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Secondo il mito platonico della biga alata, le anime conservano, in diversa misura, un vago ricordo del mondo dell’Iperuranio, per averlo intravisto prima di incarnarsi nelle condizioni della vita presente. Chi ha visto di più, ricorda di più; e chi ha visto di meno, ricorda di meno. I primi sono agevolati nel compito di riconquistare la sapienza perduta, che illumina la via verso il destino eterno dell’anima; i secondi, al contrario, son destinati a reincarnarsi nelle forme più basse e inconsapevoli e praticamente a ripartire da zero nel processo della vera conoscenza. In termini cristiani, invece, e stando, a nostro credere, più aderenti alla realtà e più lontani da un mondo sostanzialmente di fantasia, come quello immaginato da Platone, persiste, nell’anima, e specialmente nell’anima del bambino, ancora fresca di stupore e d’innocenza (usando sempre questa espressione con molta cautela, perché il bambino può essere definito innocente solo in un senso relativo, ma non in senso assoluto), più che del mito della biga alata, bisognerebbe tenere sempre a mente l’evento decisivo per la condizione umana nella prospettiva del cristianesimo: il Peccato originale; e, prima di esso, la condizione felice non solo dell’umanità, ma di tutto il creato, che esisteva anteriormente alla fatale disobbedienza dei nostri progenitori, ossia la condizione che era propria alle creature nel Paradiso terrestre.
Nella sua situazione attuale, l’uomo può essere paragonato ad un principe o un sovrano decaduto, il quale abbia dilapidato sconsideratamente il suo ricco patrimonio, e il cui splendido palazzo sia andato in rovina, con il giardino invaso dai rovi e dalle bestie selvatiche, e le stanze un tempo sontuose, impreziosite da raffinati tappeti, da quadri dalle cornici dorate e da scintillanti specchi e lampadari, siano adesso ricoperte dalla polvere e immerse nell’oscurità, con le imposte chiuse e sconnesse. Un principe decaduto o un sovrano spodestato che adesso si trova ramingo, triste e abbattuto, a vagabondare sulle strade polverose del mondo, con i piedi feriti e sanguinanti avvolti negli stracci, lui che camminava in pantofole di seta e che mai avrebbe potuto ferirsi con i sassi taglienti della via, perché viaggiava in carrozza e perché i suoi servi erano pronti ad accorrere per rimuovere qualsiasi ostacolo, anche il più blando, si frapponesse davanti a lui. Vedendolo così malridotto e sconsolato, si potrebbe pensare che egli sia sempre stato null’altro che un pezzente e un vagabondo; si stenterebbe a credere che un tempo egli si godeva le gioie della vita senza avere un pensiero al mondo; che indossava morbide vesti e gioielli, che aveva uno stuolo di servitori a sua disposizione, e che viveva in uno dei palazzi più belli, più eleganti e più confortevoli che mai si fossero visti.
Eppure, non si sa come, una certa qual vaga consapevolezza di quell’antica e felice condizione, pur dopo lunghissimi anni di decadenza e di continue umiliazioni, sopravvive in fondo alla sua coscienza, simile ad un ricordo estremamente sbiadito e quasi irreale, e tuttavia, in alcuni momenti, capace di riemergere talmente vivo e struggente, da farlo quasi piangere amare lacrime di sconsolata nostalgia. In quei rari momenti, per qualche istante, il miserabile vagabondo dalla barba lunga e l’aspetto emaciato, dal passo incerto e dallo sguardo spento, sembra quasi trasfigurarsi; nel suo sguardo triste e opaco compare una luce d’infinita dolcezza, ed egli raddrizza le spalle e alza la fronte, come se la bellezza dei ricordi ridestasse in lui, inconsapevolmente, un’ombra della fierezza e della dignità del tempo passato; come se, per un attimo, la coscienza di ciò che egli era, del genere di vita che conduceva, dei luoghi ameni che frequentava e delle scelte compagnie dalle quali era attorniato, tutto ciò si riaffacciasse al fondo della sua anima e la investisse con una luce splendente, proprio come fa il sole, in alta montagna, allorquando rompe trionfante un denso mantello di nubi, per poi subito scomparire di nuovo, quasi fosse stato solamente un sogno, una visione, che ha trasfigurato il paesaggio in maniera repentina e insospettata, rivelando in esso una bellezza, un fulgore, un’armonia suprema.
Lasciamo a coloro che si autodefiniscono psicanalisti, e che sarebbe più giusto chiamare praticanti di una bassa forma di magia nera, la petulante soddisfazione di "spiegarci" che quella nostalgia, quel ricordo confuso, quella sensazione di un passato meraviglioso e poi semisepolto nell’oblio, altro non sono che un meccanismo difensivo, o per meglio dire compensativo, elaborato dall’inconscio, mediante il quale quest’ultimo vuole risarcire l’io della delusione, della frustrazione e dell’amarezza che gli provengono dal duro scontro con la realtà e dal crollo di tutte le illusioni che, nell’infanzia e nella prima adolescenza, esso aveva coltivato incautamente ed esageratamente, determinando un corto circuito che avrebbe rischiato di trascinarlo nella spirale della depressione o nella palude dell’angoscia permanente. Secondo questi signori, l’uomo è soltanto una povera scimmia nuda che, quando si rende conto della nullità delle sue smanie di onnipotenza e della inevitabilità e inesorabilità della morte, per non impazzire dalla disperazione si fabbrica un mondo illusorio che funge da camera di compensazione. Tale mondo illussorio funziona sia come proiezione verso il futuro di un destino di felicità e d’immoralità, e allora prende la forma delle credenze religiose, sia come proiezione verso il passato, e allora elabora il mito di un mondo felice e di una condizione di piena e perfetta armonia fra l’io e il tutto, anteriormente alla vita presente ma sempre sulla base del medesimo soggetto, il che implica la credenza nella reincarnazione dell’anima individuale in una quantità di corpi differenti e perciò in una successione di vite, il cui scopo è comprendere la vanità dell’attaccamento e liberarsi dalle catene della materia, ritrovando l’unione originaria con il Tutto.
Quanto a noi, non crediamo alla psicanalisi come spiegazione filosofica del reale, per il fatto che non condividiamo le sue premesse materialiste, nichiliste e irreligiose, senza le quali le sue speculazioni non starebbero in piedi e che ne fanno, pertanto, non una vera scienza, ma una pseudo-scienza, ossia una "scienza" capace di spiegare il reale solo a patto che si accolgano con un atto di fede i suoi presupposti e la sua prospettiva. Gli psicanalisti dicono: sì, è vero, nell’uomo ci sono degli pseudo ricordi, c’è una vaga nostalgia di una felice condizione originaria, ed è proprio questa la base da cui si sono sviluppati i miti universali della Caduta: ad esempio, nel cristianesimo, il mito del Peccato originale e della cacciata dei primi uomini del Paradiso terrestre. Ma a ciò noi ribattiamo: benissimo; ma il fatto che l’idea di una Caduta originaria sia presente in tutte le mitologie, non potrebbe essere, e a più buon diritto, una conferma piuttosto che una smentita del fatto che tale Caduta si è realmente verificata, e che tutte le civiltà, sia pure in forme diverse, ne hanno conservato il ricordo? Che cosa è più difficile, che cosa è più improbabile: che in tutte le civiltà sia nata una tale idea sulla base di un falso ricordo, di un’illusione psicologica e di una nevrosi esistenziale nei confronti dello shock della morte, oppure che vi sia stata davvero una felice condizione originaria dell’uomo nel mondo, e che questa si sia poi irrimediabilmente incrinata, provocando il sopraggiungere di una condizione esistenziale assai più tribolata e imperfetta, nella quale tuttora si trova l’umanità? In fondo, tutto dipende dal valore di conoscenza che si vuol dare al mito. Per chi pensa che il mito sia solo una costruzione fantastica elaborata dagli uomini, non vale neanche la pena di chiedersi se esso non sia invece, per caso, una maniera simbolica di narrare dei fatti sostanzialmente reali.
La maggiore difficoltà a vedere nel mito la narrazione simbolica di accadimenti reali, e perciò a vedere nel mito della Caduta il riflesso di un’esperienza reale dell’umanità originaria, deriva dal fatto che tale interpretazione del mito presuppone un processo d’involuzione dell’umanità, da uno stato superiore di esistenza a uno stato inferiore: il che urta frontalmente contro uno dei capisaldi della cultura moderna, ossia l’evoluzionismo. Secondo le teorie evoluzioniste, l’umanità attuale è il frutto di un progressivo processo di accrescimento, di organizzazione e di perfezionamento della natura umana; mentre invece prendere i miti delle origini perfettamente sul serio significa ammettere che le cose siano andate nella maniera diametralmente opposta, cioè dall’ordine verso il disordine, proprio come si verifica nei processi entropici della materia fisica. Ora, l’evoluzionismo è talmente penetrato nel DNA della cultura moderna, che l’idea stessa di una degenerazione dell’uomo, anziché di una sua crescita, risulta concettualmente irricevibile e inammissibile: se l’evoluzionismo è la legge costante di ciò che esiste, uomo compreso, non si può concepire, neanche in via d’ipotesi, che sia accaduto il contrario. D’altra parte, chi non è evoluzionista, ossia chi rifiuta di vedere nell’evoluzionismo la chiave interpretativa di tutti i fenomeni biologici e anche di quelli psicologici, è libero da questo ricatto intellettuale, e può benissimo ipotizzare che gli uomini, alle loro origini, fossero assai più perfetti di quanto lo sono oggi. Ma per un evoluzionista convinto, non ci sono "origini", nel senso che non si danno un prima e un poi, nettamente definiti, bensì un passaggio graduale e quasi indistinto da forme più semplici a forme più complesse di vita, senza che se ne possa indicare l’inizio come una singolarità. Per gli evoluzionisti, non ha senso neanche la domanda in quale preciso momento abbia avuto origine la vita, perché la vita, per essi, non è un evento, ma un processo, appunto un processo evolutivo, del quale si può seguire lo sviluppo, si possono riconoscere le tappe, ma non si può dire quando, esattamente, essa sia iniziata, a partire dalla non vita: non lo si può dire più di quanto si possa affermare se sia nato prima l’uovo o la gallina.
A noi sembra che l’universalità dei miti, come del resto anche l’universalità delle religioni, sia un forte argomento a favore della loro realtà, così come dell’esistenza di Dio. Pure, anche se è il riflesso di un evento reale, nondimeno ogni mito deve essere interpretato, appunto perché si è costituito nelle forme di un racconto allegorico e simbolico. E ci sembra che la via maestra per interpretarlo sia quella che parte dalla memoria dell’io infantile, intendendo quest’ultima parola in senso tecnico e cronologico e non come giudizio di valore, dato sulla scorta di un io adulto. Chi di noi, ripensando alla propria infanzia, non trova in se stesso un riflesso del mito platonico della biga alata, o anche del mito cristiano (e giudaico) della Caduta conseguente al Peccato originale? Non vi è forse, nel bambino, di quando in quando, ma come costante presenza di fondo, la nostalgia di un tempo felice e di uno stato beato? Per noi, ad esempio — questa è una nota personale — tale nostalgia si lega a uno dei più remoti ricordi d’infanzia, quello di un bellissimo giardino perennemente verdeggiante, sotto un cielo azzurro e sereno, popolato da una quantità di alberi e piante dalle figure maestose e tuttavia gentili: ciò che di più simile al paradiso si possa umanamente immaginare, restando sul terreno dell’analogia con oggetti materiali. Certo, è possibile collocare i ricordi infantili nel quadro della memoria storica; nel nostro caso, una gita all’antico santuario mariano di Barbana, nella laguna di Grado, isola che è in buona parte coperta da un bosco di bagolari, pini marittimi, magnolie, olmi e cipressi. E tuttavia, siamo sicuri che ciò non sia un voler razionalizzare ad ogni costo la nostalgia di una cosa non tanto ricordata, quando presentita, o forse vista, sì, ma non con gli occhi del corpo, bensì con quelli dell’anima? Per fare un esempio: quasi tutti gli studiosi di Dante Alighieri ci dicono che i canti finali del Purgatorio, nei quali viene descritta la dolce foresta primeva dell’Eden, sono una rielaborazione poetica di una foresta reale e concreta, vista da Dante coi suoi propri occhi, ossia la Pineta di Ravenna. Tuttavia (e tralasciando il fatto che il Purgatorio era già stato ultimato verso il 1316, mentre Dante si recò a Ravenna, su invito di Guido Novello da Polenta, solo nel 1319) a noi pare che il ragionamento si può benissimo capovolgere, e con risultati assai più persuasivi: anche se somigliante a una foresta che Dante può aver visto in un certo luogo e in un certo tempo, la divina foresta spessa e viva della seconda cantica della Commedia è la descrizione di una foresta che nessun occhio umano ha mai visto, ma della quale ogni anima reca una segreta e profonda nostalgia: la foresta dei nostri primi antenati, donde furono cacciati in seguito alla Caduta. Senza scomodare l’Inconscio collettivo di Jung, si può benissimo ipotizzare che l’anima individuale conservi un frammento della coscienza umana originaria, tramandato segretamente di generazione in generazione. E del resto, che cos’è il nostro senso del bello, del buono, del giusto e del vero, che c’impedisce di appagarci delle singole cose belle, buone, giuste e vere, perché cogliamo in esse un grado d’imperfezione che non si accorda con le nostre aspettative? E da dove mai ci verrebbero tali aspettative, se davvero vivessimo in un mondo in evoluzione? Non si spiega invece facilmente che le abbiamo, se si ammette che il mondo è in fase d’involuzione? Solo ammettendo che esso sta regredendo si può giustificare il fatto che in noi c’è la nostalgia d’un modo luminoso e perfetto. La tristezza, allora, nasce dal fatto che la nostra patria non è di quaggiù…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels