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Da Tutankhamon ai Rotschild a Balfour

Che cosa c’entra Tutankhamon, o meglio cosa c’entra la clamorosa scoperta del sarcofago contenente la sua mummia, il 4 novembre 1922, con il sionismo, con la ricchissima e potente e famiglia ebraica dei banchieri Rotschild, e questa, a sua volta, con la Dichiarazione Balfour, lo stupefacente documento del 2 novembre 1917 col quale il governo della Gran Bretagna, allora impegnato al massimo nello sforzo della Prima guerra mondiale, per mezzo del suo ministro degli Esteri, Lord Arthur Balfour, dichiarava al barone Lionel Walter Rotschild, un privato cittadino promosso, all’uopo, alla statura d’un capo di stato in pectore, di voler assicurare agli ebrei "un focolaio nazionale" in Palestina, di fatto promettendo qualcosa che non gli apparteneva perché la Palestina, abitata da arabi, era parte dell’Impero ottomano? Sembrerebbero cose e situazioni lontanissimi fra loro, specie il primo rispetto agli altri due. Che il barone Rotschild fosse tanto ricco e tanto importante, in una Gran Bretagna impegnata nella lotta a morte contro la Germania, da attirare l’attenzione del governo britannico sia per averne il sostegno finanziario, sia per ottenere il sostegno politico degli ebrei viventi sotto la bandiera dell’Union Jack, che allora trionfalmente garriva su quasi un terzo delle terre emerse, è una cosa che si può capire abbastanza facilmente. E che una parte del mondo ebraico, allora infiammata d’entusiasmo per l’idea sionista — una parte, e non quella maggioritaria — non chiedeva di meglio che stabilire relazioni ad alto livello con esponenti del governo (era ancor vivo, dopotutto, il ricordo della lunga e prestigiosa esperienza di un primo ministro ebreo, Benjamin Disraeli, sotto il regno della regina Vittoria) per strappare qualche formale concessione circa la futura patria degli ebrei, da ricostituire nella terra dei loro padri, la Terra Promessa, appunto, è cosa anch’essa facile da capire. Ma che dire del faraone egizio Tutankhamon, della XVIII dinastia, che regnò sulla terra del Nilo nella seconda metà del XIV secolo a. C. e il cui regno brevissimo e scialbo succedette a quello ben altrimenti prestigioso di, Akhenaton, che forse era suo padre, il quale aveva tentato di attuare una radicale riforma religiosa, sostituendo le vecchie divinità con il culto monoteista di Aton?

Diversi egittologi hanno sospettato, da Champollion in poi, che esista una relazione fra il tentativo di riforma religiosa di Akhenaton e il sorgere del monoteismo ebraico, il solo monoteismo a noi noto del mondo antico, destinato ad avere così importanti ripercussioni indirette a livello mondiale, prima attraverso il cristianesimo, poi attraverso l’islamismo; tanto più che l’epoca del regno di Akhenaton coincide, più o meno, con quella in cui si colloca la figura e l’opera di Mosè, il fondatore del giudaismo antico, quello della Torah (mentre il giudaismo post-biblico fa perno sul Talmud ed è quindi sostanzialmente diverso, sia in senso storico che in senso morale, profetico ed escatologico). E non solo gli egittologi, ma un po’ tutti gli studiosi i quali, per un motivo o per l’altro, si sono trovati alle prese con il "mistero" rappresentato dall’opera di Akhenaton da un lato, e con l’altro mistero costituito dalla figura sfuggente, e nondimeno decisiva, di Mosè, per la formazione dell’ebraismo sia come religione, sia come coscienza nazionale di un popolo. Sigmund Freud, ad esempio, che pur essendo ebreo era spassionato in quanto ateo, non esitava ad affermare, pur non potendo provarlo e, del resto, ciò esulando dal suo campo, che il "candidato" ideale per la nascita del monoteismo mosaico era appunto Akhenaton, il faraone riformatore in senso monoteista o, per esser più precisi, enoteista. Un termine, quest’ultimo, coniato dal filosofo, linguista e storico delle religioni tedesco Max Müller (1823-1900) per indicare una religione in cui vi è un dio che prevale largamente, soprattutto nel culto, su tutti gli altri, che pure non vengono negati, per cui si può considerare come una "tappa" intermedia fra il politeismo e un monoteismo vero e proprio. Mosè, d’altra parte, è il fondatore, in un certo senso, non solo della religione ebraica, ma del popolo ebreo: prima di lui essendo la coscienza di esso alquanto debole, dopo la lunga permanenza in Egitto e la probabile assimilazione di molti usi e costumi propri di quella civiltà.

La questione è resa più complessa dal fatto che lo stesso Mosè è una figura storicamente incerta e, secondo molti studiosi, leggendaria, a dispetto del fatto che sia per l’ebraismo, sia per il cristianesimo, egli sia un personaggio ben definito e anzi di capitale importanza per tutti gli sviluppi futuri della storia d’Israele. Ma che succerebbe se saltasse fuori un documento storico attestante che il popolo ebreo semplicemente non esisteva, nei termini in cui viene descritto nella Bibbia, e che neppure l’Esodo si svolse nel modo che tutti credono di sapere, ossia come conquista militare, bensì fu una lenta e sostanzialmente pacifica infiltrazione, con relativa mescolanza fra i nuovi arrivati e i vecchi abitanti, il tutto nel quadro delle migrazioni dei cosiddetti Popoli del Mare, che tanti problemi causarono al regno egiziano all’epoca di Ramses II e poi, ancora, durante quello di Ramses III? Ebbene, c’è chi ipotizza che un tale documento storico esista; che fosse contenuto in alcuni papiri che erano posti nella camera funebre di Tutankhamon; che i due scopritori della tomba, l’archeologo inglese Howard Carter (1874-1939) e il quinto conte di Carnarvon, George Herbert (1866-1923), che era il suo finanziatore, eseguirono una prima ricognizione, segreta e perciò illegale, qualche giorno prima della scoperta "ufficiale", il 4 novembre 1922, durante la quale trovarono e nascosero i papiri, sottraendoli deliberatamente alle autorità egiziane avendone compreso il significato dirompente.

Hanno scritto Andrew Collins e Chris Ogilvie-Herald nel libro, da loro scritto a quattro mani, La cospirazione di Tutankhamen. La "vera storia" dell’esodo degli Ebrei (titolo originale: Tutankhamun, London, Virgin Books, 2002; traduzione dall’inglese di Margherita Fusi, Roma, Newton Compton Editori, 2005, pp. 348-349):

In seguito alla morte di Lionel [de Rotschild] nel 1879, suo figlio maggiore Nathaniel "Natty" Mayer de Rotschild (1840-1915) prese il controllo della N. M. Rotschild and Sons [la banca di famiglia, situata nella City londinese]. Tramite l’intervento del suo amico e collega Disraeli [il primo premier ebreo della Gran Bretagna], con cui si associò nell’acquisto di quote del Canale di Suez, la regina Vittoria accettò di concedergli il titolo di Pari, facendo di lui Lord Rotschild. Natty fu per quarant’anni un importante predicatore laico anglo-ebraico, oltre al direttore della Banca d’Inghilterra; fu inoltre membro liberale del parlamento e, in qualità di membro della Commissione Reale per l’Immigrazione. Lottò duramente per lasciare aperte le frontiere agli ebrei russi in cerca di asilo in Gran Bretagna. Natty, tuttavia, non era sionista, e mise bene in chiaro che avrebbe "visto con orrore l’insediamento di una colonia ebraica pura e semplice" (in Palestina)".

Nathaniel aveva due fratelli, Leopold, il minore, e Alfred, padre di Lady Almina, contessa di Carnarvon. Alfred rimase scapolo, presumibilmente a causa della sua lunga storia d’amore con Marie Wombwell. Anche se era partner della N. M. Rotschild and Sons, era più interessato alla vita artistica, sociale e sportiva, e n base a tutti i racconti era un esteta e un dandy. I sontuosi banchetti di Alfred a Seamore Place e ad Halton, la sua tenuta di campagna nel Buckinghamshire erano leggendari nei circoli della società. Inoltre, egli teneva una propria orchestra e un circo, per i quali era famoso. Pare che la sua esibizione per intrattenere gli ospiti alle feste fosse quella do fermare il traffico per strada guidando una carrozza trainata da quattro zebre! Col fratello minore Leopold possedeva anche dei cavalli da corsa, che gareggiavano con i colori blu e ambra dei Rotschild.

Parerebbe che né Alfred né Leopold fossero particolarmente convinti della causa sionista, anche se lo stesso non si poteva dire del figlio maggiore di Nathaniel, Lionel Walter (1868-1937) il quale, pur volendo fare il naturalista, fu convinto dal padre ad entrare nella vita della banca, del commercio e della politica. Soltanto in seguito ebbe modo di seguire i suoi interessi di carattere scientifico e, alla morte del padre nel 1915, divenne il secondo Lord Rotschild.

Come narra la storia, fu a Lionel Walter de Rotschild che fu indirizzata la Dichiarazione Balfour; questi era sionista fino al midollo e lavorò assiduamente al fianco di Chaim Weizmann per la firma di questo documento storico. Durante la celebrazione di questo evento eccezionale alla Covent Garden Opera House il 2 dicembre 1917, sia Walter che James, figlio del barone Edmond de Rotschild, presentarono dei discorsi assai commoventi. Walter disse al pubblico che si trattava del "più grande evento avvenuto nella storia ebraica negli ultimi milleottocento anni", mentre James dichiarò che il "governo britannico aveva ratificato lo schema sionista".

Malgrado l’importanza rivestita da Walter nella storia sionista, fu il suo fratello minore Nathaniel Charles (1877-1923) che prese il controllo della M. N. Rotschild and Sons. Anche se non era destinato a svolgere un ruolo attivo nella causa, dal momento che soffriva di depressione e rifuggiva la vita londinese, si incontrò con Weizmann e fu con lui assai solidale. La moglie di Nathan, Rozsika ("Jessica") fu più attivamente coinvolta nel sionismo e svolse un ruolo importante nell’aiutare Weizmann e i suoi colleghi ad incontrare inglesi influenti ed esporre loro le proprie idee.

Stando alle parole di Chaim Weizmann, la casata dei Rotschild costituiva "forse la famiglia più importante della storia ebraica dell’esilio", anche se sull’argomento del sionismo eramo estremamente divisi. In ogni caso, dal coinvolgimento del barone Edmond de Rotschild e di suo figlio Lionel Walter de Rotschild, la famiglia incise molto sul successo del sionismo. Non vi sono dubbi sul fatto che, tramite l’influenza del suo sistema bancario internazionale, questa casata dei Rotschild si sia ritrovata a trarre un non esiguo beneficio finanziario e politico dal raggiungimento del suo ultimo scopo, l’istituzione di una patria nazionale ebraica in Palestina. Lo steso può dorsi del governo britannico che rischiò la propria rpeutazione ottenendo il Mandato per la Palestina tramite la forma della Dichiarazione Balfour. Con la definitiva istituzione dello stato ebraico, poteva attendere un partner forte che lo avrebbe aiutato a portare stabilità in Medio Oriente oltre che ad appoggiare i propri interessi nelle zone petrolifere di Iraq e Arabia, e alo stesso tempo assicurarsi le vie commerciali verso l’India. Ogni tentativo di sviare gli obiettivi a lungo termine del governo britannico in quest”area sarebbero stati considerati una fondamentale minaccia alle sue politiche estere nel Vicino e Medio Oriente.

E adesso torniamo alla Dichiarazione Balfour, premessa per la nascita dello Stato d’Israele il 14 maggio 1948. Theodor Herzl e Max Nordau avevano fondato il movimento sionista al Congresso di Basilea del 1897. Nel 1902 il ministro inglese delle colonie, Joseph Chamberlain, aveva offerto agli ebrei britannici la possibilità di avere una patria in Uganda, allora parte dell’Africa Orientale Britannica, ma l’offerta venne rifiutata, dopo una vivace discussione, dal congresso sionista del 1903. Al primo ministro conservatore Lord Balfour, che voleva sapere il perché di quel rifiuto, l’autorevole esponente del movimento sionista Chaim Weizmann, un ebreo russo stabilitosi a Manchester come professore di chimica, domandò: Se vi offrissero Parigi al posto di Londra, voi inglesi l’accettereste? Balfour aveva obiettato che Londra era già inglese, e Weizmann aveva a sua volta replicato: Gerusalemme era nostra quando Londra era solo una palude. Convinto da tale argomento e conquistato alla causa sionista, Balfour, segretario agli Esteri nel 1917, fece, a nome del governo presieduto da Lloyd George, la nota Dichiarazione, indirizzandola al barone Rotschild in quanto rappresentante di spicco della comunità ebraica britannica. Come già detto, la Palestina era una provincia dell’Impero turco e la guerra, alla fine del 1917, era tutt’altro che vinta, anche se il 9 dicembre il generale Allenby era riuscito a conquistare Gerusalemme: Balfour aveva promesso la pelle dell’orso prima di averlo ucciso. Bisognava innanzitutto vincere la guerra, e il solo modo certo era quello di trascinarvi gli Stati Uniti d’America, sino allora contrari ad intervenire. Per convincere il presidente Wilson, che aveva promesso ai suoi elettori di tenere l’America fuori dal conflitto, si misero all’opera il giudice ebreo L. D. Brandeis, capo del sionismo americano e allora giudice associato della Corte Suprema, e il colonnello E. M. House, il più stretto consigliere del presidente, a sua volta convinto sostenitore della causa sionista. In altre parole, le pressioni su Wilson per convincerlo a dichiarare guerra alla Germania ebbero la centrale operativa negli ambienti sionisti americani, perché solo l’intervento americano avrebbe permesso di tradurre in realtà il sogno di una patria ebraica in Palestina. Infatti la Dichiarazione Balfour fu resa pubblica solo dopo che il colonnello House ne ebbe preso visione e l’ebbe approvata, il 16 ottobre 1917, per conto di Wilson. Come riuscirono, Brandeis e House, a persuasore il presidente a entrare in guerra, visto che né l’affondamento del Lusitania da parte dei sommergibili tedeschi, né quello di altre navi con passeggeri americani a bordo, erano stati sufficienti? E, soprattutto, come lo convinsero a dare il suo benestare al "focolare nazionale ebraico" in Palestina, ipotecando il futuro di una regine abitata prevalentemente da arabi, lui così ligio al principio di nazionalità, come si sarebbe visto alla Conferenza di Versailles? Forse non lo sapremo mai; così come difficilmente sapremo con quali argomenti i sionisti francesi, in accordo coi loro compagni di fede britannici e americani, convinsero il governo di Parigi a rinunciare alle sue pretese su una parte della Palestina, la Galilea, rinuncia sancita con una modifica all’accordo Sykes-Picot del 16 maggio 1916 che lasciava l’intera Palestina a una futura amministrazione britannica, e in compenso assicurava alla Francia la Siria e il Libano. Sappiamo, tuttavia, che erano favorevoli al progetto sionista di creare uno stato ebraico in Palestina non solo Lloyd George e Lord Balfour ma anche Winston Churchll e, guarda caso, Mark Sykes, il negoziatore della spartizione del Vicino Oriente fra Gran Bretagna e Francia; e sappiano che la famiglia Rotschild aveva i suoi esponenti sparsi sia in Francia, sia in Inghilterra e sia negli Stati Uniti.

Dicevamo che esistono voci e indizi, ma non prove certe, che Howard Carter e Lord Carnarvon abbiano rinvenuto dei papiri dal contenuto "politico" alquanto scottante nella camera funeraria di Tutankhamon, nel novembre del 1922. A quell’epoca, la guerra era finita da quattro anni con la vittoria dell’Intesa, sostenuta dagli Stati Uniti; il Vicino oriente era stato spartito tra inglesi e francesi, come segretamente convenuto (e all’insaputa degli arabi) e in Palestina stava nascendo il primo embrione di un più vasto, futuro insediamento; gli arabi, naturalmente, e non solo gli arabi palestinesi, ma tutti gli arabi e specialmente gli egiziani, erano decisamente scontenti a causa degli insediamenti ebraici e della posizione assunta apertamente dal governo di Sua Maestà britannica. Se quei papiri, prudentemente tenuti nascosti, anche perché erano stati trafugati illegalmente, fossero stati resi di pubblico dominio, avrebbero avuto l’effetto di gettare benzina sul fuoco dello scontento dei nazionalisti arabi, perché da essi sarebbe emerso che gli ebrei pretendevano di ricostituire in Palestina una "patria" che, in effetti, non avevano mai avuto, o almeno non nei termini in cui essi la presentavano al mondo intero (si ricordi il colloquio svoltosi fra Weizmann e Balfour nel 1906). Lord Carnarvon — il quale, com’è piccolo il mondo!, aveva sposato una figlia illegittima di Alfred Rotschild, la bellissima Almina, che gli aveva portato una dote di 500.000 sterline, più altre 150.000 a copertura dei suoi precedenti debiti, somme che gli avevano permesso di finanziare le ricerche di Carter — era morto, invero assai misteriosamente, il 5 aprile 1923, in un ospedale del Cairo. Restava Carter: il quale, però, se avesse parlato e reso pubblico il contenuto dei papiri, avrebbe rovinato irreparabilmente la propria reputazione di archeologo. Nondimeno, pare vi sia stato qualche grosso contrasto fra lui e le autorità britanniche, se è vero che nella primavera del 1924 ci fu una scena drammatica all’ambasciata inglese del Cairo, durante la quale l’archeologo minacciò di dire quel che avrebbe causato gravi difficoltà al suo governo, proprio nel momento in cui, a Giaffa e a Gerusalemme, gli arabi erano in subbuglio contro la politica filo-sionista della Gran Bretagna, potenza mandataria sulla Palestina. Ma si trattò di uno sfogo senza conseguenze. A lui conveniva star zitto e alle autorità britanniche conveniva non esasperarlo: un accordo, in qualche modo, fu trovato, e i papiri — se pure esistono, perché si tratta soltanto d’ipotesi – rimasero dov’erano, ben custoditi in qualche casetta di sicurezza.

Dove giacciono tuttora…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Jorgen Hendriksen su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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