Badate a voi, oligarchi: sta montando l’ira dei miti
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19 Agosto 2019Sul rapporto tra fascismo e democrazia, e più precisamente sull’interpretazione del fascismo come critica ragionata e come reazione "responsabile" (checché se ne voglia pensare) alla democrazia, ci sono due cose da dire, in via preliminare, senza le quali si rischia di fare discorsi ambigui, confusi, generici, privi di sostanza, e soprattutto viziati da un’ideologia preconcetta (come lo sono tutte le ideologie, quindi anche l’antifascismo). L’una esige una precisa contestualizzazione delle idee e degli eventi dei quali stiamo parlando; l’altra, invece, si pone su un piano di riflessione politica generale, però sgombrando il terreno da pregiudizi che, se non riconosciuti come tali, rendono impossibile una vera comprensione dei fatti e anche delle idee.
La prima cosa da dire è che il fascismo, quando sorse come movimento, quando prese il potere come partito politico, e quando cercò di fascistizzare l’Italia come dittatura tendenzialmente totalitaria, non venne a interrompere, in maniera più o meno brutale — qui i giudizi sono discordi — una evoluzione sicura e ordinata dallo Stato liberale alla democrazia. Nel 1919 non c’era alcuna ombra di democrazia in vista, neppure nel più lontano orizzonte: c’era il caos del dopoguerra, più simile al dopoguerra di una nazione sconfitta che a quello di una nazione vittoriosa; c’erano i socialisti che scalpitavano per fare la rivoluzione, possibilmente secondo il modello bolscevico; c’era un generale scollamento delle istituzioni, della struttura dello Stato, delle relazioni fra le classi, del senso di coesione nazionale. Nel 1922, al tempo della marcia su Roma, la situazione era un po’ diversa, ma non perché i conflitti si fossero ricomposti — al contrario, il clima era quello di una guerra civile a bassa intensità – bensì perché una delle parti in lotta, il fascismo appunto, aveva preso decisamente l’offensiva e stava imponendo al Paese la sua soluzione ai problemi della nazione, cavalcando l’onda dello "spirito del Piave", cioè facendo appello alle energie spirituali e materiali mobilitate dalla guerra mondiale e che avevano salvato la Patria dopo la catastrofe di Caporetto e anzi consentito la ripresa, culminata nella rivincita del Piave e in quella, finale, di Vittorio Veneto. Infine nel 1925-26, quando il regime divenne dittatura con velleità totalitarie, mai peraltro pienamente realizzate, la società era stata pressoché pacificata, l’economia stabilizzata, le istituzioni ripristinate, lo spirito nazionale rivitalizzato: al prezzo, è chiaro, della libertà intesa nel senso in cui la intende la democrazia. La quale democrazia, però, non c’era e non c’era mai stata; per la società italiana si trattava di un oggetto sconosciuto. Pertanto è anacronistico e scorretto affermare, o anche, come si fa più spesso, suggerire, pur senza dirlo, che il fascismo pacificò il Paese e ne restaurò il prestigio, all’intermo e all’estero, distruggendo la democrazia o, il che è non è molto differente, distruggendo i germi di democrazia che esistevano in esso. Non c’erano germi di democrazia nell’Italia del 1919, né in quella del 1922, e neppure in quella del 1925. I liberali avevano mostrato la loro totale incapacità di guidare la nazione, sia in guerra che nell’ancor più difficile dopoguerra. I socialisti eccitavano irresponsabilmente le masse, fomentavano le divisioni e le contrapposizioni, sostenevano rivendicazioni sindacali irrealistiche, per non dire assurde: c’era uno sciopero al giorno, una manifestazione a ogni piazza, una protesta o una occupazione in ogni angolo del Paese. I cattolici, dal canto loro, non avevano una tradizione politica e navigavano a vista. Nessuna delle forze politiche anteriori al 1919 aveva la minima idea di come portare il Paese fuori dal caos, di quale ricetta somministrargli, tanto sul piano politico e istituzionale quanto su quello economico e sociale. Nella Valle Padana spadroneggiavano le leghe rosse; nel triangolo industriale, gli operai occupavano le fabbriche; al Sud i contadini occupavano le terre; ovunque i ferrovieri bloccavano i treni, senza preavviso, in mezzo alla campagna; i salari erano crollati, il costo della vita era schizzato a livelli mai visti, l’erario era esausto, il Parlamento svilito e screditato. In effetti, il Parlamento aveva ricevuto un colpo mortale dal patto di Londra del 1915, quando tre personalità — il re, il capo del governo e il ministri degli Esteri — lo avevano scavalcato e persino fissato la data dell’entrata in guerra, senza minimamente consultarlo e anzi calpestando la sua volontà, che in maniera non equivoca si era espressa, a maggioranza, per il mantenimento della neutralità. Gli storici democratici e antifascisti, da sette decenni, rimproverano a Mussolini di aver deciso da solo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940; ma c’era un precedente autorevolissimo, quello di Vittorio Emanuele III, di Salandra e di Sonnino nel 1915. Il Parlamento italiano era veramente un’aula sorda e grigia, un luogo d’intrallazzi e corruzione, una istituzione incapace di prendere le decisioni più essenziali, anche perché formata da uomini che rappresentavano solo settori isolati della società, incapaci di considerare il quadro complessivo e perciò di ragionare, e soprattutto di agire, nella prospettiva del bene comune.
La seconda cosa che è indispensabile mettere bene in chiaro, prima di entrare nel merito della discussione sul rapporto tra fascismo e democrazia, è che la vittoria delle democrazie nel 1945 (quelle anglosassoni, sia ben chiaro; le altre, quelle restaurate o create dopo la Seconda guerra mondiale, non fanno testo) ha avuto l’effetto di suggellare la democrazia come la sola possibile forma di governo per un Paese civile, la sola all’altezza dei tempi, la sola dotata di un’intrinseca dignità: insomma la sola degna di esistere; e ciò ha fatto sì che i suoi difetti — i difetti di una qualsiasi democrazia, non di questa o quella democrazia — vengano sistematicamente minimizzati o addirittura ignorati, e le sue virtù esaltate oltre ogni limite propagandistico. Pertanto, la discussione sul rapporto tra fascismo e democrazia dopo il 1945 non si é mai svolta, né in sede storiografica, né in sede politica, con un minimo di obiettività, ma sempre in un clima pesantissimo di pregiudizio dei vincitori nei confronti dei vinti. Qualsiasi tentativo di riportare la discussione e il confronto fra i due sistemi politici, quello fascista e quello democratico, ha sempre cozzato contro il muro d’acciaio dell’antifascismo militante, inteso come abito obbligatorio sia per gli storici, che per gli uomini politici; qualsiasi tentativo di esaminare con più serenità il programma e l’opera del fascismo è stato denunciato come un tentativo di revisionismo e di riabilitazione di quel regime e di quella ideologia. Si sono usati costantemente due pesi e due misure sia nello studio dei fatti, sia nella loro interpretazione, che è il cuore della scienza storica. Per fare solo un esempio: il New Deal di Roosevelt, negli anni ’30 del secolo scorso, è sempre stato esaltato, dalla stragrande maggioranza degli storici, come la risposta progressiva e illuminata dello Stato democratico contro gli effetti devastanti di una crisi finanziaria dalle dimensioni apocalittiche; ma gli stessi storici, quando si trovano a dover studiare e giudicare la politica economica e sociale del fascismo di fronte alla medesima sfida, la crisi determinata dal crollo della borsa di Wall Street nel 1929, usando un metro completamente diverso, anche se, di fatto, la ricetta elaborata e messa in pratica del fascismo non si differenzia in maniera sostanziale da quella americana, semmai si può parlare di un’influenza – peraltro non riconosciuta e mai ammessa — della ricetta fascista su quella statunitense. Con la non lieve differenza che il fascismo riuscì ad assorbire gli effetto della grande crisi prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, mentre il governo democratico di Roosevelt non ci riuscì; anzi gli Stati Uniti ebbero "bisogno" della partecipazione alla Seconda guerra mondiale per fare della produzione bellica il volano della loro ripresa economica.
Fatte queste due precisazioni, vediamo, con le parole stesse del fondatore del fascismo, quali sono le principali critiche che esso rivolse alla democrazia come sistema di governo. E a tale scopo, riportiamo alcuni brevi concetti espressi da Mussolini sul tema della critica alla democrazia, riuniti nel Breviario a cura di Giovanni Mattazzi, ma pronunciati nell’arco di quindici anni, fra il 1922 e il 1937, fra la marcia su Roma e la nascita dell’Impero e dell’Asse, in diverse occasioni, oppure scritti per la voce Fascismo della Enciclopedia Italiana (Milano, Rusconi, 1997, pp. 216-217):
Il fascismo nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere le società umane; nega che questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefica degli uomini che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco com’è il suffragio universale (1922).
Regimo democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete. La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re, talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un re solo che sia tiranno. (1922)
Nelle cosiddette grandi democrazie i disoccupati vivono di indolenza e di sussidi all’ombra di stabilimenti deserti, rifiutando di colonizzare gli imperi accaparrati, e la borghesia paga il tributo annuo ai disoccupati per ottenere una quiete sociale che è stasi e decadenza. (1936)
Il fascismo respinge nella democrazia l’assurda menzogna convenzionale dell’egualitarismo politico e l’abito dell’irresponsabilità collettiva e il mito della felicità e del progresso indefinito. Ma se la democrazia può essere diversamente intesa, cioè se democrazia significa non respingere il popolo ai margini dello Stato, il fascismo poté da chi scrive essere definito una "democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria". (1932)
Anche in terra di Francia, una delle superstiti tre "grandi democrazie", il concetto di libertà è assolutamente elastico, servizievole, sottoposto ai capricci degli uomini e delle stagioni. La Francia di Blum ha della libertà la nozione che ne ha il bolscevismo: libertà di parola e di riunione quando si tratta di apologizzare il fascismo; nel caso contrario: bavaglio e silenzio. (1937)
Ora il liberalismo sta per chiudere le porte dei suoi templi perché i popoli sentono che il suo agnosticismo nell’economia, il suo indifferentismo nella politica e nella morale condurrebbe, come ha condotto, a sicura rovina gli Stati. (1932)
Oltre le frontiere ci sono dei farneticanti, i quali non perdonano all’Italia fascista di essere in piedi. Per questi residui o residuati di tutte le logge, è veramente uno scandalo inaudito che ci sia l’Italia fascista, perché essa rappresenta un’irrisione documentata ai loro principi, che il tempo ha superato. Essi hanno inventato il popolo, non già per andargli incontro alla nostra franca maniera, ma lo hanno inventato per mistificarlo e dargli dei bisogni immaginari e dei diritti illusori. (1932)
Riassumendo, le critiche più forti che Mussolini muove alla democrazia sono le seguenti:
1) La democrazia si basa su una menzogna, quella per cui il numero, cioè la maggioranza dei cittadini, possa automaticamente dar vita al migliore dei governi possibili;
2) la democrazia livella i cittadini, indebolisce la libera iniziativa, incoraggia l’indolenza delle masse assistite dallo Stato, e al tempo stesso le inganna col mito della sovranità popolare;
3) la democrazia è autoritaria quanto i regimi dichiaratamente autoritari, sia perché ogni cittadino diventa un tiranno pronto a far valere i suoi diritti contro tutti, sia perché i veri poteri, quelli massonici e finanziari, agiscono stando nell’ombra e servendosi di uomini di paglia;
4) la democrazia cerca di affermare l’egualitarismo mediante il suffragio universale e vorrebbe sopprimere ogni diseguaglianza fra i cittadini, ignorando il fatto che la diseguaglianza è feconda, utile e necessaria allo sviluppo della società;
5) la democrazia alimenta l’irresponsabilità sociale e il doppio mito della felicità e del progresso illimitato, sempre sulla base della menzogna egualitaria;
6) contro i suoi critici, la democrazia sa essere dura, intollerante e poliziesca quanto le dittature;
7) il presupposto della democrazia è il liberalismo, ma il liberalismo, per sua stessa natura preoccupato del benessere individuale e indifferente alla dimensione spirituale e morale, anche a discapito del bene collettivo, è già in crisi nel mondo, perché incapace di dare risposte ai grandi problemi economici, sociali ed etici;
8) la democrazia ha inventato il "popolo" per meglio ingannarlo, manipolarlo, sfruttarlo;
9) la democrazia alimenta bisogni artificiali e fomenta diritti ingannevoli, lasciando ai popoli solamente l’illusione della sovranità e della libertà;
10) la democrazia odia il fascismo e vuole abbatterlo perché il fascismo ha messo al centro il popolo, coi suoi veri bisogni e le sue giuste aspettative, sfrondate dalla retorica e dalla demagogia.
Ebbene: ci piacerebbe che su questi dieci punti si aprisse, dopo settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, un minimo di discussione, pacata, rispettosa, equilibrata, senza scomuniche preventive o accuse di revisionismo miranti a imbavagliare il confronto delle idee. Le critiche di Mussolini alla democrazia sono proprio campate in aria? O hanno una certa plausibilità? E oggi che le democrazie degenerano ovunque in oligarchie, quelle critiche non sono forse più che mai attuali?
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash