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I conservatori sono per forza di cose gente ‘piccola’?

I conservatori sono per forza gente "piccola", dalle idee piccole, meschine, limitate,? E, viceversa, i soli uomini che abbiano la possibilità di essere veramente dei "grandi" provengono dal campo progressista? In altre parole: è un destino, inscritto nel loro statuto ontologico, che i grandi siano tutti dei progressisti, mentre i conservatori devono contentarsi, al massimo, del riconoscimento di alcune qualità, infallibilmente però di seconda scelta o di corto respiro? Questo è, di fatto, quel che dice la cultura odierna, il pensiero mainstream e politically correct; e lo insegna, direttamente o indirettamente, dai banchi di scuola, dagli schermi del cinema, dai piccoli schermi televisivi, dai romanzi, dalle poesie, dai saggi, perfino dalle pagine di cronaca dei giornali e dai discorsi, ufficiali o ufficiosi, dei politici e degli amministratori pubblici; per non parlare dei sermoni quotidiani di quella speciale categoria di persone, i sedicenti intellettuali, che sono tutti, per definizione, progressisti (titolo che si danno da se stessi), sicché le due parole, intellettuale e progressista, sono diventate senz’altro dei sinonimi. Ma non è proprio questa la spia del fatto che siamo in presenza di un circolo vizioso? Se i progressisti, dopo aver occupato pressoché tutti gli spazi della cultura, dell’informazione, dell’educazione pubblica, distribuiscono i diplomi di "grandezza" e "piccolezza" a seconda della loro rispondenza all’ideologia progressista, evidentemente c’è qualcosa che non fila. Il giudice non può essere anche avvocato, e l’arbitro non può mettersi a tirare in porta al fianco di una squadra e contro l’altra.

Ad ogni modo, l’incongruenza di questo circolo vizioso è stata ignorata e anzi il circolo è stato promosso a criterio di verità infallibile e indiscutibile: ne deriva che basta vedere se un certo personaggio è stato progressista o conservatore, per dedurne se sia stato un grande o un piccolo, e se le sue idee siano state, come lui, grandi o piccole. Ciò vale, naturalmente, anche per la storia ecclesiastica, tanto più che nella Chiesa cattolica, a partire dal Concilio Vaticano II, i progressisti hanno preso gradualmente e implacabilmente il sopravvento in una istituzione che era considerata tipicamente conservatrice, per cui il suddetto criterio "storico" è stato applicato, retroattivamente, a tutti i papi, ai personaggi significativi nella storia del cattolicesimo, e perfino ai santi e ai beati — per non parlare del Vangelo stesso e perciò della figura e della missione di Gesù Cristo in Persona. Ed ecco spiegato perché, specialmente sotto l’attuale (falso) pontificato, si sente parlare sempre, dagli esponenti del clero più in vista, di don Milani, di padre Turoldo, di monsignor Tonino Bello, di don Andrea Gallo, del cardinale Martini, tutti immancabilmente presentati come precursori o continuatori dello "spirito" (?) del Concilio, mentre non si sente più parlare, o quasi, di santi come suor Lucia dos Santos, Leopoldo Mandic, padre Pio da Pietrelcina, Faustina Kowalska, Massimiliano Kolbe. Non che questi ultimi fossero tutti, necessariamente, in politica (se pure avevano opinioni propriamente politiche) qualificabili come conservatori; ma erano uomini e donne profondamente spirituali, dei mistici, quindi l’opposto, secondo il giudizio dei cattolici progressisti, del tipo di religioso che essi apprezzano in maniera esclusiva: il prete di strada, la suora anticonformista, il vescovo amico di atei, massoni e anticlericali. E tanto basta a squalificarli automaticamente dal paradiso dei "grandi" e ad espellerli dall’Olimpo delle figure che un buon cattolico deve prendere a modello della propria vita. Sempre in omaggio alla "chiesa degli ultimi" (intesi solo in senso socio-economico) e alla pastorale del fare, intesa come prevalente rispetto alla dottrina e alla verità, come insegna, ereticamente e indegnamente, il signore argentino che si spaccia abusivamente per papa.

Esemplare, in questo senso, è la riflessione candidamente svolta da Carlo Falconi (1915-1998), giornalista, vaticanista, sacerdote dal 1938 al 1949, allorché lasciò la Chiesa cattolica, a proposito del pontificato di Pio X, ma da lui stesso estesa ai conservatori in generale (da: C. Falconi, I Papi del ventesimo secolo, Milano, Feltrinelli, 1967, pp. 87-88):

Lasciandosi caratterizzare soprattutto dalla reazione antimodernistica, il pontificato di Pio X finì inoltre per essere travolto esso stesso, in gran parte, sotto le rovine accumulate. Di una cosa, infatti, non c’è il minimo dubbio: dell’aspetto di incompiutezza, e come di sospensione, di fermo inatteso che a un tratto lo paralizzò lasciando in abbandono tutte o quasi le iniziative in programma. Non c’è che da constatare la cronologia delle varie riforme intraprese dal Sarto: tutte, senza eccezione, risalgono al primo quinquennio del suo pontificato e solo qualcuna ha avuto parziale prosecuzione o compimento in seguito. Ebbene, questo non è senz’altro avvenuto per un improvviso cedimento delle forze fisiche del pontefice, non essendovene traccia. E solo in parte per l’esaurimento del modesto bagaglio d’idee portate dal buon parroco campagnolo. Per modeste che fossero, infatti, tali idee, Pio X aveva appena incominciato ad attuarle: come mai allora furono portate avanti fino a un certo grado di sviluppo e poi lasciate in tronco? La risposta è tutt’altro che enigmatica: ed è fornita appunto dalla massiccia reazione antimodernistica a cui fu data precedenza assoluta e immediata su ogni altra attività.

Certo il pontificato di Pio X difficilmente sarebbe stato un grande pontificato. Per fare la grande storia occorrono le grandi idee, e Pio X non ne aveva che di modeste e in quantità limitata. L’angustia della sua mentalità è persino evidente nel settore che gli era più affine, quello dell’attività pastorale. Il fatto che da parroco, a Salzano, egli avesse avuto l’iniziativa d’accaparrarsi persino la ghiaia per il comune o il posto di direttore didattico delle scuole elementari, prova più che altro la sua industriosità nel far fronte ai debiti contratti dalla sua carità e non certo una larghezza di vedute nei metodi di apostolato. Egli non pensò, come don Bosco, agli oratori per la gioventù, o, come altri suoi confratelli, alle mutue per i contadini. È il destino dei conservatori di non aprire mai nuove vie verso il futuro e di non poter essere veramente grandi. Richard, a Parigi [François-Marie-Benjamin Richard de la Vergne, arcivescovo di Parigi dal 1886 al 1908], nonostante il suo zelo, si rifiutò ad esempio di costruire nuove chiese nella "banlieue" di cui pure ammetteva la crescente scristianizzazione. Ma c’è ancora di peggio per i conservatori: che quasi mai avvertono la bontà delle nuove iniziative, anche quand’è patente.

Questa pagina p un perfetto esempio di come i progressisti, laici o cattolici, fanno la storia e, più in generale, di come ragionano a proposito di qualsiasi cosa, fatto o persona. Certo, caro Falcioni non è un vero storico e perciò si possono addebitare alla sua sciatteria giornalistica certi passaggi, certi ragionamenti che ben poco hanno di rigoroso o anche soltanto di coerente. E tuttavia, il suo modo di raccontare il passato è lo stesso che si riscontra anche negli storici di professione e in genere in tutti gli intellettuali dell’area progressista; possiede, perciò, un valore paradigmatico, ed è per questo motivo che intendiamo soffermarci un po’ su di esso. In particolare, essi danno per scontato che le loro pregiudiziali, per non dire i loro pregiudizi, di matrice prettamente ideologica, siano delle leggi storiche dalla validità universalmente riconosciuta, per cui non si danno la pena di dimostrare certe loro affermazioni, le quali, per essi, sono talmente evidenti, da non aver bisogno di alcuna ulteriore spiegazione.

Chi lo dice, tanto per cominciare, che il pontificato di Pio X si lascia caratterizzare soprattutto dalla reazione antimodernistica? Se studiosi come Falconi non vedono altro, nel pontificato di Pio X, che la reazione antimodernista, o poco più di quello, forse il problema loro; e nasce da un loro nervo scoperto, non da un elemento oggettivo. Certo, è verissimo che Pio X dedicò moltissime energie a contrastare quella che giudicava, e a ragione, come la discarica di tutte le eresie; ma sarebbe ingeneroso e poco obiettivo non vedere gli altri aspetti del suo pontificato, quelli di segno positivo e costruttivo e non meramente repressivo. Basterebbero le riforme liturgiche e, in particolare, quella della musica sacra, del canto sacro e della catechesi ai fanciulli — sopravvissuta fino al Concilio Vaticano II — per fare di lui un papa riformatore. Ma questo, uno storico progressista non lo può ammettere, per la semplice ragione che la sua mente non arriverebbe neppure a comprenderlo. Abituato a ragionare in termini strettamente e rigidamente manichei, il progressista fa l’equazione automatica fra conservatorismo e contrarietà a qualsiasi riforma, per cui l’idea che un papa possa essere sia un conservatore, sia, allo stesso tempo, un riformatore (non un riformista, che è un’altra cosa) non gli sfiora neppure la mente. Poi, Falconi osserva che tutte le riforme di Pio X — dunque, ne fece e ne fece più d’una — hanno qualcosa d’incompiuto e tutte risalgono alla prima fase del suo pontificato, perché poi la sua preoccupazione antimodernista prese il sopravvento su ogni altra cosa e fece sì che egli si concentrasse quasi solo in tale azione. E anche in questo caso, ma lo stesso discorso vale per tutti gli studiosi cattolici di parte progressista, non lo sfiora la mente che, per poter giudicare in maniera obiettiva una certa azione di governo, compreso il governo della Chiesa cattolica, è necessario fare una proporzione tra il fine che si persegue e i mezzi atti a realizzarlo. Ora, per giudicare se l’azione antimodernista di Pio X fu tale da assorbirlo in maniera sproporzionata rispetto a tutto il resto, bisogna cercar di stabilire se il modernismo fu, oppure no, una gravissima eresia e se pertanto rappresentò, oppure no, un pericolo mortale per la Chiesa cattolica e per la fede cattolica. Quasi tutte le storie della Chiesa moderna e contemporanea di parte cattolica, per non parlare di quelle laiche, tendono a far credere che il modernismo sia stato, più o meno, un pericolo immaginario; che non fosse neppure una vera eresia, ma tutt’al più un eccesso di zelo apostolico; che, addirittura, a crearlo sia stato Pio X, dandone una definizione molto precisa e articolata nell’enciclica Pascendi Dominci Gregis, nel senso che egli attribuì erroneamente un carattere unitario a ciò che, in effetti, era solo un insieme, slegarto e disorganico, di tendenze, idee e personaggi che poco o niente avevano in comune. Ora, se le cose stessero effettivamente così, se cioè Pio X avesse sostanzialmente frainteso la vera natura di quello che è stato chiamato modernismo, e, di conseguenza, se avesse anche enormemente ingigantito il pericolo che esso rappresentava per la vita della Chiesa e per la fede del popolo, l’accusa di essersi lasciato sopraffare dalla sua ossessione sarebbe pertinente, e così quella di aver trascurato il resto, e di aver lasciato incompiute le riforme già avviate. Ma se, al contrario, il modernismo fu tutt’altro che una invenzione o un’esagerazione di papa Sarto; se esso fu realmente una minaccia gravissima per la Chiesa e per la fede cattolica, allora fu cosa giusta e necessaria che egli concentrasse la sua azione allo scopo di reprimerlo, anche, eventualmente, al prezzo di trascurare altri aspetti della sua azione di governo. Se la casa sta bruciando, ci si concentra sullo spegnimento dell’incendio; per altre iniziative di stabilità o miglioramento della casa, si aspettano tempi migliori. Una cosa, crediamo, non è giusta, né storicamente corretta: presentare Pio X come un visionario, ossessionato da pericoli immaginari e fossilizzato in un atteggiamento difensivo rispetto al mondo. Ma comprendiamo che c’è una precisa ragione per presentare le cose a questo modo: quel modernismo, che egli tanto energicamente volle combattere, fermentando nelle cantine e ingrossandosi con l’apporto di nuove tendenze ereticali – dal semi-panteismo evoluzionistico di Teilhard de Chardin, alla nouvelle théologie, alla svolta antropologica di Kar Rahner, alla teologia della liberazione – non solo è riemerso in piena luce, ma, addirittura, ha preso il timone della Chiesa cattolica. Logico, dunque, che ora si voglia minimizzare la sua dimensione ereticale, allorché Pio X la vide e lanciò l’allarme: si tratta di far passare come normali, legittime e anzi veramente "cattoliche", una serie di riforme, avviate a partire dal Vaticano II, che cattoliche in realtà non lo sono, per cui vi è necessità di tener celato alla gente il fatto che dal Concilio, grazie all’eredità del modernismo, è emersa una chiesa apostatica, una vera e propria contro-chiesa. Ma per carità, non bisogna dirlo; bisogna, al contrario, far sì che tutto sembri come prima! Ed ecco spiegata anche la meschinità del giudizio complessivo sulla figura stessa di Pio X, specie sulla sua supposta limitatezza culturale: vedi il modesto bagaglio d’idee portate dal buon parroco campagnolo. È quasi la stessa espressione di Ernesto Buonaiuti, il quale lamentava, nelle Lettere di un prete modernista, di aver a che fare con un papa così ignorante e contadino! Sì: papa Sarto era un parroco di estrazione contadina: e questo è, per noi, un elogio; mentre i progressisti, in casi come questo, non riescono a celare la maledetta puzza sotto al naso che hanno di fronte al popolo, del quale tuttavia si proclamano i soli paladini autorizzati. Insomma, Pio X non fu, né poteva mai essere, un grande papa, perché non aveva grandi idee? Si vede che instaurare omnia in Christo, per Falconi, è un’idea piccola. Anche per Begoglio, per Paglia, per Galantino, per Kasper ed Enzo Bianchi è un’idea piccola. Essi, che sono uomini dalle grandi idee, pensano che parlare troppo di Cristo sia meschino e provinciale; e specie ricordare che Cristo è Dio.

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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