La fede di Teilhard è nel Mondo, più che in Cristo
11 Settembre 2019I diritti umani sono diventati un credo distruttivo
13 Settembre 2019In un precedente scritto, Il "migliore dei mondi possibili" non è perfetto, ma semplicemente quello meno peggiore (pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 25/01/09 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 30/04/18) ci eravamo posti il problema della bontà del mondo quale ci è dato e quale possiamo accettare o rifiutare. Ivan Karamazov, come è noto, lo rifiutava, poiché la presenza del male nel mondo gli appariva un tale scandalo, da indurlo a restituire il biglietto d’ingresso a Dio, e a dissociarsi dalla creazione. In effetti, però, sia restituire il biglietto, il che di fatto è impossibile, sia accettarlo, sono atti della libera volontà e in quanto tali pongono entrambi dei problemi non meno seri di quelli che il rifiuto o l’accettazione, di per sé, vorrebbero, se non risolvere, quanto meno rendere più accettabili.
In questa sede vogliamo fermare l’attenzione su un altro aspetto del problema, risalendo dal mondo all’Autore del mondo, per chiederci, come è legittimo quando l’acqua del fiume risulta inquinata, se l’origine dell’inquinamento si trovi proprio alla sorgente, oppure se si debba collocare in un altro punto del suo corso. In altre parole: se il mondo è cattivo, come può essere che Dio lo abbia fatto tale? E se è buono, come mai tanta sofferenza, tanta imperfezione; e con quale diritto Dio impone un così alto prezzo per il possesso del biglietto d’ingresso? Prezzo che qualcuno, forse non io, ma qualcun altro, dovrà comunque pagare, qui o altrove, oggi o domani; ed era infatti questo che provocava lo sdegno d’Ivan Karamazov: non la sua propria sofferenza, ma la sofferenza degli innocenti, e specialmente quella dei bambini. È a nome loro, per solidarietà verso di loro, che egli voleva restituire il biglietto e dire a Dio: No, grazie, a questi prezzo io non accetto il tuo mondo, anche a costo di non poter poi entrare nel tuo paradiso.
Il filosofo moderno che per primo, e in maniera ampia e completa, ha posto la questione se Dio faccia realmente ogni cosa per il meglio, è stato Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), il quale, nel Discorso di metafisica, ha presentato quel "sistema dell’armonia" che poggia sull’idea di un Dio architetto, autore del migliore dei mondi possibili, che fa di lui uno dei massimi costruttori moderni della teodicea (da: G. W. Leibniz, Saggi filosofici e lettere, Bari, Laterza, 1963):
La conoscenza generale di questa grande verità, che Dio agisce sempre nel modo più perfetto e più augurabile possibile, è, secondo me, il fondamento dell’amore che dobbiamo a Dio al di sopra di tutto: poiché colui che ama cerca la propria soddisfazione nella felicità e perfezione dell”oggetto amato e delle sue azioni. "Idem velle et idem nolle vera amicitia est" ["La vera amicizia consiste nel volere e nel non volere le stesse cose"]. E credo che sia difficile amare bene Dio quando non si sia nella disposizione di volere ciò che Egli vuole se anche si avesse il potere di mutarlo. Infatti coloro che non sono soddisfatti di ciò che egli fa mi sembrano simili a sudditi malcontenti, il cui animo non è molto lontano dalla ribellione. Sostengo dunque che (…) per agire conformemente all’amor di Dio non basta sopportare con forza, ma bisogna essere veramente soddisfatti di tutto ciò che ci accade secondo la sua volontà. Questa accettazione la intendo riferita al passato. Quanto all’avvenire, (…) non si deve essere quietisti, e attendere ridicolmente a braccia conserte ciò che Dio farà, secondo quel sofisma che gli antichi chiamavamo ragione pigra; ma si deve agre secondo la volontà presuntiva di Dio, per quanto noi possiamo giudicare, cercando con tutte le nostre forze di contribuire al bene generale, e in particolare all’ornamento e alla perfezione di ciò che ci riguarda, di quanto ci è vicino, o, per dir così a portata di mano. Quando poi l’evento ci abbia fatto vedere, poniamo, che Dio non ha voluto presentemente che la nostra buona volontà avesse effetto, non ne segue che non volesse che noi facessimo ciò che abbiamo fatto: al contrario, poiché Egli è il migliore di tutti i padroni, non domanda altro che la retta intenzione; spetta poi a lui conoscere l’ora e il luogo adatti a far riuscire i buoni progetti. (…)
Basta dunque avere questa fiducia in Dio; che Egli fa tutto per il meglio, e che nulla può nuocere a coloro che l’amano; ma conoscere in particolare le ragioni che possono averlo spinto a scegliere quest’ordine dell’universo, a tollerare i peccati, a dispensare le sue grazie salutari in un determinato modo, è cosa che supera le forze di uno spirito finito, soprattutto quando non sia ancora giunto al godimento della vista di Dio. Si può, tuttavia, fare qualche osservazione generale intorno alla condotta della provvidenza nel governo delle cose. Si può dire che chi agisce perfettamente è simile a un eccellente geometra, che sa trovare il modo migliore per costruire un problema; o a un buon architetto, che si serve del terreno e del capitale destinato all’edificio nel modo più vantaggioso, senza lasciar nulla che urti, o che sia privo di tutta la bellezza di cui è capace; o a un buon padre di famiglia, che impieghi i suoi beni in modo che non vi sia nulla d’improduttivo o di sterile; o a un abile meccanico, che raggiunge il suo scopo con il mezzo più semplice che si possa trovare; e, ancora, a un autore sapiente che racchiude la massima quantità di realtà nel minor volume possibile. Ora, gli esseri più perfetti tra tutti, e che occupano il minor volume, sono gli spiriti; e le loro perfezioni sono le virtù. Sicché non si deve dubitare che la felicità degli spiriti non sia lo scopo principale di Dio, e che gli non la ponga in opera, tanto quanto l’armonia generale glielo permette. (…) Per quello che riguarda la semplicità delle vie di Dio, essa concerne propriamente i mezzi; mentre la varietà, ricchezza e abbondanza concernono i fini o gli effetti. L’una cosa deve controbilanciare l’altra, come le spese destinate a un edificio devono essere proporzionate alla grandezza e bellezza che si richiedono. È verissimo che l’operare non costa nulla a Dio, ancor meno che a un filosofo che formuli ipotesi per fabbricare nj suo mondo immaginario perché Dio non ha che da formulare decreti per far nascere un mondo reale; ma, in fatto di saggezza, i decreti o le ipotesi fanno le veci di spese, tanto più forti quanto pi sono indipendenti gli uni dagli altri. La ragione, infatti, vuole che si eviti la molteplicità delle ipotesi o dei principi, (…) come nella regola per cui il sistema più semplice è sempre preferito in astronomia. (…) Così possiamo dire che in qualsiasi modo Dio avesse creato il mondo, questo sarebbe sempre stato regolare, e racchiuso in un certo ordine generale. Ma Dio ha scelto il più perfetto, (…) quello che è, al tempo stesso, più semplice quanto a ipotesi, e più ricco di fenomeni: come potrebbe essere una linea geometrica la cui costruzione sia facile, e le cui proprietà ed effetti molo interessanti ed estesi. Mi servo di questi paragoni per dare uno schizzo imperfetto della saggezza divina, (…) ma con ciò non pretendo di spiegare questo grande mistero da cui dipende tutto l’universo.
Anche se la similitudine del geometra e quella dell’architetto risentono del clima razionalista dominante all’epoca in cui Leibniz scriveva queste righe (e quella dell’architetto, specialmente, ha un particolare sentore di massoneria, che può infastidire un buon cristiano), la sostanza del ragionamento pone in maniera chiara e coerente le basi di una solida teodicea (letteralmente: giustizia di Dio). Il male non è essenziale alla creazione, ma incidentale: è una conseguenza della libertà del volere, che è, a ben guardare, l’ornamento più bello di cui la natura umana sia dotata, senza la quale gli uomini non sarebbero altro che dei burattini di lusso nelle mani di Dio. Ma se la libertà del volere implica la possibilità del volere il male, quella del volere il bene (ad esempio la felicità) però nella maniera sbagliata, ciò non inficia minimamente la bontà del mondo così come Dio lo ha creato. Avrebbe potuto crearne uno migliore? No: questo è il migliore dei mondi possibili, tenendo conto dei suoi due limiti intrinseci: ontologico e morale. Il limite ontologico è determinato dal fatto che nessuna cosa creata può essere più perfetta del suo creatore, altrimenti si cadrebbe in una evidente contraddizione di ordine logico: ciò che viene prodotto non può risultare più perfetto della causa che lo ha prodotto. Il limite morale è determina dal libero arbitrio: la libertà di scelta implica necessariamente la possibilità di scegliere anche il male, vuoi per una volontà intrinsecamente malvagia, vuoi per ignoranza (Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno, sono le parole rivolte da Gesù Cristo al Padre suo, mentre lo stanno inchiodando alla croce). Come già aveva visto con chiarezza sant’Agostino, il male, come principio assoluto, non esiste: è solo una deficienza di bene.
E tuttavia, è impossibile negarlo, da questo quadro rassicurante, e perfettamente razionale sul pano della logica, perché Dio non può essere che il Bene, e dunque non può fare che cose buone, anzi ottime, resta fuori qualcosa: una insoddisfazione, un’inquietudine che non si riesce ad allontanare del tutto, per quanto il ragionamento filosofico sia impeccabile. Il fatto è che nell’essere umano non c’è solo la dimensione logica; c’è anche, e anteriormente ad essa, la dimensione intuitiva. E noi, intuitivamente, sentiamo che le cose non sono come dovrebbero essere; che il mondo dovrebbe essere buono e invece, spesso, non lo è; e la cosa ci lascia amareggiati, frustrati, sgomenti. Ne abbiamo già parlato nell’articolo La tristezza è che non dovremmo essere qui (pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 29/08/19) e, per un altro verso, nell’articolo O accettare lo scandalo della sofferenza o impazzire (del 15/09/19), arrivando alla conclusione che proprio il rifiuto della sofferenza e del male è alla radice della coscienza infelice della società moderna, che ha portato gli uomini letteralmente in un vicolo cieco. Ci sembra comunque di dover spendere qualche altra parola su tale questione, che è di fondamentale importanza per la nostra vita, sia come singoli individui, sia come membri di una comunità che parte dalla famiglia e, per cerchi concentrici, si allarga fino ad abbracciare l’umanità intera. Ammettiamolo: la presenza del male e della sofferenza, non solo la nostra, ma, come avveniva per Ivan Karamazov, anche quella degli altri, delle persone care, ad esempio, e quella degli innocenti, ci turba oltre misura, ci impedisce di trovar pace. La sentiamo come qualcosa d’inaccettabile; come un sfregio alla creazione, un insulto al nostro senso della giustizia. Ma qui dovremmo sempre tener presente la giusta osservazione di Leibniz: le menti finite non possono penetrare sino al fondo della Mente Infinita; noi non possiamo comprendere tutto, anzi, diciamo pure che possiamo comprendere solo una minima parte, e in maniera assai imperfetta, quel che Dio fa e perché lo fa: per il resto dobbiamo fidarci di Lui, proprio come un bambino che si fida di suo padre, e abbandonarci alla sua Volontà non meno che al suo Amore. Come scrive Dante nel Purgatorio (III, 34-39): Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone. / State contenti, umana gente, al quia; / ché se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria…
È ben per questo, cioè perché senza l’umiltà non ci si può porre nella giusta relazione né con Dio, né col mondo, che Gesù raccomanda di farsi piccoli (Mt. 18, 3-4): In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E mette in guardia contro il pericolo della superbia (Mt .11, 25-27): Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. Il che significa che la comprensione della Verità, e quindi anche la sua accettazione, è un dono gratuito di Dio: nessuno può arrivarci se non attraverso di Lui e con il Suo aiuto. Lo scandalo del male e della sofferenza degli innocenti non viene tolto, non viene abolito, ma viene trasfigurati e superato dalla grazia divina che solleva le piccole e limitate menti finite sino alle soglie di quello che Leibniz, pur essendo un filosofo razionalista, non esita a chiamare un profondo mistero: non pretendo di spiegare questo grande mistero da cui dipende tutto l’universo. Questo è il sano atteggiamento della creatura nei confronti del creatore; altro che restituire il biglietto: chi mai è l’uomo per giudicare Dio? L’uomo consapevole del proprio limite ontologico, invece di ergersi a giudice delle opere di Dio e stracciarsi le vesti per lo scandalo del male, dovrebbe fare quel che fa Giobbe davanti al Signore, e dire con lui (42, 2-3): Comprendo che puoi tutto / e che nessuna cosa è impossibile per te. / Chi è colui che, senza aver scienza, / può oscurare il tuo consiglio? Del resto, Dio ha fatto qualcosa di meglio che spiegare agli uomini il mistero del male: lo ha preso su di sé, e ciò dopo aver assunto la natura umana, quindi con tutta l’umana fragilità. Il Cristo sofferente, insultato, crocifisso, è la risposta che Dio ha dato, una volta per tutte, ai nostri dubbi e alla nostra inquietudine. È una riposta che tiene conto del nostro limite ontologico, ossia della nostra impossibilità di capire sino in fondo. Cristo crocifisso è uno scandalo così grande da far impallidire lo scandalo del male e del dolore umano. Ma dopo la Passione e la Morte, viene la Resurrezione…
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