Ci sono due modi di stare col popolo
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22 Agosto 2019Il lettore attento dell’Iliade e dell’Odissea nota una cosa che al lettore più frettoloso tende a sfuggire: che in entrambi i poemi, in modo più esplicito nel secondo, al di à della materia trattata, o meglio attraverso la materia trattata, la guerra nell’uno, il ritorno a casa nel secondo, emerge la contrapposizione fra il modo di agire dell’uomo giusto e quello dell’uomo ingiusto, ciò che fa da sfondo e da pietra del paragone a tutto il resto. Quando, per esempio, Agamennone si vede costretto a restituire Criseide e, per rifarsi, decide di prendere per sé la schiava di Achille, Briseide, il suo comportamento viene presentato come quello di un uomo ingiusto, che infatti dovrà pagare duramente il suo gesto arrogante e prepotente, contrario alle leggi non scritte che regolano il comportamento degli uomini. E quando Achille risponde a Ettore, che, ferito a morte, chiede la restituzione del suo cadavere ai propri genitori, risponde che non lo farà, che anzi vorrebbe essere un cane, una bestia feroce, per poterlo fare a brani e divorare, egli mostra nelle sue parole un contegno opposto a quello della giustizia, cioè a quello che i greci, in quelle circostanze, consideravano normale aspettarsi da un personaggio come lui; e infatti, più tardi, davanti alle suppliche di Priamo, Achille, piangendo il ricordo di Patroclo, finirà per lasciarsi impietosire e per cedere (sia pure dietro il pagamento di un lauto riscatto). Similmente, il contegno dei Proci, alla reggia di Ulisse, è caratterizzato da un contegno indegno di uomini civili: dissipano le ricchezze dell’eroe assente e creduto morto, e impongono la loro sgradita presenza alla supposta vedova, Penelope, e al figlio ritenuto orfano, Telemaco. Qualche esegeta moderno ha creduto di difendere il loro comportamento, sostenendo che, dopo tutto, esso rientrava nelle abitudini dei greci allorché si verificava una situazione come quella: il prolungarsi dell’assenza di un re che ormai era lecito considerare disperso per sempre, e quindi la richiesta di nuove nozze, per la sua sposa, da parte dei maggiorenti locali. Tuttavia è evidente che l’ingiustizia del comportamento dei Proci risiede non tanto nella loro pretesa che Penelope scelga fra essi un nuovo marito, quanto nel modo in cui essi agiscono all’interno del palazzo di Ulisse, cioè come un esercito di occupanti, brutali e dilapidatori del patrimonio altrui; ingiustizia che viene ulteriormente sottolineata dal modo in cui trattano il misterioso mendicane straniero, che poi è Ulisse medesimo, violando, cioè, le leggi dell’ospitalità e del rispetto dovuto a un uomo solo, anziano e infelice.
E tuttavia, è significativo il fatto che né nell’Iliade, né nell’Odissea, si parli in modo aperto della giustizia (dikē), ma sempre e solo dell’uomo giusto e dell’uomo ingiusto, definiti, a loro volta, non dalla giustizia in astratto, bensì dall’azione giusta e dall’azione ingiusta, che si possono riconoscere, a loro volta, dal fatto di rispettare oppure di calpestare le leggi dell’onore, della lealtà (verso i propri pari), dell’ospitalità e, in genere, del senso della misura, il cui opposto è la hybris, la dismisura, l’arroganza sconsiderata, la quale suscita lo sdegno e, presto o tardi, la punizione da parte degli dèi. Certo, sappiamo che i greci dell’età omerica non conoscevano ancora il concetto, nel suo preciso significato filosofico (del resto, non conoscevano neppure la filosofia in quanto tale); ed è tuttora incerto a chi si debba attribuire la sua scoperta, se a Socrate, come afferma Aristotele, oppure allo stesso Stagirita. Non deve perciò destare alcuna meraviglia il fatto che gli autori dei due poemi omerici sottintendano il nostro concetto di giustizia, cioè la nostra idea, unitaria e coerente, di ciò che è "giusto" in linea generale, piuttosto che definirla in se stessa, il che richiederebbe la sua concettualizzazione; e che la sottintendano mediante una serie di azioni, o di parole, che acquistano un chiaro significato etico attraverso il loro valore esemplare. Ciò che conta non è la descrizione di questo o quel comportamento, o il riferire questo o quel discorso, ma la tonalità, per così dire, di cui si colorano, suscitando nel lettore un senso, voluto e non casuale di approvazione o disapprovazione nei loro confronti. Il lettore, ad esempio, percepisce che il contegno di Agamennone verso Achille è ingiusto, e ciò lo rende edotto di quel che quella società pensava della giustizia.
A questo proposito, vale la pena di riflettere su una pagina del filologo Eric A. Havelock (1903-1988), già professore di letteratura greca e latina all’Università di Harvard, contenuta in un suo volume ormai classico, Dike. La nascita della coscienza (titolo originale: The Greek Concept of Justice, from Its Shadow in Homer to Its Substance in Plato, Harvcard University Press, 1978; traduzione dall’inglese di Manfredi Piccolomini, Bari, Laterza, 1981, 1983, pp. 234-236):
Più sopra ho fatto notare che gli "aspetti morali" dell’"Odissea", e cioè quei termini di approvazione o di disapprovazione impiegati nel verso epico, non fanno altro che identificare la conservazione e il buon comportamento come cose positive, e l’eccesso e la stravaganza come cose negative, e che ciò è un riflesso del fatto che un certo senso di "giustizia" è ciò che ognuno ha il "diritto" di aspettarsi dai comportamenti umani in determinati casi, e da parte di determinate persone. È un senso che corrisponde senso che corrisponde a "dikē" considerata come una procedure legale per la riparazione delle offese e la soddisfazione dei diritti. In questa serie di formule è possibile reperire una dimensione di significati più vasta. Se consideriamo la serie come interconnesse i simboli come uniti per associazione, incominciamo ad accorgerci che "l’uomo giusto" fa qualora di più semplicemente ubbidire ai "mores" e conservarli. Egli evita atteggiamenti e azioni aggressivi ("hybris" può indicarli ambedue) e la violenza fisica che i accompagna. Ho sostenuto che un confronto di qualche genere è l’elemento essenziale della storia che deve essere imparata a memoria. Tuttavia la "morale" della storia, per così dire, è che si dovrebbe preferire il compromesso al confronto. Questo è l’ethos sociale che la storia indirettamente conserva e raccomanda: sembra la stessa lezione dell’"Iliade". L’uomo giusto, se preferisce l’ordine all’oltraggio, viene pensato anche come colui che preferisce la pace alla guerra, perché l’ordine è una condizione sociale e non solo individuale.
I contesti narrativi che contengono queste formule suggeriscono un’ulteriore dimensione. I confronti che avengono, non avvengono tra contendenti all’incirca forti in modo uguale, come nell’"Iliade", ma tra forti e deboli. L’"Iliade" dimostra una coscienza soltanto parziale dell’oltraggio nelle vicende umane. In particolare è quando Atena compare che ad Achille vien fatto di chiedere: "Sei venuta a contemplare la ‘hybris’ di Agamennone?". Essa impone la sua propria formula per risolvere il confronto, ma lo rassicura: "Sarai ricompensato tre volte tanto per questo suo oltraggio". Nelle successive trattative tra i due antagonisti, fino al momento della riconciliazione, il termine non ricompare. Nell’"Odissea" l’antitesi tra l’uomo giusto e l’uomo oltraggioso è continuamente proposta sotto forma di giustapposizioni con confronti tra benefattore e supplice, cittadino e straniero, e infine tra uomini ricchi e uomini bisognosi. Quest’ultimo elemento è davvero sorprendente, inserito com’è, quasi con un "tour de force" all’interno di un poema epico carico di fantasia eroica. Il carattere di Odisseo quale "eroe" della storia (per usare termini moderni) è infatti definito dal suo paternalismo, dalla sua gentilezza, la sua civiltà e la sua benevolenza nei confronti dei dipendenti. Anche questi elementi costituiscono formule orali. Esse non si soprappongono a quelle che riguardano l’antitesi tra l’uomo giusto e il suo opposto; il contesto nel quale sono inserite non lo rende possibile. Ma il modo in cui la storia è raccontata contiene implicitamente la lezione che questo tipo di uomo è anche l’uomo giusto, il modello raccomandato. In questo ruolo Odisseo diviene il portavoce adatto a pronunciare una lezione non di trionfo ma di moralità, secondo l’etica del tempo, sopra i corpi dei suoi nemici. La giustizia resa al non-cittadino, allo straniero dentro le porte, ha la sua controparte in quella resa ai cittadini poveri da parte dei cittadini privilegiati. Tale fu la regola di Solone, il legislatore della sua città.
E tuttavia il poema non dice tutto ciò, e dobbiamo guardarci dal non esagerare nel concettualizzare cosa dice. è possibile parlare di "giustizia" nell’"Odissea" solo se il termine viene messo tra virgolette. Non vi è alcun concetto di giustizia, nel nostro senso, nell’epica greca. Ciò che abbiamo osservato sono commenti sulle azioni di uomini giusti e i loro oppositori, e in che modo la "cosa giusta" operi in determinati casi. Il "pensiero" del poema epico su questi argomenti risulta dal modo in cui la storia viene raccontata. L’agente, con le sue azioni e le sue parole, prevale sull’idea, la quale solo dal nostro punto di vista risulta contenuta nella dizione della narrazione , ma in realtà avrebbe bisogno di una sintassi dell’espressione non disponibile; essa infatti sarebbe estranea al carattere tutto particolare del linguaggio conservato oralmente degli uomini del primo periodo della storia greca, i quali potevano ricordare ma non leggere.
Ora, siamo propensi a credere che l’assenza del concetto di giustizia dai poemi omerici, pur essendo entrambi sostanziati da una forte esigenza etica, non dipenda tanto da una carenza di ordine filosofico né, tanto meno, etica, quanto piuttosto da una carenza religiosa. Perché l’Ethos abbia un saldo ancoraggio, e con esso l’idea della Dikē assoluta, non opinabile, né aleatoria, è necessario che vi sia un Nomos; ma il Nomos, per aver forza cogente, deve per forza essere garantito dal divino. Se si tratta di un Nomos affidato all’umano senso di rispetto, ciò non è assolutamente sufficiente a garantire la giustizia fra gli uomini, perché gli uomini non sono capaci di darsela da soli. Il massimo esempio d’ingiustizia, che travalico dall’umano al barbarico e al bestiale, è il comportamento di Polifemo, omicida e cannibale dei suoi infelici ospiti; ma Polifemo è figlio di un dio, e appunto la vendetta di Poseidone contro Ulisse per l’accecamento del suo figlio è il motore narrativo dell’Odissea. Ma non solo i figli degli dei passano la misura della giustizia (si pensi anche ad Achille, figlio di Teti, che si vanta delle proprie stragi sanguinose sul fiume Scamandro e sfida gli dei a fermarlo, se ne sono capaci); anche gli dèi olimpici, agitati da umane passioni, sono capaci di tanto. E se perfino gli eterni sono incostanti e inaffidabili nel presidiare il giusto e difenderlo da ciò che è ingiusto, dove possono gli umani trovare un presidio al loro bisogno di giustizia? Perché un tale bisogno, in essi, certamente esiste: lo si deduce, come osserva giustamente l’Havelock, dal modo in cui sono narrate le vicende e sono presentati i personaggi dei poemi omerici. La servitù di Ulisse, per esempio, durante la sua lunga assenza, si divide nettamente in due campi opposti: i servi infedeli, e perciò ingiusti, che si mettono al servizio dei Proci, e quelli fedeli e perciò giusti, il cui prototipo è il porcaro Eumeo; e si noti che la giustizia di Ulisse risalta proprio dal modo in cui viene descritto il suo atteggiamento verso Eumeo, prima della partenza per la guerra: benevolo, affettuoso, paterno. E di nuovo, nel racconto di Eumeo al finto medicante, ritorna il motivo della vigilanza divina sulle azioni giuste o ingiuste degli uomini (Odissea, XIV, 109-116 versione di Guido Vitali): Ospite, or dunque cibati di questa / che tocca ai servi carne di porchetto; / i verri grassi vanno in bocca ai Proci, / che non hanno nel cuor pietà nessuna, / timor non hanno di celesti pene. / Ché non amano l’opere malvage / gli ei beati; e onoran solo il giusto / e pregiano le buone opere umane. Ma, di nuovo: è forse giusta l’ira di Poseidone contro Ulisse? E sarà giusta l’ira di Giunone contro Enea? Proprio questa amara riflessione sull’ingiustizia degli dei strapperà a Virgilio la famosa esclamazione: Di tanta ira sono capaci gli dèi? (cfr. il nostro articolo: Di tanta ira son capaci i Celesti?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 09/03/14, e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 30/03/18). D’altra parte, non è solo una questione di veder garantito, da una forza superiore, il senso della giustizia; c’è anche un’altra questione in gioco, e cioè che il senso della giustizia ha un significato se esiste un senso della vita. Ma se la vita non ha senso, se è solo un inutile succedersi di generazioni, come le foglie che il vento porta via, per dirla come Glauco a Diomede nel sesto libro dell’Iliade, allora a che serve la giustizia, e cosa la differenzia dall’ingiustizia? La giustizia ha senso in un mondo sensato; ma in un mondo dominato dall’assurdo, a chi importa di lei? Anche per questa via, si torna inevitabilmente alla questione religiosa. La religione dei greci era del tutto insufficiente a garantire sia la giustizia fra gli uomini, sia il significato superiore della vita; e lo dimostra la concezione che essi avevano dell’aldilà, visto essenzialmente come una copia sbiadita dell’al di qua. Non si finirà mai di rilevare quale immenso progresso morale abbia fatto compiere all’umanità l’affermazione del cristianesimo. Solo nel cristianesimo sia il presidio della giustizia, sia l’affermazione del senso della vita, trovano la piena e incrollabile realizzazione nel cuore del divino, ossia nell’Amore paterno di Dio e nel Sacrificio incondizionato, assoluto, del suo Figlio. Rispetto alla concezione angosciosa e pessimistica degli antichi, si tratta di un passo avanti gigantesco, addirittura incommensurabile. E senza dubbio è proprio questo che infastidisce la cultura moderna: dover ammettere che, pur con tutti i rinascimenti e gl’illuminismi del mondo, solo col Vangelo di Gesù gli uomini trovano un senso e un fondamento.
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