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13 Agosto 2019L’11 luglio 2019 il cardinale vicario della diocesi di Roma, Angelo De Donatis, ha inviato ai sacerdoti una lettera nella quale indica le cosiddette équipe pastorali come lo strumento per ridare forza, credibilità e autorevolezza dalla testimonianza cristiana.
Ecco le sue precise parole, nelle quali si rivolge con il "tu"paterno a un ideale sacerdote diocesano:
Ti consiglio di scegliere dodici persone che possano collaborare con te stabilmente — chiarisce il cardinale vicario — il numero non va preso alla lettera, ma serve per farmi capire: è il piccolo gruppo da cui tutto è partito. Non vanno cercate tra coloro che hanno dimostrato di essere prudenti, misurate e circostanziate, ma al contrario, persone "fuori dalle righe", gente che lo Spirito Santo ha reso degli appassionati dello squilibrio.
Non abbiamo bisogno di professionisti competenti e qualificati, quanto piuttosto di cristiani apparentemente come tutti, ma in realtà capaci di sognare, di contagiare gli altri con i loro sogni, desiderosi di sperimentare cose nuove. Non è il tempo dei pensatori isolati, che elaborano piani a tavolino, ma di quelli che hanno voglia di incontrare gli altri, che non si vergognano di farsi vicini ai poveri e che esercitano una certa attrazione sui giovani».
Faranno degli errori? Li faranno fare a te e alla comunità? È possibile. Ma come sai bene è da preferire "una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita….", piuttosto che una malata di autoreferenzialità e introversione. Questi dodici quindi sono cristiani che credono nella Resurrezione, nella fecondità dello Spirito Santo mandato dal Risorto e provano simpatia e non repulsione verso gli altri esseri umani, riconosciuti come fratelli.
Per questo saranno capaci insieme con te di quell’ ascolto creativo della realtà e delle storie di vita che ci conduca più facilmente ad intuire per quali vie lo Spirito Santo ci sta portando per evangelizzare e costruire la Chiesa del futuro.
L’équipe pastorale animerà e aiuterà dal di dentro la comunità cristiana a portare avanti l’ascolto, lasciando agire il Fuoco che abbiamo invocato insieme nella Veglia con il Papa. Sarà Lui a illuminare, a purificare, a scaldare: ma non lo farà senza di noi.
Ecco dunque la ricetta bergogliana per rispondere alle sfide dei tempi e alla crisi della Chiesa. Non la fede; non la preghiera; non l’abbandono fiducioso, incondizionato, totale alla volontà del Padre, secondo l’esempio del Figlio, il nostro Signore Gesù Cristo; no: ma l’équipe pastorale. Formata da chi? Da una dozzina di persone scelte fra le memo equilibrate, addirittura fra le "appassionate dello squilibrio". E ancora: scelte e selezionate fra le meno prudenti, cioè, se la lingua italiana non è un’opinione, fra le più imprudenti; fra le meno misurate e circostanziate, cioè fra le più esagitate e imprevedibili (una volta si diceva: lunatiche; o anche: caratteriali). Ma sì, che cos’è tutta questa prudenza, tutto questo senso della misura? Puzzano di stantio, di avariato, e per giunta d’ipocrisia. Aria fresca, aria nuova: bisogna far volare gli stracci! Bisogna far sì che il vento del rinnovamento entri a fiotti, che irrompa nelle stanze polverose, che ridesti le energie languenti! C’è un sapore inconfondibile in queste prole d’ordine, in questi slogan banali e ripetitivi, in questo giovanilismo che in realtà è vecchissimo, perché costruito con il conformismo dell’anticonformismo, coi cascami delle cose vecchie che si vorrebbero rinnovare, ma in maniera velleitaria, scomposta, cialtrona, senza fare i conti con la realtà, senza fare i conti con se stessi, vaneggiando di fantasia al potere e di fiori da mettere al posto dei cannoni. È il sapore del Vaticano II e, subito dopo, del ’68; il sapore dei discorsi di don Milani e dei film di Pasolini, dei preti operai e dei comitati di lotta, della nouvelle théologie e della "lotta dura senza paura" contro tutti i padroni e gli sfruttatori di questo mondo — ma sempre e rigorosamente coi soldini di papà.
Che tristezza. Monsignor De Donatis è della classe 1954, ha dunque sessantacinque anni e al tempo del Concilio portava ancora i calzoni corti; e la Messa tridentina, chissà se la ricorda ancora, sebbene sia con quella che deve aver ricevuto sia la Prima Comunione, sia la Cresima. Al tempo del ’68 di anni ne aveva quattordici e quindi aveva appena preso il diploma della scuola media. Eppure, ragiona, scrive e parla come un perfetto esemplare di quella stagione: di suo, non ci mette nemmeno la fantasia per rielaborare un po’ quelle parole d’ordine, quegli slogan banali. I membri delle équipe pastorali devono essere persone che provano simpatia e non repulsione verso gli altri esseri umani: molto istruttivo, ora che ce lo ha predicato ci sentiamo tutti più tranquilli. È noto, infatti, che prima della invenzione delle équipe pastorali le parrocchie e i consigli parrocchiali erano pieni zeppi di truci individui che odiano il prossimo e l’umanità intera e che aborriscono specialmente i poveri, gli ultimi e i migranti. Ma da quando è arrivato il vento nuovo, il vento della teologia della liberazione, e dal Sud America ci è giunto questo grande dono di un papa argentino che l’ha fatta sua fino alle più estreme conseguenze, i truci individui antisociali, egoisti e anaffettivi si sono dissolti come nebbia al sole, e il loro posto è stato preso da autentici cristiani, da preti di strada e laici che si fanno in quattro per portar la pastasciutta ai poveri fin dentro la basilica di Santa Maria in Trastevere, con tanti auguri dalla Comunità di Sant’Egidio: perché è cosa nota e dimostrata che le basiliche servono per quello, per fare da mense e dormitori dei poveri, mentre i locali parrocchiali e diocesani, i seminari semivuoti e abbandonati per il crollo delle vocazioni, quelli sono là per caso, e poi non offrirebbero un ambiente altrettanto caldo e affettuoso. Non di sola pastasciutta vive l’uomo, ma anche di pastasciutta scodellata dentro la casa di Dio, che non è casa di preghiera se non per quattro bacchettoni che stanno lì a baciare i banchi, con il collo storto, ma perché i misericordiosi santegidini possano esibire in tutto il suo splendore il menù festivo per i poveri, i barboni, i migranti venuti dall’inferno della miseria, in cerca di una vita migliore. Perché la pastasciutta al ragù è buona, c’è poco da dire, ma diventa ancor più buona se degustata di fronte al tabernacolo, sotto le volte di una chiesa e tra le colonne che hanno visto generazioni di cattolici pregare devotamente ma, ahimè, senza far seguire le buone opere alle preci.
Ma cerchiamo di capire un po’ meglio da quali pensieri, da quali valutazioni e ispirazioni viene fuori la pastorale di monsignor De Donatis, fiore all’occhiello della "chiesa in uscita" predicata con tanta enfasi e insistenza dal signor Bergoglio. La scelta del numero di dodici per i collaboratori pastorali è altamente simbolica: dodici come gli apostoli di Gesù Cristo, che il loro Maestro mandò a battezzare e predicare il Vangelo in tutto il mondo. L’analogia viene peraltro resa esplicita: dodici (insomma, più o meno) come il piccolo gruppo da cui tutto è partito. Veramente tutto è partito non dagli apostoli, ma da Gesù Cristo, e in particolare dalla sua Resurrezione: perché il piccolo gruppo, quanto a sé, non aveva capito proprio un bel nulla, nemmeno dopo la morte di Gesù in croce. Ma lasciamo perdere: non formalizziamoci per simili quisquilie. Vi è quindi, nella lettera aperta di monsignor De Donatis ai suoi parroci, un richiamo diretto alla Chiesa delle origini e implicitamente a quella "nuova Pentecoste" che sarebbe stato, secondo i suoi più accesi fautori (ignari o sprezzanti dell’eresia implicita in una simile espressione), il Concilio Vaticano II. Ma quando egli afferma, con evidente compiacimento, che le persone da scegliere per divenire collaboratori pastorali non vanno cercate tra coloro che hanno dimostrato di essere prudenti, misurate e circostanziate, ma al contrario, persone "fuori dalle righe", gente che lo Spirito Santo ha reso degli appassionati dello squilibrio, appare evidente il demagogico fraintendimento che sta alla base della lettera e, più in generale, alla base di tutto l’atteggiamento del clero bergogliano. Vi è, in quelle parole, una vaga eco — molto, molto vaga – delle espressioni con le quali Gesù Cristo stigmatizzava l’ipocrisia e il perbenismo dei farisei, e rivendicava la sua missione di andare in cerca dei peccatori e delle anime smarrite; ma senza tener conto di due differenze sostanziali, senza le quali si rischia di travisare completamente il senso di quelle frasi. Primo: Gesù e solo Gesù è capace di frequentare abitualmente i peccatori per convertirli, ma senza farsi "convertire" da essi al peccato; Gesù e solo Gesù possiede la forza soprannaturale per agire sul mondo senza che il mondo eserciti il benché minimo fascino su di Lui. Chi voglia prendere a modello Gesù, lo deve fare a trecentosessanta gradi: deve pregare continuamente, come Gesù pregava; deve rimettersi totalmente alla volontà del Padre, come Lui faceva; deve confidare esclusivamente in Dio e non negli uomini, né tanto né poco. Sono capaci di questo, i neopreti e i neovescovi del clero bergogliano, quelli che dicono sempre io dico che, per me, secondo me, e che citano continuamente papa Francesco come massima autorità possibile, ma pochissimo il nostro Signore Onnipotente? A noi non sembra: li osserviamo all’opera da diversi anni — da ben più dei sei anni che segnano l’avvento di questo signore vestito di bianco che si fa passare per papa — però non vediamo, in loro, quel profumo di spiritualità che è proprio dei santi. Udiamo continuamente sulle loro bocche frasi da agitatori marxisti, e ultimamente anche da militanti ecologisti e ambientalisti; vediamo le loro facce ribollire di passioni umane, vediamo insomma l’uomo carnale che vuol risanare il mondo senza prendersi il disturbo di risanare, prima, se stesso, cioè senza rinascere come uomo spirituale, dopo aver fatto morire l’uomo vecchio, gonfio di orgoglio e presunzione.
La seconda differenza è che Gesù, quando rampognava l’ipocrisia dei farisei, il loro attaccamento alla lettera della Legge e la loro indifferenza alla sua sostanza, aveva a che fare, appunto, con una società rigorista, ma solo in apparenza; con un esasperato formalismo religioso; e con un’ipocrisia così accentuata da considerare scandalo il più piccolo lavoro fatto in giorno di sabato, e sia pure il più urgente e necessario. Gesù voleva colpire tutto quanto era morto nell’ebraismo del suo tempo, al punto da dichiarare una volta: Lasciate che i morti seppelliscano i morti!, per intendere che quelle persone erano già morte in vita, anche se si ritenevamo religiosamente perfette e meritevoli del premio di Dio. Gesù, insomma, voleva far capire che la salvezza è per chi si uniforma completamente alla volontà del Padre e non per chi biascica vuote preghiere e si attiene a rigide norme di comportamento: e non per nulla la sua incessante, aspra polemica antifarisaica gli attirò l’odio implacabile dei sacerdoti e mise in movimento la congiura del Sinedrio per ridurre al silenzio la sua scomodissima voce, congiura che non si sarebbe arrestata se non dopo averne causato la condanna a morte e aver perseguitato, con pari spietatezza, anche i suoi primi seguaci e predicatori del Vangelo. Ebbene, si dà il piccolo particolare che la situazione odierna, nella quale si muove la Chiesa cattolica, sia competamente diversa da quella che esisteva in Palestina al tempo di Gesù. Si dà il caso che il problema più grande con il quale si deve confrontare un seguace del Vangelo, ai nostri giorni, non sia affatto il formalismo, e neppure l’ipocrisia, ma il vuoto, l’indifferenza, o, peggio, il lassismo e il permissivismo travestiti da "religiosità adulta", il peccato reso lecito per legge, il disordine istituzionalizzato e benedetto dal clero stesso. Situazione non solo diversa, quindi, ma addirittura opposta: come la notte dal giorno. Pertanto, voler applicare alla società di oggi la stessa "ricetta" che Gesù somministrava ai suoi contemporanei è come voler curare l’anemia con la stessa terapia usata per curare la gotta, o voler curare la stitichezza con gli stessi farmaci usati per fermare la diarrea. Gli uomini, oggi, e specialmente i sedicenti cristiani, hanno bisogno di tutt’altro che di sentirsi dire che la prudenza, la temperanza e il senso della misura sono passati di moda, e che bisogna mettere in campo il massimo squilibrio possibile, essere addirittura degli appassionati dello squilibrio: questa è pura follia, se non qualcosa di peggio. È come consigliare a un etilista di bere almeno tre litri di vino rosso al giorno per scacciare i tristi pensieri. Oggi gli uomini, compresi i sedicenti cristiani, anzi soprattutto loro, hanno bisogno che qualcuno dica, o meglio che qualcuno gridi loro, come faceva Giovanni il Battista alla folla radunata preso le rive del Giordano (Mt 3,7-10): Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente?Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Gia la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. O come faceva Gesù, quando diceva (Mt 23, 33): Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare dalla condanna della Geenna? O, ancora, come san Pietro predicava alle folle (At 3,19): Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati. Ma di tutti questi richiami, queste esortazioni alla conversione, al pentimento e alla speranza della salvezza come dono che viene da Dio e non come umana conquista, non v’è traccia nelle parole di monsignor De Donatis. Sono solo parole umane: troppo umane, direbbe Nietzsche. Come se ciò non bastasse, sono anche avventate, imprudenti, farneticanti: sono parole che seminano confusione, non parole di verità e di chiarezza…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI