Pubblica Sicurezza. Le testimonianze concordano sul fatto che nel gruppo ci fosse una donna incinta di otto mesi, forse fidanzata di Collotti. I partigiani avrebbero potuti uccidere soltanto lui, se fargli un processo regolare era una perdita di tempo. Ma che c’entravano gli altri? E lei? E il suo feto di otto mesi, le cui ossa furono trovate anni dopo tra quelle della madre? E le altre centinaia di vittime? Perché nessuno ne ha mai parlato? Perché i libri di testo non insegnano ai giovani che se certi nazisti e certi fascisti erano belve umane, beve (e che belve!) cui furono pure dall’altra parte?

Quando nel 1977 Herbert Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine, fuggì dall’ospedale militare del Celio dopo trent’anni di carcere, il ministro della Difesa Vito Lattanzio dovette dimettersi per l’indignazione generale. Del suo socio Priebke abbiamo detto. Walter Reder, l’ufficiale tedesco responsabile delle stragi peggiori, da Marzabotto a Sant’Anna di Stazzema (anche qui furono uccisi bambini piccolissimi), è uscito dal carcere di Gaeta dopo quaranta sacrosanti anni di carcere. A questo punto valutate Falco come credete e assegnategli moralmente la pena che vi pare più equa. Sapete quanti anni di prigione s’è fatto? Nessuno. Nemmeno un giorno. Egli vive tuttora e continua a confrontarsi (speriamo) con la propria coscienza in un paese del Piemonte [è morto il 17 aprile 2004; in realtà era stato in carcere dal 1946 al 1954, ma non per il massacro di Mignagola, bensì per l’assassinio di un fascista, Antonio Chinellato, e per furto; nota nostra].

Ecco la sentenza di proscioglimento pronunciata dal giudice istruttore di Treviso il 24 giugno 1954, a nove anni dai fatti, nel procedimento penale contro Simionato Gino detto Falco alias Buriccio e ignoti: "Per quanto sia altamente deplorevole la indiscriminazione con cui taluni partigiani o patrioti ebbero a sfogare la mal repressa rabbia, troppo spesso senza accertarsi prima della colpevolezza dei singoli individui rastrellati, fra i quali si trovavano certamente giovani aderenti al movimento contrario non per loro volontà, bensì per necessità o per costrizioni; per quanto ripugni il pensiero che questi ultimi abbiano meritato di avere la vita stroncata, per mere apparenze o presunzioni, alle volte fallaci, resta pur fuori discussione l’intenzione offuscata sia pur da torbide passioni di parte, mirante alla rappresaglia e allo sterminio contro chi direttamente o indirettamente aveva prestato il proprio braccio o la propria mente al servizio del nemico invasore e qui di estranea a ogni motivo o fine di vendetta personale, non politica". Per questo motivo, il giudice istruttore dichiara non doversi procedere a carico degli imputati indicati in epigrafe in ordine ai reati loro rubricati per effetto dell’amnistia.

Nella tortuosità e perfino nella scorrettezza ortografica e sintattica di questa sentenza si legge, in controluce, tutta l’ambiguità di cui furono avvolti, e da cui furono in definitiva protetti, gli ecidi compiuti dai partigiani comunisti a guerra finita. Si vedono in controluce l’imbarazzo e l’impotenza delle autorità dello Stato, incapaci di far rispettare la legge, di rendere giustizia alle vittime. E si intravede quella che sarebbe stata, per settant’anni, e che è tutt’ora, la strategia della cultura ufficiale, e specialmente di quella di matrice marxista: dove non si può negare che le atrocità ci furono, che furono numerose e gratuite, bisogna "contestualizzarle", nel senso di attenuarne l’orrore mediante le circostanze particolari di ordine psicologico e morale in cui si era svolta la guerra civile. Strategia che non gode, ovviamente, della proprietà transitiva: perché nessuno storico progressista, nessun Luciano Canfora, nessun Giorgio Bocca, nessun Roberto Battaglia si è mai sognato di concedere anche ai fascisti, o agli stessi tedeschi, il "beneficio" di ammettere che anch’essi, in certe particolari situazioni, potessero essere esasperati e sollecitati a compiere vendette che andavano oltre la misura del giusto e del lecito, secondo le leggi di guerra. No, loro erano sempre e solo le "belve" nazifasciste: e va da sé che non è il caso d’interrogarsi sulle motivazioni psicologiche o morali di una belva. Il risultato di questa parzialità storiografica, di questo doppiopesismo etico, tipico del resto della cultura politica di sinistra, è che tutti gli studenti d liceo sapevano quali belve sanguinarie fossero gli uomini della banda Koch, e quali bruti capaci di ogni efferatezza fossero gli uomini della X Mas; ma nessuno di loro aveva mai sentito parlare di "Falco", al secolo Gino Simionato, o del "Tigre", al secolo Attilio Da Ros, autore quest’ultimo di una strage del pari esecrabile, e tuttavia nascosta al grande pubblico per più di mezzo secolo: la strage di Oderzo. E tutti gli assassini che imperversarono nelle altre regioni del centro-nord, e specialmente nell’Emilia rossa, ad esempio nel Triangolo della Morte? No, nulla veniva detto ai giovani; nulla dicevano i libri di scuola e nulla dicevano i professori, vuoi perché loro stessi ignoravano quei fatti, voi perché, pur conoscendoli, li ritenevano degli "incidenti" inevitabili, ed erano timorosi che farli conoscere ai giovani avrebbe offuscato la gloria della Resistenza, che doveva splendere imperitura in saecula saeculorum.

Così, fra queste mezze verità e queste spudorate bugie, sono stare cresciute due o tre generazioni di studenti nella Repubblica di Pulcinella: e il risultato è quello che vediamo ora e che abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi, con una sinistra arrogante, che, pur essendo largamente minoritaria nel Paese, pretende di governare, di fare il bello e il cattivo tempo, di prendere decisioni storiche sulla testa del popolo italiano, senza consultarlo e anzi cercando di dargli la parola, cioè il voto, il più raramente che sia possibile.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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