La nostra catena si chiama conformismo
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28 Agosto 2019Una delle più grandi sorgenti di sapienza filosofica si trova nella frequentazione e nell’osservazione dei bambini. Il bambino è l’uomo allo stato originario; e anche se per mille vie, le più sottili e impensate, riceve l’influenza del mondo adulto, sin dai primi mesi, anzi, sin dalle prime ore di vita, per non dire prima ancora di nascere, resta pur sempre vero che, a paragone del mondo adulto, il mondo del bambino è senza confronti più fresco, spontaneo e "innocente". Ora, si suole dire che il bambino si stupisce di tutto, si meraviglia di ogni cosa, si sorprende, si entusiasma della più piccola circostanza, perché l’avvolge nel manto meraviglioso della sua fantasia (parliamo del bambino sano e normale, che forse più non esiste, e non di quel precoce vecchietto che l’abuso di computer, telefonini e giochi elettronici ha fatto intristire e avvizzire anzitempo); e ciò è sostanzialmente esatto. Bisogna però aggiungere che tale entusiasmo, tale meraviglia, tale incanto, derivano dal fatto che il bambino vede il mondo non come esso è nella percezione dell’adulto, ma secondo le sue coordinate istintive. Istintivamente, infatti, il bambino "sente" che il mondo è bello, affascinante, sorprendente, inesauribile e soprattutto perfetto, nel senso di "giusto"; mentre l’adulto, in linea di massima, si è formato la convinzione che il mondo è in sostanza monotono, ripetitivo, noioso, deludente e, soprattutto, imperfetto, nel senso di "ingiusto". Perché il bambino si aspetta che ogni favola si conclude con il lieto fine? Perché si aspetta, come cosa logica e naturale, che alla fine il mago cattivo riceva la meritata punizione, e che la bella principessa e il principe azzurro possano coronare il loro stupendo sogno d’amore, sposarsi e poi vivere per moltissimi anni, come si dice, felici e contenti? E perché, invece, il lettore dei Promessi Sposi prova una certa delusione, ma nessuna sorpresa, leggendo la pagina conclusiva del romanzo, nella quale NON si dice che Renzo e Lucia vissero per moltissimi anni "felici e contenti", bensì che ebbero una vita normale, con le sue pene e le sue gioie, simile a quella di tanti altri, e sia pure illuminata dalla fede e allietata dal loro reciproco affetto e dalla gioia per la nascita dei figli? Perché il bambino sente, istintivamente, che le cose devono avere un lieto fine; che la giustizia e l’amore devono prevalere sull’ingiustizia e sulla cattiveria; e che nessun lacrima, nessun sorriso vanno perduti, ma tutto viene accolto nella mano di Dio, che ne tiene conto e li pone sul proprio Cuore, per sempre. L’adulto, al contrario, non è affatto convinto che lacrime e sorrisi non vadano perfettamente sprecati; che la vita sia abbandonata al caso e, in ultima analisi, che sia qualcosa d’incomprensibile, se non addirittura di assurdo e di mostruoso; né si aspetta troppe cose buone dalla vita, e per questo motivo cerca di strapparne, con la forza o con l’astuzia, più che può, magari anche calpestando il prossimo, sapendo che in qualsiasi momento un destino beffardo gli potrebbe portare via tutto e lasciarlo coperto di stracci, come l’ultimo dei mendicanti. Chi dei due ha ragione?
L’adulto è giunto a pensare che la vita sia incomprensibile, assurda e deludente nel corso delle sue esperienze, anno dopo anno, a partire da quando responsabilità, preoccupazioni e soprattutto delusioni sono entrate a far parte del suo orizzonte, e hanno preso il posto della beata spensieratezza degli anni infantili. Il bambino, al contrario, proprio perché non ha dovuto affrontare responsabilità e gli sono state risparmiate le preoccupazioni, ha potuto conservare la sua freschezza originaria e vedere il mondo dalla sua particolar angolatura: quella di chi è sollevato dalle circostanze più gravose e più noiose dell’esistenza, il logorio del lavoro quotidiano, gli attriti con i vicini, i colleghi, i parenti, il fastidio delle piccole noie come le tasse e le bollette da pagare, il medico o il dentista per sé e per i propri figli, le eventuali incomprensioni e amarezze coniugali. Questo, naturalmente, nel caso che il bambino non abbia dovuto affrontare precocemente un grande dolore, come la perdita dei genitori, nel qual caso, per lui, la perdita dell’"innocenza" avviene molto, ma molto prima di quel che capita ai suoi coetanei, e segna la sia personalità in maniera indelebile, nel bene o nel male, una volta per sempre. Perciò il bambino, sollevato dall’aspetto più prosaico dell’esistenza e libero di riversare tutte le sue energie, che sono notevolissime, verso il lato fantasioso e creativo, vede le cose, di regola, più belle e più interessanti di come le vede l’adulto. Né la ragione di questa maggiore bellezza risiede solo nel non doversi occupare del tran-tran quotidiano o di non aver ancora cozzato frontalmente contro delusioni e conflitti, così spesso responsabili dei sensi di colpa e delle nevrosi, ma anche e forse principalmente nel fatto che il bambino, uscito solo da pochi anni dall’ambiente ideale dell’utero materno, conserva ancora, inconsciamente, un po’ di quella pace di cui godeva allora e sente che nelle cose vi è un ritmo naturale, una specie di grande respiro dell’universo, che esprime una condizione di felice equilibrio e di beata armonia. Così come, di regola, non avendo ancora conosciuto gravi malattie, il suo organismo è sano, intatto, capace di straordinarie riprese (quanto è facile, per lui, che un osso fratturato torni a saldarsi, e quanto invece è difficile che ciò avvenga per la persona anziana!), allo stesso modo il suo spirito, per così dire, rimbalza e si rimette in piedi con ineffabile leggerezza dopo le prime, piccole delusioni e i piccoli insuccessi, con l’agilità di un gatto e la naturalezza di uno strumento ben oliato. Nel bambino, specie se cresciuto in una famiglia calda e accogliente — ma non necessariamente iperprotettiva, è con dei genitori un po’ troppo ansiosi e invadenti — la percezione del mondo si accorsa con ciò che egli sente essere giusto, buono e bello; egli non avverte ancora quella distanza, quella distonia, quella dolorosa lacerazione fra il mondo com’è, e il mondo come si vorrebbe che fosse, che è invece una caratteristica dell’età adulta; e ciò conferisce alla sua esistenza una tonalità incomparabilmente più serena, e al suo ritmo vitale un andamento incommensurabilmente più armonioso, di quanto accade all’adulto.
In altre parole, il bambino sente che il mondo è, in buona sostanza, e pur con le sue contraddizioni e le sue ambiguità, tale e quale dovrebbe essere, se non nei particolari, certo nelle sue linee generali; il bambino non ha rimproveri e neppure obiezioni da muovere nei confronti della vita, non ha dei conti aperti e dei crediti da riscuotere, non ha nemmeno riserve di carattere complessivo: si adatta al suo ritmo, si uniforma al suo passo, si pone in sintonia con ciò è e con ciò che sta accadendo. Vive nel presente, senza il peso del passato e senza l’incognita del futuro. Non è condizionato da memorie sgradevoli e non è angosciato da timori a venire: gli basta l’oggi, o per meglio dire quel tempo senza tempo che è il suo adesso, e che si potrebbe paragonare a ciò che è il punto in geometria: non un’estensione o una superficie, ma un’assenza di estensione e di superficie, che è, nello stesso tempo, l’elemento base con il quale si costruiscono tutte le figure e tutti i solidi. Infatti, a ben guardare, è inesatto affermare, come pure si fa sovente, che il bambino viva in un perenne presente, perché la nozione del presente è figlia della nozione del tempo, e quindi della consapevolezza del gioco costante fra passato che non è più e futuro che non è ancora: ma tale consapevolezza è una tipica costruzione della mente adulta, non della mente infantile, la quale è assai meno "mente", ossia Logos, e assai più coscienza istintuale, nel senso più estensivo del termine. Ed è questa percezione della naturalezza, della sanità e della perfezione del mondo che rende il bambino fiducioso nel lieto fine delle fiabe, ma anche delle cose della vita reale (la differenza tra fiaba e realtà non è in lui, peraltro, così netta come lo è nella mente dell’adulto); per lui, è normale che il mago cattivo sia sconfitto e che venga punito, così come è normale, nel senso di naturale, che i due innamorati protagonisti della fiaba, il principe e la principessa, superino ogni ostacolo che li divide e si riuniscano, per vivere a lungo felici e contenti. Questa fiduciosità del bambino nella giustizia e nel bene è precisamente il tratto che suscita la tenerezza e il desiderio di protezione da pare dei genitori, e in genere degli adulti, verso di lui; e ciò si spiega appunto col fatto che il mondo, per l’adulto, non è buono, né bello, né giusto, e quindi egli si preoccupa di smorzare l’impatto che la realtà, prima o dopo, inevitabilmente causerà al bambino, tremendamente ingenuo e disarmato di fronte ad esso.
Resta tuttavia da verificare se la visione pessimistica dell’adulto sia, di per sé, più veritiera, o, se si preferisce, meno lontana dal vero, di quanto lo è la visione ingenua ed "eccessivamente" fiduciosa del bambino. Infatti, se è vero, come abbiamo accennato, che il bambino ha cognizione della realtà non solo attraverso il Logos, ma con la totalità del suo essere, e soprattutto con l’istinto, che in lui è fortissimo, viene da chiedersi perché mai la natura avrebbe dotato il bambino, che è l’adulto in potenza, di una percezione tanto illusoria e di una istintività così fallace, invece che di una percezione realistica del mondo e di una istintività che sia in accordo con le situazioni di fatto dell’esistenza, condizioni evidentemente necessarie per assicurargli dei margini di successo nella dura lotta per la vita che lo metterà alla prova nel corso degli anni. La natura non agisce a caso e perciò sarebbe inspiegabile una tale contraddizione, a meno di ritenere che l’essere umano, sin dall’infanzia, sia l’animale "malato" per eccellenza, cioè il solo dotato di istinti e percezioni discordi rispetto alla situazione reale con cui si dovrà cimentare per poter sopravvivere. Ma anche questa ipotesi appare difficilmente sostenibile, se si pensa che la "malattia" dell’uomo, rispetto agli animali, si potrebbe definire come un difetto di realismo nella percezione del mondo, perché, in tal caso, essa sarebbe opera dell’ambiente e dell’educazione, i quali agiscono primariamente sulla sfera della volontà, e solo successivamente su quella della percezione. In altre parole, il fatto che un soggetto veda il mondo colorato in rosa, oppure in nero, difficilmente può dipendere, in misura sostanziale, dall’influsso esercitato dall’ambiente, perché tale influsso non può precedere la percezione del mondo, semmai accompagnarla e approfondirla; ma la percezione del mondo è, in se stessa, un fatto originario della coscienza, che solo successivamente verrà caratterizzato in senso positivo o negativo da suggestioni esterne. In altre parole, e pur consapevoli che non è possibile tracciare una netta linea divisoria fra la coscienza del bambino e quella dell’adulto, la percezione infantile del mondo è una percezione originaria, sulla quale educazione e ambiente eserciteranno poi la loro influenza; pertanto, essa esprime un sentimento dell’essere che non è un portato, o una deformazione, della mente adulta.
Giungiamo così alla probabile conclusione che il sentimento del mondo, proprio del bambino, è armonioso, perfetto e quindi "giusto": non c’è nulla che non vada nel mondo, e le cose che non sono come dovrebbero essere, prima o poi saranno rimesse al loro posto, o restituite al loro destino. Ciò significa che il bambino possiede in sé, innata, la nozione di quell’elemento che, nelle religioni superiori e in alcune filosofie, si chiama "provvidenza", e che si pone agli antipodi della concezione casualista, meccanicista e materialista della realtà. Scoperta notevole: la famosa esclamazione di Renzo Tramaglino, nei Promessi Sposi, allorché dona i suoi ultimi denari al mendicante: la c’è, la Provvidenza!, non è solo il frutto di una elaborazione intellettuale e di una razionalizzazione della mente adulta, sulla base di presupposti metafisici e teologici, ma scaturisce da un dato originario della coscienza, talmente originario che i suoi presupposti sono già ravvisabili nella coscienza del bambino. Non si vuol dire, con ciò, che il bambino abbia già chiara in sé la nozione della Provvidenza, e forse neppure di un Dio onnipotente, amorevole e provvidente, nozioni che gli verranno fornite, e chiarite, dagli adulti. E tuttavia ci sono, in lui, i presupposti "logici" (lo scriviamo tra virgolette) perché tale nozione si insedi e si sviluppi naturalmente: il che significa che l’educazione religiosa non è una forzatura, cui il bambino viene sottoposto artificialmente, e senza la quale crescerebbe libero e senza complessi, come sostengono i pedagogisti di orientamento libertario e irreligioso, bensì il naturale approfondimento di elementi psicologici e disposizioni spirituali che sono già presenti, originariamente, nel suo essere, e senza i quali egli crescerebbe privo di qualcosa che gli è connaturato. La vera forzatura, pertanto, non è dare al bambino un’educazione religiosa, bensì rifiutargliela; come lo è il volerla negare, strappare e distruggere nelle società ove prendono il potere delle forze politiche veementemente contrarie alla religione.
Ciò detto, non possiamo evitare di porci la domanda decisiva: se non c’è nulla di fondamentalmente sbagliato, nel mondo, così come lo percepisce il bambino, perché gli adulti, invece, ne hanno, così spesso, non solo la percezione, ma anche una radicata convinzione? O, se si preferisce (dal momento che "bambino" e "adulto" non sono due categorie rigidamente separate, ma sono l’una l’embrione dell’altra): cosa spinge il bambino, una volta divenuto adulto, a rivedere e modificare radicalmente la propria percezione del mondo, e giudicarlo sbagliato, assurdo e ingiusto, mentre un tempo lo aveva visto bello, armonioso e incantato? Evidentemente, il fattore determinante è stato la delusione. Ma perché l’adulto rimane deluso dal mondo, così come gli si manifesta, se non perché ha perso la nozione, istintiva o ragionata che sia, della Provvidenza, cioè di una perfezione, e quindi di una giustizia che sovrintende al reale? Il che è accaduto per un fatto preciso: l’aver rifiutato Dio…
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