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Che cos’è l’identità? Viaggio ai limiti della coscienza

Abbiamo visto che l’identità è essenziale per sapere chi si è e quindi per scegliere il proprio destino, sia a livello di individui, sia a livello di popoli (cfr. i nostri articoli: Che cos’è l’identità?, e Il nocciolo della questione è l’identità, pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 07/10/17 e il 10/10/18). E tuttavia, sentiamo di non aver esplorato adeguatamente ciò che l’identità è in se stessa, filosoficamente, prima di essere l’identità di quella tale o di quell’altra cosa. E ci siamo accorti, riflettendo su ciò, che i filosofi e i fisici sono propensi a dare una definizione pressoché identica di cosa sia l’identità, definizione che si discosta, invece, sia da quella dei matematici, sia da quella dei sociologi, degli antropologi e degli psichiatri. In sostanza, la definizione che essi danno è questa: l’identità di un oggetto consiste nell’eguaglianza di tale oggetto rispetto a se stesso. Parrebbe una definizione semplice, ma chiarissima e inoppugnabile; invece proprio qui sorgono immediatamente le difficoltà. A tutti è capitato di incontrare un amico d’infanzia a distanza di molti anni, e di restare colpiti dal profondo cambiamento che è sopraggiuntoi nel suo aspetto, nella sua figura e spesso anche nel suo modo di essere. Ciò significa che l’unità di misura fondamentale dell’identità è il tempo. Resta però aperto, apertissimo l’interrogativo: il fattore tempo è in gradi di sciogliere l’identità, di annullarla, di distruggerla? Il bruco e a farfalla, per esempio, sono lo stesso oggetto? La goccia di pioggia caduta nel mare, e mescolata a infinite altre particelle d’acqua, oltretutto salata, è ancora lo stesso oggetto di prima? O diventato un altro oggetto? E si badi che neppure l’osservazione diretta, in sé e per sé, garantisce la continuità di un oggetto nel tempo e quindi la sua identità. Ora stiano guardando una stella che brilla nel cielo; diciamo: Ecco la nostra stella che brilla lassù: ma forse quella stella si è raffreddata, si è spenta, è morta da tempi immemorabili, tuttavia il raggio di luce proveniente da essa, poiché impiega milioni di anni a raggiungere la nostra Terra, ci dà l’impressione che quell’oggetto permanga immutato, certo dei quella certezza che viene attestata dai nostri sensi.

Lo scienziato americano Percy W. Bridgman (1882-1961), premio Nobel per la Fisica nel 1946, faceva questa riflessione sul concetto di identità nel suo libro La logica della fisica moderna (titolo originale: The Logic of Modern Physics, New York, The Macmillan Company, 1927; traduzione dall’inglese di Vittorio Somenzi, Torno, Boringhieri, 1965, pp. 105-108):

Uno dei più fondamentali fra tutti i concetti con cui descriviamo il mondo è quello di identità; infatti sarebbe quasi impossibile pensare, senza tale concetto; esso ci permette di dire che un oggetto particolare della nostra presente esperienza coincide con un oggetto di quella passata. Dal punto di vista operativo, il significato dell’identità è determinato dalle operazioni con cui giudichiamo che tale oggetto è lo stesso nelle nostre due esperienze. In pratica vi sono vari modi indiretti per giungere a questo giudizio, ma credo che l’essenza della situazione consista nella possibilità di una connessione continua tra l’oggetto di ora e quello di prima attraverso una continua osservazione (diretta e indiretta) durante tutto il periodo di tempo intermedio. Dobbiamo, per esempio, essere in grado di guardare continuamente l’oggetto e di affermare che mentre lo guardiamo esso rimane se stesso. Ciò richiede il possesso da parte dell’oggetto di certe caratteristiche: esso deve essere una cosa discreta, separata da ciò che la circonda da discontinuità fisiche persistenti. Il concetto di identificabilità si applica, pertanto, solo a certe classi di oggetti fisici; nessuno pensa di poter identificare il vento di oggi con il venti di ieri. È in certo modo più facile identificare un liquido, quale l’acqua che score in un fiume, perché possiamo rendere visibile il movimento dell’acqua sospendendo in essa delle particelle solide, ma anche in questo caso non è facile dimostrare a un critico cavilloso che ciò che stiano identificando è davvero l’acqua e non le particelle solide sospese. Anche i solidi, se raffiniamo abbastanza le nostre misure sembrano perdere i loro contorni discontinui (…) e il concetto di identità diventa vago.

Senza dubbio il concetto di identità è uno strumento perfettamente idoneo a inquadrare approssimativamente la natura, nel campo della nostra esperienza, ma dobbiamo porci una questione più grave. L’evidente esigenza del nostro apparato pensante, di avere a che fare con cose discrete ed identificabili, non impone una restrizione essenziale ad ogni immagine che ci possiamo formare dell’universo fisico? Ci sorprendiamo continuamente ad inventare strutture discrete sempre più in basso nella scala delle cose, strutture la cui sola ragione d’essere va cercata interamente entro noi stessi. (…) Quale garanzia fisica abbiamo che un elettrone nel saltare in un atomo conservi la sua identificabilità nel modo che noi supponiamo, o che il concetto stesso di identità sia applicabile n questo campo? In effetti sembra che a tale livello di esperienza il concetto di identità perda ogni significato, in termini di operazioni.

La mene sembra essenzialmente incapace di trattare la continuità come una proprietà degli oggetti fisici; essa non è capace neppure di parlare della continuità, eccetto che in termini negativi. Ad ogni tentativo di descrivere le proprietà di una sostanza davvero continua, essa non può rispondere altro che "no, non è così", e non può immaginare un’esperienza che corrisponda a ciò che essa suppone debba essere una cosa realmente continua. In termini di operazioni, la continuità ha soltanto una specie di significato negativo. (…)

Risulterà, in pratica, che noi siamo in grado di penetrare nei fenomeni su piccola scala più a fondo di un certo limite, e che la natura, in questa direzione, si presenta come finita, di modo che noi urtiamo contro una specie di muro. A mio parere, non ha però significato chiedersi, in una tale situazione, se siamo arrivati a un termine perché la natura è REALMENTE finita, o se soltanto ci sembra di essere giunti a un termine causa qualche proprietà della nostra mente, per esempio, l’incapacità di concepire il continuo.

Dunque, l’identità di una cosa dipende, sì, dal fatto che noi la percepiamo (soggettivamente) come sempre uguale a se stessa, ma anche dal fatto che in essa vi è (oggettivamente) un carattere di continuità, di permanenza dello stato iniziale. E ciò vale anche per le unità discrete di tempo e spazio con le quali noi misuriamo gli oggetti. Un minuto è sempre formato da sessanta secondi, dunque è sempre uguale a se stesso, anche se tutti sappiamo che un minuto di angoscia, di paura, d’incertezza, non sembra avere affatto la stessa durata di un minuto di pace e benessere, per cui si stenta a definire identici i due minuti che misurano stati della coscienza così diversi. E per lo spazio, così come per il tempo: un chilometro è sempre formato da mille metri, però tutti sanno che un chilometro percorso camminando in salita non appare uguale a un chilometro fatto in discesa; oppure che un chilometro di sentiero sassoso e accidentato appare molto più lungo di un chilometro percorso lungo una bella e comoda strada asfaltata. Ma se perfino le unità di misura sembrano vacillare quando le si utilizza come elementi di misurazione, appunto, dell’identità di una certa cosa, che ne sarà di tutto il resto, cioè della pretesa di stabilire che una qualsiasi cosa è sempre identica a se stessa, oppure no? È chiaro che il problema implicato in questo dubbio non riguarda solo i fattori soggettivi ed emotivi del giudizio (quante volte un innamorato deluso avrà detto alla sua bella: Non ti riconosco più, e lei a lui: Non sei più lo stesso di una volta?), ma investe il concetto d’identità in se stesso, la sua stessa logicità e quindi la sua possibilità. Viviamo forse in un mondo di apparenze e di convenzioni, nel quale si fa finta che le cose permangano sempre uguali a se stesse, che siano cioè sempre quelle, mentre ogni cosa, in effetti, si trasforma più o meno lentamente, fino al punto che, in maniera insensibile, diventa altro da ciò che era? Non è questo, forse, che intendeva Shakespeare, quando diceva che siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni? E non era sempre questo che intendeva dire Eraclito, allorché affermava che nessuno può bagnarsi per due volte nella stessa acqua? Se l’acqua in cui mi immergo ora è altra cosa da quella in cui mi immergevo ieri, non è forse una mera convenzione chiamare tale acque fiume, o mare, e non è una finzione dare per certo che si tratti sempre dello stesso fiume e dello stesso mare? Da qualunque parte si consideri la cosa, si ha pur sempre l’impressione che il concetto di identità, solido ed evidente in apparenza, finché si resta sul terreno delle idee e delle definizioni, tende a sfumare, a evaporare, a dissolversi, quando lo si osserva un po’ più da vicino, portandosi sul terreno concreto delle cose. Ma se l’identità sfuma, sfuma anche il concetto di finito, perché essa esiste dove una cosa finisce e comincia un’altra. Arrivati a questo punto, dobbiamo fare, tuttavia, una ulteriore riflessione. Il fatto che alla nostra mente appaia difficile, se non impossibile, fissare in maniera inequivocabile il concetto di identità, applicandolo al mondo concreto delle cose, non significa necessariamente che l’identità non esista, ma solo che noi stentiamo a verificarla mediante i nostri sensi. Tale difficoltà, come si è visto, ha a che fare con la struttura del nostro pensiero, che stenta a concepire il continuo e quindi a constatare come una cosa sia sempre se stessa, pur variando certe sue caratteristiche o proprietà particolari. Ciò suggerisce che l’identità, considerata in se stessa, è, sì, un qualcosa di reale, anche se non facilmente osservabile e confermabile, e tuttavia che la sua realtà rientra in un ordine di cose più sfumato, più elastico, più complesso di quello a cui noi e la nostra mente siamo abituati. Per noi, una cosa è o non è; è bianca o è nera; è grande o è piccola; è semplice o è complessa; è quella o non è quella. Noi, però, o meglio la nostra mente, siamo abituati a vedere, sentire, pensare, secondo un certo ordine di grandezze: tanto è vero che le cose molto grandi o molto piccole sfuggono ai nostri sensi, e possiamo percepirle e osservarle solo mediante l’uso di strumenti. Vi sono quindi moltissime cose che non vediamo e non udiamo, ma che esistono, sono intorno a noi. Allo stesso modo, possiamo ipotizzare che una cosa, pur continuando ad essere se stessa, si presenti in maniera diversa a seconda del tipo di strumenti con cui la osserviamo, o della prospettiva, anche temporale, dalla quale la consideriamo. In questo senso, finisce per essere molto difficile tracciare una netta linea di separazione fra ciò che appartiene alla nostra percezione soggettiva e ciò che appartiene a uno stato oggettivo dell’essere di quella cosa. E ciò per due ordine di fattori. Il primo è che, dopotutto, è innegabile quel che diceva Berkeley, che noi percepiamo il mondo interamente attraverso i nostri sensi e la nostra coscienza, quindi tutto ciò di cui abbiamo esperienza è, in definitiva, dentro e non fuori di noi (il che naturalmente non implica, e per Berkeley non lo implicava, che non vi sia un’altra realtà fuori della nostra mente: che noi, però, non possiamo percepire, anche se possiamo arguirne l’esistenza come causa ultima di tutto l’esistente, cioè appunto del nostro pensiero). Il secondo fattore ha a che fare con la struttura stessa della realtà. Come abbiamo accennato, è molto probabile che la realtà non sia quella che appare, non solo in senso quantitativo (noi non vediamo tutto) ma anche in senso qualitativo (la nostra mente è incapace di penetrare la struttura ultima del reale).

Giungiamo così alla conclusione che, cercando di stabilire l’identità delle cose, dobbiamo confrontarci col problema essenziale della struttura della realtà. Secondo tutti gli indizi, l’universo è fatto in modo che noi lo posiamo indagare, ma è evidente che la nostra mente non arriva a spingersi oltre un certo limite, e che non lo potrebbe neppure se i nostri sensi disponessero degli strumenti più perfezionati. Un radiotelescopio sempre più potente, ad esempio, potrebbe permetterci di scoprire delle galassie sempre più lontane, e poi ancora delle altre: ma nessun radiotelescopio potrebbe mostrarci la struttura ultima dell’universo. Questo è un limite ontologico, prima di essere un limite conoscitivo. La nostra mente è fatta in modo da porre la domanda ultima, ma non è capace di darle la risposta, perché non è abbastanza grande da concepirla. Davanti a un tale limite dobbiamo fermarci con un atteggiamento di umiltà: il che non vuol dire che sia impossibile andare ancora oltre, ma che lo è con gli strumenti della mente ordinaria, di cui la scienza moderna è la più tipica costruzione. Dante Alighieri, nell’ultimo canto del Paradiso, descrive l’esperienza della coscienza — non della mente: la mente è esclusivamente logico-razionale — che si spinge oltre l’ultima frontiera e perviene, per un istante, al nodo fondamentale dell’universo, cioè a contemplare Dio; ma lo può grazie a un aiuto soprannaturale che le viene concesso da Dio medesimo. In altre parole, il segreto ultimo della realtà è accessibile solo in una stato della coscienza diverso da quello della mente razionale, e comunque solo per una speciale grazia che proviene dal Cielo. I mistici lo hanno sempre saputo: per essi la fede in Dio non è un’ipotesi, né materia di dimostrazione: semplicemente, ne hanno fatto l’esperienza, lo hanno visto. Ma non lo hanno visto con gli occhi del corpo, come vedono gli scienziati. Ed è qui che la filosofia diviene teologia: esempio di continuità nella identità…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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