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Ma non è per questo che noi li paghiamo

Due fatti, due piccoli fatti, se si vuole, in confronto ad altri che vedono implicati gli stessi soggetti e le stesse dinamiche; due fatti accaduti a poche decine di chilometri di distanza, nella parte d’Italia dove noi viviamo: ma siamo certo che altri, del tutto simili, accadono ormai ovunque, specie dove maggiore è la presenza di immigrati clandestini e dove più frequentemente transitano gruppi familiari di zingari.

Sabato 10 agosto, la notte delle stelle cadenti, in centro a Padova. La gente seduta ai tavolini a sorbire un gelato assiste a un’aggressione: tre o quattro nordafricani si scagliano contro un loro connazionale, lo insultano, le derubano, lo schiaffeggiano, lo spintonano; quello fugge, e loro dietro. Lo raggiungono più avanti, gli sferrano una coltellata, che però lo colpisce solo al braccio; nuova fuga, sempre più affannosa e nuovo inseguimento attraverso tutta la città per quanto è lunga, fino a giungere in salvo nel territorio "amico" dei suoi amici e parenti. A questo punto l’uomo, un giovane di ventinove anni, viene accompagnato sanguinante all’ospedale, assistito dal suo amico del cuore, diciamo pure dal suo innamorato: prognosi di quindici giorni. Dall’ospedale fa denuncia contro i suoi aggressori. E questo è il primo tempo.

Secondo tempo. Un gruppo di amici della vittima decide di compiere una spedizione punitiva per ristabilire l’onore del clan. Detto, fatto: si recano al bar dove era incominciato tutto, vicino al Prato della Valle, e vi trovano ancora gli aggressori; ne segue una violentissima zuffa che cessa solo all’arrivo delle forze dell’ordine, chiamate d’urgenza da una telefonata. Gi agenti fanno in tempo a raccogliere un magrebino con la testa rotta e sanguinante per una bottigliata, lo accompagnano in ospedale, dove gli fanno una prognosi di otto giorni, e qui, identificato, risulta essere uno dei denunciati dalla vittima dell’episodio precedente, per cui scatta il provvedimento di fermo giudiziario.

Terzo tempo. Non è ancora finita: gli amici dell’arrestato, non ancora paghi della prima spedizione e senza dubbio infuriati per la reazione dei "cugini", corrono all’ospedale per aggredire nuovamente il ventinovenne omosessuale e dargli il resto della sua razione. Uno degli energumeni solleva una fioriera e la scaglia contro una vetrata, mandandola in mille pezzi. Accorrono nuovamente gli agenti e lo bloccano, non senza qualche difficoltà: un poliziotto resta lievemente ferito e gli viene certificata una prognosi cinque giorni. Piccolo ma significativo dettaglio: alla fine risulta che tutte le persone coinvolte in questi fatti erano irregolari. Cioè, semplicemente, non avrebbero dovuto neppure essere in Italia. Alcuni di loro, come l’uomo dalla testa rotta a bottigliate, erano ben noti alle forze dell’ordine, con una lista di precedenti penali lunga così: reati contro il patrimonio, reati contro la persona, spaccio di droga. Eppure erano tutti liberi e a spasso per l’Italia, a fare danni e minacciare l’incolumità della gente. E intanto così è finita la notte brava dei tunisini, la notte di san Lorenzo, nella città di sant’Antonio.

Che cos’era successo? Era successo che due ragazzi tunisini, per la verità non giovanissimi, bensì quasi trentenni, non potendo vivere la loro storia d’amore in patria, dove rischiavano la galera, erano venuti in Italia al preciso scopo di potersi abbandonare alla loro passione, senza interferenze né da parte dello Stato, né delle rispettive famiglie. Ma le famiglie, al contrario, non la pensavamo così: il disonore di quella relazione omosessuale era intollerabile, bisognava levarselo di dosso. Di qui la spedizione del gruppo contro uno dei due ragazzi, per invitarlo, con metodi estremamente eloquenti, a lasciar stare per sempre il loro congiunto, a levarselo dalla testa. A suon di botte e rubandogli, già che c’erano, il cellulare e il portafogli. Morale: se la legge sullo ius soli trasformerà l’Italia nella sala parto dell’Africa, invogliando tutte le donne africane incinte ad arrivare con qualunque mezzo a Lampedusa o in qualche altro porto italiano, la legge Cirinnà sta già trasformando l’Italia nella terra d’asilo di tutti i gay africani e asiatici perseguitati nei loro Paesi a motivo dei loro gusti sessuali, e più che mai desiderosi di vivere sino in fondo i loro amori sotto il cielo più che ospitale della patria di Dante, di Michelangelo e di papa Francesco. A Padova, la notte di san Lorenzo, è finita relativamente bene: l’ordine pubblico è stato ripristinato al prezzo di un po’ di confusione, di qualche arredo in pezzi, di un pronto soccorso impegnato per medicare i galantuomini di cui sopra, di una vetrata infranta all’ospedale, di un certo spavento fra i passanti e i degenti della struttura sanitaria. Tuttavia poteva finire anche peggio; poteva scapparci il morto: e non è detto che non avrebbe potuto essere italiano.

Intanto, un poliziotto è rimasto ferito e ha dovuto farsi medicare: ferito per arrestare un energumeno venuto a spaccare tutto per lavare l’onta caduta sulla sua famiglia a causa degli amori gay di un congiunto. Però non è per questo che i cittadini italiani pagano le tasse, tasse con le quali sono pagati anche gli stipendi dei poliziotti e dei membri delle altre forze dell’ordine. Né per questo i poliziotti sono chiamati a prestare il loro servizio e a rischiare la vita, sotto forma di qualche coltellata, come è accaduto al carabiniere ucciso a Roma da un tossico americano che gli ha inferto undici fendenti con un coltello da guerra dalla lama di quasi venti centimetri. La vita dei tutori dell’ordine è preziosa quanto quella di chiunque altro, forse anche di più, perché essi hanno il compito di vigilare sulla sicurezza di tutti. Non è giusto, anzi è del tutto assurdo, che i poliziotti debbano rischiare la vita per bloccare le scenate di gelosia o di onore offeso di qualche africano incivile e violento. Come avviene in tutte le polizie di questo mondo, anche i nostri agenti avrebbero il diritto di difendere, prima di tutto, se stessi. Non sta a noi stabilire come, se usando lo spray al peperoncino nei casi meno gravi, o con la pistola in quelli più pericolosi, ma è certo che le regole d’ingaggio sono sbagliate e devono essere radicalmente riviste; più in generale, è tutta la filosofia del legislatore in fatto di ordine pubblico, e più ancora quella del potere giudiziario, che deve essere ripensata, come in una rivoluzione copernicana. Fino ad oggi, grazie ai frutti velenosi della cultura del ’68, le leggi sono state fatte per tutelare e garantire i delinquenti, non per proteggere le persone perbene e tanto meno per tutelare gli uomini in divisa. Oggi è cosa nota che un poliziotto o un carabiniere preferiscono non tirare fuori nemmeno la pistola, o perfino lasciarla in caserma, perché sanno che, se la usano, e sia pure per evidentissime ragioni di legittima difesa, rischiano più loro che i criminali che vanno ad arrestare, perché c’è sempre un giudice di sinistra che li accusa di eccesso nell’uso della forza e li tratta da criminali: loro, i difensori dell’ordine, quelli che ogni sera rischiano una coltellata perché noi, magistrati compresi, si possa girare per la strada relativamente tranquilli. I poliziotti devono conservare la loro vita per assolvere a compiti ben più importanti che riportare la calma fra due famiglie tunisine in guerra fra loro a causa degli amori gay di due dei loro rampolli. E cominciamo dal fatto che tutti quei tunisini, nel nostro Paese, non avrebbero dovuto neanche esserci. Avevano già commesso dei reati, erano già stati segnalati e arrestati, erano tutti clandestini: perché dunque non erano stati rimpatriati a forza? Perché non erano stati caricati sul primo aero in partenza per Tunisi, con biglietto di sola andata? A cosa si devono queste incredibili lacune, che peraltro ricorrono continuamente nei fatti di cronaca di questo genere? Chi non ha fatto il proprio dovere? Qualche magistrato? E cosa avrebbe dovuto dire la vedova di quel poliziotto a suo figlio, se un pezzo di vetro gli avesse reciso la carotide o l’arteria femorale, cosa che poteva capitare benissimo: Sai, devi essere fiero del tuo papà, che è morto da eroe per difendere il diritto di un giovane tunisino ad amare un altro uomo; è per questo che l’Italia è un grande Paese, ed è per questo che i gay di tutta l’Africa e di mezza Asia vengono qui da noi a cercar pace e serenità?

Ed ecco il secondo episodio. Lo stesso giorno e la stessa sera in cui Padova era scombussolata dalle faide pro e contro di due opposte consorterie magrebine, il sindaco di un piccolo centro alle porte di Montebelluna, Caerano San Marco, si recava presso un accampamento abusivo di nomadi per notificar loro che se ne dovevano andare. Li aveva già avvertiti poche ore prima, e quelli si erano spostati: di qualche centinaio di metri. Si erano accampati e avevano cominciato, come al solito, a seminare rifiuti tutto attorno, al punto che il luogo pareva una discarica a cielo aperto. Ma alla seconda intimazione, gli zingari hanno reagito con estrema violenza. Prima uno di essi ha scagliato una caffettiera contro l’auto del sindaco, rompendo un finestrino; poi due di loro lo hanno bloccato per le braccia, mentre un terzo, corpulento, ha preso a pestarlo a sangue, fratturandogli due costole, rompendogli il setto nasale e causandogli la tumefazione dell’occhio. Poi l’omaccione ha detto che andava a prendere il fucile per sparargli e si è diretto verso il camper. A quel punto l’ostaggio, divincolandosi, è riuscito a risalire in macchina e a mettersi in salvo. In ospedale gli hanno formulato una prognosi di quindici giorni. Gli zingari, nel frattempo, hanno tagliato la corda e quando sono arrivati i carabinieri hanno trovato solo i resti del loro bivacco. Ora li stanno cercando, perché è partita la denuncia (e se non partiva?), anzi li hanno già identificati. Il fatto, però, è di una gravità inaudita: fino a questo punto arriva l’arroganza e il disprezzo della legge di simili soggetti. E poi ci sono le anime belle che s’indignano perché il ministro Salvini ha usato l’epiteto razzista di zingaraccia. Ma chi vive da queste parti, sa cosa vuol dire aver sotto le finestre una accampamento abusivo di quei gentiluomini. Ci si chiede perché il sindaco sia andato laggiù da solo; e la risposta è che l’unico vigile del piccolo comune era in ferie. Di nuovo, sorge spontanea una riflessione: non è per questo che noi cittadini paghiamo le tasse, con le quali si pagano anche gli stipendi dei sindaci; fra i compiti dei sindaci non c’è quello di fare gli eroi e di rischiare la pelle per far sloggiare gli zingari dai luoghi di sosta non autorizzati. Se lo fanno, vuol dire che qualcosa non funziona nella catena dei servizi pubblici. Ognuno deve fare il suo mestiere: quello di intimare lo sloggio ai rom abusivi spetta alle forze dell’ordine. Eppure, quel povero sindaco ha fatto quel che credeva suo dovere: ha cercato di tutelare i suoi concittadini, e lo ha fatto a mani nude, contro gente che adopera il coltello e il fucile. Questa situazione è insostenibile, così non si può andare avanti. In un Paese normale, sono quanti violano la legge che devono aver paura, non quelli che la rispettano o che la fanno rispettare. E i sindaci sono pagati per amministrare bene le città, non per fare i tutori dell’ordine. Perché in quel caso non sono state interessate le forze dell’ordine? Di nuovo, si va a sbattere contro un muro di gomma: il muro delle incertezze giurisdizionali, delle sovrapposizioni di ruoli, delle ambiguità costituzionali. Pare sempre che non si trovi la persona giusta, l’istituzione giusta per fare quel che va fatto in qualsiasi Paese appena normale. E intanto i violenti, i delinquenti, gli spregiatori della legge se la passano a meraviglia, la fanno da padroni. Picchiando e minacciando un sindaco, hanno offeso e calpestato la dignità dello Stato e di tutta la società civile. Società che è formata da uomini e donne rispettabili, che lavorano, pagano le tasse, crescono dignitosamente i figli; mentre qui abbiamo a che fare con gente che non lavora, perlomeno se il furto, la rapina e lo spaccio non sono equiparabili a un’attività lavorativa (cosa peraltro di cui certi magistrati buonisti e inclusivi non sono del tutto convinti, viste le loro sentenze), che non pagano le tasse e non mandano i figli a scuola, semmai li avviano alla delinquenza, facendone dei provetti borseggiatori e degli splendidi mendicanti pseudo storpi e tetraplegici.

Due episodi piccoli, forse; ma due su cento, su mille, su diecimila che si verificano ogni giorno, qui e altrove. E che dire di quel ventitreenne senegalese che il 3 agosto, a Milano, si è rivoltato contro gli agenti che eseguivano un normale controllo e ha gridato all’agente che gli chiedeva i documenti: Tu non sei nessuno! Non ti mostro un cazzo! E se mi porti in questura, domani ti ammazzo! Oppure di quel senegalese che in provincia di Bergamo, il 7 giugno, ha violentato una commessa di 27 anni, aggredendola con un coltello, dopo aver collezionato altri precedenti per rapina e violenza sessuale, ma che aveva scontato un solo giorno di carcere? E mentre scriviamo, oggi 12 agosto, il telegiornale c’informa che una donna di sessantacinque anni, a Milano, è stata aggredita da un bengalese trentunenne con un coccio di bottiglia, dopo che questi aveva cercato di strapparle la borsa, e salvata a stento dall’intervento dei passanti. Si sa solo che quel gentiluomo, il giorno prima, era stato fermato perché coinvolto in una rissa: evidentemente aveva covato una rabbia feroce contro gli italiani cattivi e razzisti, rabbia che ha pensato bene di sfogare, da gran vigliacco qual è, non contro un uomo grande e grosso ma contro una donna, sola e anziana. Vedremo quante ore, non quanti giorni di carcere farà, prima di essere rimesso in libertà dal solito giudice di sinistra. Quanto alla donna, ricoverata in ospedale per i numerosi fendenti ricevuti, è viva per miracolo, ma chi se ne frega? È italiana, ha la pelle bianca: a chi interessa la sua vita? Non è mica una negra che arriva sui barconi, in fuga da guerra e fame! E dunque, niente Carola Rackete, né Richard Gere per lei; niente papa Bergoglio, né comunità di Sant’Egidio. È bianca: in un certo senso, se l’è andata a cercare…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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