La società ha bisogno di un principio coagulante
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9 Agosto 2019La società, dalla più piccola, che è la famiglia, alla più grande, che è lo Stato (almeno fino a quando non verrà istituito il Nuovo Ordine Mondiale), si regge essenzialmente su un patto fiduciario: se esso c’è, vi sono le condizioni perché i contraenti rispettino i rispettivi impegni; se viene meno, o addirittura non c’è mai stato, allora non occorre essere profeti o esperti di astrologia per affermare che quella società ha il tempo che le resta da vivere contato. Il rapporto fiduciario è essenziale anche nelle relazioni fra il cittadino e le istituzioni, o, per meglio dire, fra il cittadino e gli uomini che rappresentano e impersonano le istituzioni. Se un fedele cattolico, per esempio, perde la fiducia nel suo parroco, nel suo vescovo, nel suo papa; se osserva che costoro non rispettano la vera fede cattolica, ma si fanno banditori di un nuovo "vangelo", che con quello di Gesù Cristo ha poco o nulla da spartire, è evidente che il rapporto di fiducia entra in crisi e si può pronosticare che si spezzerà irreparabilmente nel giro di qualche tempo. Forse ci vorranno dei mesi, forse degli anni, ma alla fine l’evidenza delle cose s’imporrà anche ai più miti, ai più fiduciosi, ai più conformisti: e a quel punto essi non potranno che ritirare, sdegnati, la delega che avevano dato ai loro pastori, e trarre la conclusione che, d’ora innanzi, dovranno fare a meno di essi, a meno di volerli seguire, consapevolmente e perciò colpevolmente, sui sentieri dell’errore, dell’eresia e dell’apostasia conclamata.
Il rapporto di fiducia basato sulla conoscenza diretta e sulla stima personali era tipico delle società pre-moderne. Fino a qualche decennio fa, i nostri padri e i nostri nonni aprivano un conto in banca e vi depositavano i loro risparmi anche perché conoscevano personalmente quel direttore o quell’impiegato, avevano fiducia in loro, si erano formati la convinzione ragionata di poter stare tranquilli, relativamente parlando (e cioè fatti salvi gl’imprevisti dovuti alla globalizzazione finanziaria, ossia alla libera pirateria finanziaria internazionale) e di non doversi aspettare sgradite sorprese da parte di quelle persone. Anche il personale delle banche, specialmente delle piccole banche di credito, ragionava a quel modo: il direttore conosceva i suoi clienti uno per uno, sapeva quanto valesse la loro parola e, se questi domandavano un prestito, era in grado di decidere in merito, valutando tutti gli elementi necessari, non in maniera astratta e impersonale, bensì sulla base di precise conoscenze che scaturivano, appunto, dal rapporto diretto e della conoscenza personale. E quel che abbiamo detto per le banche, valeva anche per tutte le altre istituzioni. Il comandante della stazione locale dei carabinieri conosceva più o meno tutti gli abitanti del paese o del quartiere, sapeva chi erano, che mestiere facevano, se avevano la fedina penale pulita oppure no, e sapeva anche che tipo di famiglie, che tipo di giovani popolavano le strade e i locali di ritrovo. I cittadini, a loro volta, sapevano di poter trovare ascolto se si verificava un problema di vicinato o di ordine pubblico, se li impensieriva la presenza di un accampamento di nomadi, se le case di una certa via erano prese di mira da una banda di rapinatori. Le facce sconosciute venivano osservate e segnalate: nulla accadeva nella vita locale che non fosse segnalato e passato al vaglio. Allo stesso modo, i direttori didattici e i presidi delle vecchie scuole conoscevano tutti i loro maestri e professori e quasi tutti i loro alunni; conoscevano molto bene quel che accadeva nelle classi ove oggi non possono praticamente più entrare, grazie all’abnorme sviluppo delle tutele sindacali del corpo docente, essendosi ridotto il loro ruolo a quello di burocrati e, per un altro verso, di cacciatori di finanziamenti, anche e soprattutto presso le industrie private. Sicché mentre un tempo non troppo lontano maestri e professori sapevano di dover rendere conto di quel che facevano in classe, di essere soggetti a un esame e a una valutazione di fine d’anno, ora praticamente nessuno controlla più nulla, ogni singolo docente è pressoché libero di fare (o non fare) quel che vuole; e, parallelamente, anche gli studenti si sentono relativamente liberi di studiare o non studiare, di frequentare le lezioni o bruciare la scuola, di venire in classe per imparar qualcosa oppure per farsi una soffiata di cocaina, e di mettere nello zaino i libri e i quaderni oppure le dosi di droga e magari un’arma impropria, come un coltello a serramanico. Non stiamo affatto esagerando: questa è la situazione, specie in alcune scuole, quelle delle periferie urbane degradate, ridotte a fortini assediati dai pellerossa, dove succede quel che succede, ed è già tanto se non ci scappa la rissa, l’accoltellamento o la crisi da overdose ogni santo giorno, per non parlare degli atti e degli abusi sessuali.
Ma l’atto di fiducia fondamentale, quello dal quale dipende tutto il resto, è, o dovrebbe essere, quello che il cittadino accorda alla massima autorità civile: lo Stato, naturalmente nella persona dei suoi rappresentanti. Il capo dello Stato è il simbolo di tale atto di fiducia: e non c’è dubbio che il sistema di governo monarchico, rispetto a quello repubblicano, meglio si presta, per una quantità di ragioni, a incarnare nella forma più competa tale rapporto fiduciario. Lo si nota soprattutto nelle monarchie più antiche, come quelle dell’Europa settentrionale, che hanno saputo conservare il rapporto diretto con i loro popoli e che sono stimate e apprezzate appunto per tale vicinanza. Il caso della Danimarca, o dei Paesi Bassi, è particolarmente evidente: attraverso le tempeste della storia, quei monarchi hanno saputo guadagnarsi la stima e la fiducia dei cittadini condividendo la loro storia, i momenti lieti e quelli tristi, sempre impersonando con dignità e un certo stile i valori più alti espressi dalle rispettive nazioni. Non è un caso che la Prima guerra mondiale sia terminata con la distruzione di quattro grandi imperi – germanico, austro-ungarico, russo e ottomano – e con la nascita di una quantità di piccoli, rissosi e non autosufficienti Stati repubblicani: le forze che hanno contributo a scatenarla, quelle della grande finanza, avevano già avviato il loro programma, che consisteva e consiste tuttora nell’eliminare, uno dopo l’altro, i puntelli dell’ordine, della tradizione, della patria, della famiglia e della religione, per aprire il varco alle forze della dissoluzione, senza le quali ben difficilmente loro, gli squali e i pescecani della finanza, possono introdursi nelle società e banchettare coi loro risparmi, imporre ai popoli il giogo del debito e arricchirsi in maniera indecente spremendo lacrime e sangue dai lavoratori e dai pensionati i quali, ignari, sono ridotti a carne da macello per servire i piani dei padroni occulti del mondo. La manovra, peraltro, era cominciata assai prima, perlomeno dalla Rivoluzione americana e da quella francese, che si conclusero con la nascita di due repubbliche liberaldemocratiche, e con l’avvento della borghesia degli affari al posto dell’aristocrazia.
Specialmente con la Rivoluzione francese, vennero diffusi in Europa e nel mondo i principi dell’idea democratica che ponevano il rapporto fra cittadini e istituzioni su una base del tutto nuova, fondata sul presupposto (indimostrato e indimostrabile) dei diritti naturali e, di conseguenza, della sovranità popolare. Ma che gli uomini nascano già nella categoria dei cittadini; che abbiano già, sin dalla culla, dei diritti inalienabili da far valere contri tutto e contro tutti; e che il popolo sia il vero detentore della sovranità, sono tutte idee prodotte dai cervelli degli illuministi, non collocate nella realtà dei fatti e tanto meno dimostrate a fil di logica. Dunque il cittadino di una repubblica democratica si sente dire e ripetere, fin da piccolo, che la sovranità è anche un po’ sua; che chi governa, è soggetto al controllo del popolo, e che lo Stato ad altro non serve che ad assicurare il massimo della libertà e il pieno godimento dei diritti naturali al maggior numero possibile di persone. Ne deriva però una grossa difficoltà. Se qualcosa non funziona nella relazione fra il cittadino e le istituzioni, ora quello non si trova più di fronte a una persona in carne ed ossa, che risponde per esse e fornisce le necessarie spiegazioni, ma si trova alle prese con un sistema burocratico, liquido e impersonale, dove nessuno si assume la responsabilità di dire un bel "sì" o un bel "no" e dove, pertanto, non vige più alcuna certezza, ma tutto diviene soggettivo e opinabile. Un tipico esempio di ciò è la degenerazione della magistratura, sempre più spesso impersonata da uomini e donne che usano la toga non per tutelare gli interessi di tutti, e in primo luogo il bene comune, semplicemente perché non hanno la vera nozione del bene comune, ma solo per decidere in merito a singoli casi, adottando, nel dubbio, grazie alla loro facoltà discrezionale nell’applicare le leggi, le soluzioni più facili, quelle che non impegnano, quelle che non costano nulla, ad esempio rimettere in libertà uno spacciatore dopo l’arresto, o sottoporre a giudizio un cittadino che si è difeso con energia da un’aggressione, con la prospettiva d’infliggergli una severa condanna, come se si trattasse di un pericoloso malvivente.
Un giorno del 1882 il re Umberto I venne in visita all’ex capitale del Regno sabaudo, Torino, suscitando una grande emozione nella popolazione. Fra i vecchi soldati che avevano affrontato con lui i pericoli della battaglia di Custoza, il 24 giugno 1866, e particolarmente le drammatiche ore del cosiddetto Quadrato di Villafranca, allorché l’allora principe di Piemonte aveva fronteggiato a pie’ fermo le cariche degli ulani austriaci in mezzo alle sue truppe, c’era Coretti, un commerciante di legname il cui figlio era compagno di classe di Enrico, il protagonista del libro Cuore di Edmondo De Amicis. L’episodio è riportato nel libro alla data di lunedì 3 aprile 1882 e s’intitola Re Umberto; ne riportiamo il passaggio finale, che bene illustra il principio di cui discorrevamo.
Coretti padre non stava più nella pelle. Ah! Quando ci penso, – disse, – io lo vedo sempre là. Sta bene tra i colerosi e i terremotati e che so altro; anche là è stato bravo; ma io l’ho sempre in mente come l’ho visto allora, in mezzo a noi, con quella faccia tranquilla. E son sicuro che se ne ricorda anche lui del quarto del 49, anche adesso che è re, e che gli farebbe piacere di averci una volta a tavola, tutti insieme, quelli che s’è visti intorno in quei momenti. Adesso ci ha generali e signoroni e galloni; allora non ci aveva che poveri soldati. Se ci potessi un po’ barattare quattro parole, a quattr’occhi! Il nostro generale di ventidue anni, il nostro principe, che era affidato alle nostre baionette… Quindici anni che non lo vedo… Il nostro Umberto, va. Ah! Questa musica mi rimescola il sangue, parola d’onore.
Uno scoppio di grida l’interruppe, migliaia di cappelli s’alzarono in aria, quattro signori vestiti di nero salirono nella prima carrozza.
– È lui- gridò Coretti, e rimase come incantato.
– Poi disse piano: – Madonna mia, come s’è fatto grigio!
Tutti e te ci scoprimmo il capo: la carrozza veniva innanzi lentamente, in mezzo alla folla che gridava e agitava i cappelli. Io guardai Coretti padre. Mi parve un altro. pareva diventato più alto, serio, un po’ pallido, rutto appiccicato contro il pilastro.
La carrozza arrivò davanti a noi, a un passo dal pilastro. — Evviva! — gridarono molte voci.
– Evviva! — gridò Coretti, dopo gli altri.
Il re lo guardò in viso e arrestò un momento lo sguardo sulle tre medaglie.
Allora Coretti perdé la testa e urlò: – Quarto battaglione del quarantanove!
Il re, che s’era già voltato da un’altra parte, si rivoltò verso di noi, e fissando Coretti negli occhi, stese la mano fuori della carrozza.
Coretti fece un salto avanti e gliela strinse. La carrozza passò, la folla irruppe e ci divise, perdemmo di vista Coretti padre. Ma fu un momento. Subito lo ritrovammo, ansante, con gli occhi umidi, che chiamava per nome il figliuolo, tenendo la mano in alto, Il figliuolo si slanciò verso di lui, ed egli gridò: – Qua, piccino, che ho ancora calda la mano!- e gli passò la mano intorno al viso, dicendo — Questa è una carezza del re.
E rimase lì come trasognato, con gli occhi fissi sulla carrozza lontana, sorridendo, con la pipa tra le mani, in mezzo a un gruppo di curiosi che lo guardavano. — È uno del quadrato del 49 dicevano. — è un soldato che conosce il re. — È il re che l’ha riconosciuto. — È lui che gli ha teso la mano. — Ha dato una supplica al re; – disse uno più forte.
– No, – rispose Coretti, voltandosi bruscamente; – non gli ho dato nessuna supplica, io. Un’altra cosa gli darei, se me la domandasse…
Tutti lo guardarono.
Ed egli disse semplicemente: – Il mio sangue.
Questa è una delle pagine di Cuore che maggiormente suscitano l’ironia del lettore moderno, specie se progressista e democratico. A costui sembra che la vera e propria infatuazione del signor Coretti per il re d’Italia fosse qualcosa di assurdo e di ridicolo; non riesce a capire perché mai una persona del popolo potesse provare dei sentimenti così forti per il sovrano, fino al punto di esser pronto a dare la vita per lui. Certo quei sentimenti non poteva provarli, per esempio, un ex combattente della Seconda guerra mondiale, vedendo passare Vittorio Emanuele III (prima del referendum che portò alla nascita della Repubblica); anziché la gloria e il pericolo del Quadrato di Villafranca, che cosa avrebbe potuto ricordare, se non la fuga ignominiosa del re all’alba del 9 settembre 1943, che aveva lasciato l’esercito senza ordini e l’intero Paese allo sbando? Ma, a parte gli eventi luttuosi della Seconda guerra mondiale, perfino una monarchia che impersonava molto imperfettamente il principio tradizionale di autorità, come quella sabauda (basti pensare alla sua politica antiecclesiastica di matrice massonica, che certo non piaceva alle masse cattoliche) era capace di suscitare forti sentimenti di devozione da parte delle persone comuni, come il signor Coretti. Questa, per i progressisti contemporanei, è una cosa senza senso: per loro, gente come il signor Coretti non dovrebbe esistere. Invece è esistita, e di ciò bisogna prendere atto; bisogna riflettere sul suo significato. Le persone del popolo hanno bisogno di simboli in cui credere, hanno bisogno di autorità con le quali identificarsi, e hanno bisogno di un clero credibile al quale rivolgersi per i bisogni spirituali. Non hanno bisogno di preti di strada con le sciarpe arcobaleno; né di magistrati che stanno sistematicamente dalla pare di chi delinque; né di politici che badano solo alle loro poltrone e ai loro privati affari; né di governi che fanno gli interessi della grande finanza internazionale e si accaniscono contro i cittadini, vanificano i loro sacrifici, sperperando i loro risparmi, annullando la loro capacità progettuale e i loro meriti professionali, e limitandosi invece a spremerli spietatamente con la loro pazzesca pressione fiscale e a ingannarli sistematicamente con le loro false promesse e con le loro segrete connivenze con i poteri occulti che vogliono l’invasione e la sottomissione del Paese.
Sorge perciò la domanda, sconcertante ma più che legittima: le odierne istituzioni democratiche sono per caso gli strumenti dei quali si servono i poteri occulti per distruggere il necessario rapporto di fiducia fra il cittadini e la famiglia, la scuola, la chiesa, le forze dell’ordine, la magistratura e il governo dello Stato?
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels