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Perché i comunisti plaudivano alle vittorie di Hitler?

La storia ideologica della Seconda guerra mondiale sarebbe tutta da riscrivere, perché finora è stata raccontata solo nella interpretazione, forzata e tendenziosa, delle due parti uscite vittoriose dalla lotta: quella marxista (fino al 1989 e al crollo del comunismo) e quella liberaldemocratica, espressione dell’oligarchia finanziaria mondiale. Ci sembra perciò che sia giunta l’ora di aprire la discussione in proposito e cominciare a riesaminare alcune delle certezze che abbiamo introiettato acriticamente, senza contestualizzare in modo adeguato i fatti del periodo bellico e prebellico.

Ha osservato lo scrittore e saggista Len Deighton nel suo libro La guerra lampo (titolo originale: Blitzkrieg; From the Rise of Hitler to the Fall of Dunkirk, London, Jonathan Cape, 1979; traduzione dall’inglese di Gianfranco Simone, Milano, Longanesi & C., 1981, pp. 292-294):

Il generale Charles De Gaulle, che andò a Londra e vi proclamò che la "Francia libera" avrebbe continuato a combattere, fu l’unica voce di protesta. In Gran Bretagna c’erano altri tre generali e due ammiragli francesi, nonché migliaia di soldati e marinai, sia di passaggio dalla Norvegia, sia salvati da Dunkerque. In pratica tutti costoro denunciarono De Gaulle e chiesero di venire rinviati nella Francia invasa. Né alcun notabile francese si unì a lui. "Non un solo personaggio pubblico fece sentire la sua voice per condannare l’armistizio " scrisse nelle sue memorie De Gaulle. Fu una sconfitta personale, i cui frutti amari si sarebbero visti quando negli anni successivi sarebbe stato in grado di influenzare l’Europa.

Nel luglio 1940 emerse in Francia dalle ombre degli anni prebellici un curioso personaggio. Già presidente del consiglio, Pierre Laval, impose una tremebonda unità alla vita politica francese. Era stato un socialista di sinistra e ora trovò un accordo con i reazionari tedeschi. Sfruttò l’anglofobia, l’antisemitismo e la quasi religiosa venerazione che tutti i francesi nutrivano per il maresciallo Pétain, eroe di Verdun.

Laval si appiccicò a Pétain. Sfruttando la minaccia dell’ira tedesca, un falso colpo dio stato di Weygand, la benedizione del maresciallo, favori politici e ricercati posti d’ambasciatore, Laval persuase il Parlamento francese a votare la propria estinzione. Non furono esercitate pressioni sui parlamentari, né i tedeschi considerarono che la mossa fosse loro utile; se mai, il contrario: se dobbiamo avere a disposizione uomini che facciano i nostri interessi, pensavano, lasciamogli portare i paramenti della Repubblica.

I capi militari francesi, pesa la guerra, s’impadronirono del territorio sconfitto. Il governo di Pétain diede un posto non solo allo stesso vecchio maresciallo, ma anche a tre generali e a un ammiraglio. Notò un ex ministro: "La Repubblica ha spesso temuto la dittatura di generali vincitori; non si sarebbe mai aspettata quella degli sconfitti". (…)

Ma non era un governo tutto di destra. C’erano due socialisti a fianco del maresciallo. I comunisti francesi, il cui partito era stato messo fuori legge sin dall’inizio della guerra, appoggiarono apertamente i tedeschi. L’"Humanité", organo clandestino del PCF, piacque talmente al comandante militare tedesco che egli ne permise la pubblicazione in piena luce.

I comunisti dell’URSS collaboravano altrettanto bene con i nazisti. Il 31 ottobre 1939, Vjaceslav Molotov, ministro degli eteri sovietico, dimostrò un inusitato rispetto sia per la democrazia sia per il nazismo e proclamò: "È criminale partecipare a una guerra che, mascherata come una guerra per la conservazione della democrazia, che non è altro che una guerra per la distruzione del nazionalsocialismo". Dovunque i partiti comunisti ricevettero l’ordine da Mosca di condannare come imperialista il conflitto. Le unità di propaganda tedesche furono liete di tradurre questo discorso in francese e in inglese, stampandolo su volantini che vennero lanciati a migliaia sulle linee del fronte francese.

Ora che la Francia era schiacciata, i russi non nascosero il loro compiacimento. L’ambasciatore tedesco a Mosca telegrafò a Berlino segnalando: "Molotov mi ha convocato stasera nel suo ufficio e mi ha espresso le più calorose congratulazioni del governo sovietico per lo splendido successo delle forze armate tedesche".

I comunisti francesi, che tanto avevano fatto per minare l’opposizione della Francia alla Germania nazista, che durante l’offensiva tedesca facevano circolare un volantino, "L’Humanité du soldat", il quale sosteneva che si trattava di una guerra per i finanzieri anglo-francesi, ora cominciarono a incolpare del collasso della Francia proprio coloro che tanto avevano fatto per evitare la guerra. Nacque così lo slogan comunista: "I traditori di Monaco hanno aperto la Francia all’invasione".

Anche se il punto di vista dell’Autore è molto politically correct (e molto britannico), pure vi è una certa onestà intellettuale nel mettere in fila i fatti, anche quelli poco noti al grande pubblico, ma che non erano tali per gli storici di professione, i quali li hanno sottaciuti in omaggio alla loro ideologia progressista, o democratica, o liberale, o marxista, in tutti i casi antifascista, affinché si consolidasse la Grande Leggenda sulla Seconda guerra mondiale: quella che vede una linea di demarcazione chiara e netta, senza alcuna sfumatura e senza alcun compromesso, fra i "buoni", che erano contro Hitler sin dall’inizio, uniti e compatti nella loro esecrazione per la Germania nazista, e tutti i "cattivi" dall’altra, senza sfumature: tutti servi o traditori o delinquenti della peggiore specie, nessuno escluso. Che i comunisti francesi abbiano osteggiato la guerra contro la Germania, ad esempio, era cosa ben nota, così come il fatto che alcuni socialisti abbiano sostenuto il regime di Pétain, alleato di Hitler, e che Laval, il suo capo di governo, venisse dal socialismo di sinistra: erano tutte cose note; così come, se vogliamo, è ben noto che Mussolini era stato un socialista di estrema sinistra prima di fondare il suo movimento. Anche le felicitazioni di Molotov, per conto di Stalin, a Hitler, dopo la caduta della Francia, erano abbastanza note, anche se – diciamola verità – gli storici di tipo divulgativo non le hanno troppo sottolineate, così come non hanno voluto evidenziare l’incongruenza della dichiarazione di guerra anglo-francese alla Germania per difendere la Polonia – che aveva un governo antidemocratico e antisemita, sia detto fra parentesi – e la mancata dichiarazione di guerra all’Unione Sovietica, la quale si era unita all’aggressione e aveva invaso e occupato metà di quel Paese (senza che nessuno di essi abbia mai adoperato l’espressione pugnalata nella schiena, così volentieri ripetuta verso l’Italia per l’aggressione alla Francia), d’altronde in seguito a un preciso accordo di spartizione con la Germania, che non riguardava solo la Polonia ma tutta l’Europa centro-orientale, dal Baltico al Mar Nero. Questi sono i fatti: e già di per sé dicono qualcosa, e cioè che non è vero che tutti i progressisti e tutti i partiti di sinistra erano sin dal principio contro il nazismo, come un solo uomo; ma che ve n’erano non pochi i quali, dovendo scegliere fra le democrazie borghesi e il nazismo (e il fascismo), preferivano stare in mezzo, oppure addirittura mostravano una preferenza per il nazismo. In fondo, comunisti e socialisti radicali da una parte, e nazisti e fascisti dall’altra, avevano un importante elemento in comune: l’avversione alla borghesia, e quindi l’avversione al capitalismo di rapina rappresentato dai poteri finanziari inglesi, francesi e americani. E che altro voleva essere il nazismo, se non un socialismo nazionale? Drieu La Rochelle sarà anche stato un ingenuo quando vedeva nelle SS le truppe scelte e quasi gli angeli vendicatori della giustizia sociale e quindi dell’idea socialista, ma non era un alienato mentale: un nucleo di verità, nel suo convincimento, doveva pur esserci. E la stesa cosa si può dire, ma qui il discorso si fa immensamente scabroso, per l’antisemitismo. Tutti gli storici politicamente coretti hanno sempre rimproverato al regime di Vichy, quale marchio incancellabile d’infamia, l’aver pienamente collaborato, perfino con qualche eccesso di zelo, nella politica antisemita degli occupanti tedeschi, e quindi nella schedatura e nell’arresto degli ebrei residenti in territorio francese per farli poi deportare in Germania. Ma forse sarebbe stato più corretto dal punto di vista storico vedere in quella attiva collaborazione non tanto il segno di un sudditanza gratuitamente servile verso Hitler, bensì una propria convinzione ben precisa sul ruolo nefasto esercitato dagli ebrei nell’economia francese, già evidenziato, da molti anni (precisamente dal 1889), dalla Action Française, il cui massimo teorico era un intellettuale della statura di Charles Maurras, e condivisa da un numero non indifferente di scrittori tutt’altro che "reazionari", come Céline. Convinzione la quale, giusta o sbagliata che fosse, aveva la stessa radice di quella esistente nella politica e nella cultura della Polonia di quegli stessi anni (ma anche di altri Paesi dove la presenza degli ebrei era forte, specie nei settori chiave dell’economia, come la Slovacchia, l’Ungheria, la Romania), e dalla quale differiva solo per la dimensione quantitativa della questione ebraica.

Ecco, allora, che le tessere del mosaico, se assemblate nel modo giusto, mostrano un disegno complessivo assai diverso da quello tradizionalmente accettato. L’Europa del 1939-40 presentava un quadro sociale, politico e culturale più complesso, più sfumato e, se si vuole, più ambiguo di come ci è stato descritto dalla vulgata dei vincitori, a partire dal 1945. Se nel 1941 non fosse scoppiata la guerra tedesco-sovietica (per decisione di Hitler, certo, ma forse solo anticipando i tempi di una analoga mossa di Stalin), ora la storia che ci viene raccontata sarebbe completamente diversa. Molti europei aspiravano realmente a un Ordine Nuovo e non mancavano quelli che vedevano dei punti di contatto fra socialismo e fascismo, intuizione che Mussolini aveva avuto per primo, sin dal 1919 (e forse prima ancora come abbiamo scritto di recente: forse all’epoca di Caporetto, benché il fascismo ancora non esistesse neppure come progetto). Quelli che si meravigliano e si scandalizzano per la presenza di un ex socialista di sinistra, come Pierre Laval, a capo del governo di Vichy, sono gi stessi che affettano stupore e commiserazione per la presenza di un vecchio comunista, come Nicola Bombacci, al fianco di Mussolini a Salò, col quale volle andare a morire; e gli stessi che hanno sempre steso un velo di allusioni e di sottili veleni per screditare la figura e l’opera di Carlo Silvestri, antifascista della prima ora e poi amico di Mussolini al tempo della Repubblica Sociale: perché il solo fatto che ci siano stati dei casi come il suo dimostra che un ponte ideologico tra fascismo e socialismo esisteva e che lo scoppio della guerra l’aveva rafforzato, almeno fino all’inizio dell’Operazione Barbarossa. Fino a quella data, la guerra era una guerra del nazismo e del fascismo contro le democrazie plutocratiche, e, dopo la caduta della Francia, contro il potere finanziario anglosassone; anche se poi, dopo il 1945, è stata descritta dai vincitori come una guerra per la difesa della democrazia. E per molti fascisti di sinistra, come Concetto Pettinato e Berto Ricci, il vero nemico non era l’Unione Sovietica, ma la Gran Bretagna: era con il capitalismo finanziario britannico che l’Italia proletaria doveva saldare i suoi conti, oltre che con quelli che Ricci chiamava "gli inglesi di casa nostra", cioè quei borghesi che si arroccavano suoi loro privilegi e che segretamente parteggiavano per la vittoria di Churchill e Roosevelt (curiose analogie con la situazione odierna: anche oggi ci sono politici italiani che fanno il tifo per lo spread e non trovano soddisfazione più grande che porsi al servizio della BCE e dei poteri forti della finanza mondiale). E un sindacalista fascista come Tullio Cianetti si spingeva fino a dire, in privato, che solo le necessità della politica internazionale avevano reso inevitabile l’intervento italiano al fianco di Francisco Franco in Spagna, mentre sentimentalmente i fautori del corporativismo — alternativo sia al comunismo che al capitalismo – si sentivano piuttosto dalla parte delle classi lavoratrici; né si dimentichi che il massimo teorico del corporativismo, il filosofo Ugo Spirito, a guerra finita si avvicinò al comunismo. Perciò fra il 1939 e il 1941, e in certi casi anche dopo, non erano pochi gli intellettuali e i militanti europei di sinistra i quali consideravano possibile un compromesso col nazismo in funzione anticapitalista: ed ecco spiegato il silenzio assordante di tutti i francesi all’appello di De Gaulle da Londra del 18 giugno 1940. Vorrà dire qualcosa se nessun intellettuale e nessun politico di prestigio fece sentire la sua voce per accettare la sua esortazione a continuare la lotta al fianco della Gran Bretagna (la quale, da parte sua, non seppe far di meglio che attaccare e affondare la flotta francese a Mers-el-Kébir, a scanso di brutte sorprese; e attaccare l’esercito del generale Dentz in Siria, sempre per coprirsi le spalle in Medio Oriente e in Egitto). Gli storici progressisti hanno sempre citato lo slogan dei francesi conservatori, meglio Hitler che Blum, non per cercar di capire da dove nascesse un tale atteggiamento – e, di nuovo, si tenga presente anche il fatto che Léon Blum era ebreo), ma per brandirlo come una clava e suscitare imbarazzo e vergogna negli europei che, a quell’epoca, condividevano un tal punto di vista: e ce ne furono ovunque, dalla Norvegia all’Olanda, dal Belgio alla Danimarca. La conclusione è che la Seconda guerra mondiale non fu tanto una lotta per la difesa della libertà, quanto per la difesa del grande capitale finanziario…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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