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La letteratura rosa è tutta da buttare?

Il tema è di quelli che gli intellettuali progressisti e impegnati sovranamente disdegnano, a noi però sembra tutt’altro che futile: la letteratura sentimentale, con le sue appendici cinematografiche e televisive, è proprio tutta da buttare? È davvero meritevole di tutto il disprezzo, o al massimo della sovrana indifferenza, che da sempre l’accompagnano da parte della cultura "alta"? Ne avevamo già trattato a suo tempo (cfr. Vendicare Liala e l’azzurro nelle vetrate, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 25/08/07); ma ci sarebbero ancora tantissime cose da dire. Proviamo a dine almeno alcune.

Ci ha sempre colpiti il fatto che nel più modesto paesino di montagna, di quelli lasciati in disparte dal turismo e dove libri non se ne vedevano neanche col telescopio (ora è diverso: le edicole vendono anche libri di qualsiasi genere), si trovavano e si trovano, però, in vendita in qualsiasi bottega, anche di alimentari o di mercerie, dei volumetti di poco prezzo dalla copertina illustrata, generalmente con una bella ragazza dall’aria sognante, o dolcemente pensosa, o due fidanzati che si guardano teneramente, sullo sfondo di una casa romantica dai muri coperti d’edera, o di un ombroso viale di pioppi, o di un una tranquilla dimora di campagna. Evidentemente, anche in quei luoghi poco popolosi, dove non ci sono scuole né persone colte, c’è qualcuno che legge, e perciò compra dei libri; e ci sono da qualche parte, evidentemente, degli scrittori o delle scrittrici che compongono dei romanzi rivolgendosi proprio a quelle persone semplici e forse un po’ ingenue, a quel particolare tipo di pubblico. La cosa ci ha sempre incuriositi. A lungo abbiamo pensato che, fra non leggere nulla e leggere dei libri scadenti, si debba considerare preferibile la prima delle due alternative; poi, però, abbiamo aggiunto una precisazione: per chi abbia delle ambizioni letterarie o comunque di tipo culturale. Ma per chi si accontenta di vivere una vita semplice, fatta di lavoro e famiglia, la lettura dei libri sentimentali, come del resto quella di molti altri generi di letteratura popolare, dal poliziesco all’avventuroso (coi sui vari sottogeneri, come il western) alla fantascienza, non pensiamo che sia un così gran male: non imparerà grandi idee né ammirerà una prosa particolarmente raffinata, ma che importa? Potrà sognare, e sognare è un bisogno fondamentale, e quindi pienamente legittimo, della natura umana. L’importante, ovviamene, è fare dei bei sogni e non degli incubi.

Ci ha sempre intenerito, inoltre, il fatto che a leggere romanzi sentimentali siano soprattutto donne, casalinghe quarantenni o cinquantenni, ma anche parrucchiere o baby-sitter diciottenni e ventenni; e palesemente donne fornite di un modesto livello d’istruzione, ma, in compenso, dotate di un animo sensibile, o sognante, o gentile, o che dir si voglia: non persone moderne, aggressive e sicure di sé, ma persone che la grande ondata del progresso, specialmente tecnologico, ha per così dire lasciato indietro; persone che ancora credono, e sia pure in forme più o meno degradate e secolarizzate, ai sani valori del buon tempo antico, Dio, la patria e la famiglia; persone, infine, predisposte alla contemplazione più che all’azione, capaci di sospirare per il dramma d’amore d’una eroina immaginaria, e non abituate ad arraffare tutto ciò che si può prende dal piatto della vita, ma inclini, per natura e forse per educazione, alla timidezza, a restare un passo indietro, a non vantarsi, a non ritenersi degne di un grande destino, pur sognandolo intensamente – è questo il loro segreto; ebbene sì, anche loro hanno un segreto, pur nell’apparente banalità della loro vita -, circonfuso dei più accesi colori del romanticismo, con la loro parte più profonda e istintiva. Per quel che ci riguarda, chiunque abbia una certa inclinazione alla lettura, merita, per ciò stesso, un grande rispetto. Queste persone potrebbero frequentare i bar, le discoteche, le compagnie rumorose; invece amano raccogliersi in un angolo e leggere tranquillamente le avventure dei personaggi di Liala o di Luciana Peverelli; e poi sprofondarsi in poltrona a seguire, sul piccolo schermo, la trasposizione televisiva delle vicende di Grecia Colmenares in Topazio o di Sonia Braga in Dancin’ Days. No: non abbiamo mai capito, né tanto meno condiviso, il disprezzo assoluto che gli intellettuali, specialmente progressisti, riservano alla donne mature e alle adolescenti per la colpa di amare la letteratura rosa e la sua versione moderna, gli sceneggiati televisivi di tipo sentimentale. E ci riferiamo, naturalmente, a quelli degli anni ’50, ’60, ’70 e in parte anche ’80; perché poi, salvo lodevoli eccezioni, per lo più straniere — come l’ottima telenovela brasiliana Terra Nostra, del regista Benedito Ruy Barbosa — il dilagare delle tv commerciali con la loro logica cialtrona ha provocato un rapidissimo scadimento del genere, e anche l’editoria si è adeguata agli effetti della mutazione antropologica che, in quel torno di tempo, ha trasformato la società europea e ha radicalmente modificato sia i gusti del pubblico, sia il pubblico stesso — e naturalmente anche gli autori: i romanzieri, gli sceneggiatori e i registi televisivi.

Il punto, infatti, è proprio questo. La letteratura sentimentale è senza dubbio un ramo della letteratura di consumo; e tuttavia, non tutti i suoi prodotti possono esser messi sullo stesso piano. Così come nel genere poliziesco vi è una differenza fra i maestri, quali Gilbert K. Chesterton, Arthur Conan Doyle e Edgar Wallace, e gli scribacchini che lavorano a cottimo, ciò vale anche per il genere "rosa" (che solo in Italia è chiamato così, per via delle copertine della casa editrice Salani di Firenze, che si era specializzata nel genere): una differenza di gusto, di stile, di contenuti, di Weltanschauung. Stiamo dicendo una cosa banale; pure bisogna dirla, perché il pregiudizio degli intellettuali con la puzza sotto al naso ha fatto dei generi sentimentale, poliziesco, avventuroso, fantascientifico ecc., dei blocchi uniformi e senza sfumature, mentre è chiaro che all’intero di essi si possono trovare autori e opere di ben differente livello. Ma la letteratura di consumo non è pur sempre letteratura di consumo?, obietteranno i puristi. Ebbene sì, ma ciò non toglie che ci sia consumo e consumo; non tutte le vacche sono nere, direbbe Hegel, anche se di notte pare che lo siano. Non pochi scrittori divenuti poi famosi e riconosciuti dalla critica per il loro spessore artistico, da giovani hanno esordito nel romanzo sentimentale, o avventuroso, ecc.; non si sono vergognati di partire da lì, dalla gavetta, e di rivolgersi a un pubblico di persone semplici e non troppo istruite. Diremo di più: vi sono racconti e romanzi di grandi e anche grandissimi scrittori, da Balzac a Maupassant, da Dostoevskij a Cechov, da George Eliot a Graham Greene, che risentono fortemente dei moduli e dello stile della letteratura sentimentale di consumo. Il confine non è così netto come s’immaginano i puristi.

Scriveva la giornalista Marisa Sfrondrini in un articolo di molti anni fa (Un po’ di rosa per evadere, sul settimanale Alba, Milano, n. 31-32, del 3-10 agosto 1984, pp. 19-20; 20-21):

Sono loro, le signore, le autrici italiane, più ovviamente i deliziosi Delly, i fratelli francesi che pubblicato n Italia da Salani in una edizione dalla sopraccoperta rosa, inaugurarono il genere e lo battezzarono. Quasi tutte le ragazze dagli anni trenta in poi hanno nei loro ricordi almeno una Magalì con il suo amore quasi impossibile per sua grazia il duchino, una Mitzi o una Schiava o regina… Delly era una lettura permessa anche dalle madri più severe a partire dai quattordici anni. Soltanto candidi amori, un po’ sfortunati al principio, coronati sempre da giuste nozze. Niente erotismo, niente follie.

Già diverso il discorso per Amalia Negretti Cambiasi Odescalchi, famosa come Liala. Un po’ più torbidi i suoi languori post-dannunziani. I protagonisti di "Signori", di "Trasparenze di pizzi bianchi", di "Peccato di Guenda" hanno le ali, perché generalmente il "lui" di Liala è aviatore (la divisa azzurra da ufficiale ha sempre il suo bravo fascino!), ma non sono angeli. E il mondo in cui trascorrono la loro vita tra un volo e l’altro, tra un amore e l’altro è irreale, fantastico. Niente sapori popolari, niente vita vera. Il clima dei romanzi di Liala è quello dei telefoni bianchi del cinema fascista, dove tutto va bene madama la marchesa. (…)

Il boom del romanzo d’amore non è soltanto cartaceo. Anzi. La tv è l’ambito in cui si è naturalmente sviluppato e si è evoluto ampiamente il genere. Passando attraverso un transito obbligatorio: il fotoromanzo. L’immagine, grande protagonista degli anni del secondo dopoguerra, oltre che dagli schermi cinematografici ha colpito anche dalla carta. Il romanzo a fumetti (disegnato da Walter Molino) prima, poi il fotoromanzo con i suoi autonomi divi (primattori e primattrici, caratteristi, generici) hanno influenzato il modo di leggere della gente. Le minute descrizioni dell’abito da ballo della Marchesa fatale hanno fatto posto alla foto che, se da una parte non lascia più spazio alla fantasia di ciascuno, permette dall’altra di dare corpo ai sogni, tanto da far correre il rischio, alle ragazze con la testa nelle nuvole, di innamorarsi dello Sceicco Bianco di felliniana memoria.

Il passo successivo d’obbligo è lo sceneggiato tv, il genere che aveva visto la tv italiana degli albori partire favorita. Qualcuno ricorda ancora "Jane Eyre" con Raf Vallone e la dolcissima Ilaria Occhini, oppure "Capitan Fracassa", per non parlare del mitico "Romanzo di un giovane povero" che fece sospirare nonne e nipoti contemporaneamente per quel bravo ragazzo romagnolo, prematuramente scomparso, dal poco romantico nome di Paolo Carlini. Ora che la TV (con la maiuscola) è diventata "le tv" con licenza di caccia alla audience, il tele sceneggiato a puntate è diventato "soap opera", letteralmente, opera del detersivo, perché usata oltreoceano per accompagnare le pubblicità). "Ciranda de Pedra", "Dancin’ Days", "Anche i ricchi piangono" o "Sentieri" che ancora ha puntate da dare, hanno riempito di lacrime e sospiri pomeriggi televisivi delle casalinghe, dei pensionati e delle giovani studentesse. Aggiungendo però, alla ricetta tradizionale, esso e tradimenti.

Questo è il segno del nuovo. Da romanzi per "giovinette" con una certa positività di contenuti, al di là di indubbie fantasie e stucchevolezze, dove al massimo l’ingenua si faceva travolgere dal peccato di passione, pagando poi duramente la sua colpa (spesso persino con la morte), oggi si è passati alle coppie che si uniscono e si dividono, al "cannibalismo" dei crudeli protagonisti di "Dallas" o "Dynasty", dove amore ha perso ogni maiuscola.

Ormai non sono più che prodotti realizzati dai microprocessori di un immane "computer". Le immagini intercambiabili, i caratteri riprodotti a stampino, le vicende simili fino al pericolo di plagio, con attori che passando da un "Flamingo Road" ad un "Dallas", confondono sempre di più lo sprovveduto telespettatore. I romanzi rosa si sono classificati come un prodotto usa-e-getta perfettamente intonato ai nostri anni. Meglio, a quel che si vuole far apparire del nostro tempo. Anche la letteratura, la carta stampata rosa (ritornata di gran moda con milioni e milioni di copie vendute) ha aggiustato (si fa per dire) il tiro, adeguandosi ai nuovi gusti. Più sesso, più tradimenti. E neanche più una "signora" (se si esclude l’eterna Barbara Cartland dal viso truccato alla perfezione). Niente autrici, soltanto nomi di collane "che vi faranno sognare".

Sì, perché nonostante l’anonimato, nonostante l’industrializzazione, si vuole sempre sognare…

La ragione del disprezzo dei critici e dei letterati progressisti verso la letteratura "rosa" e i suoi derivati televisivi, è più che evidente: per loro, si tratta di oppio dei popoli, un po’ come lo era la religione per Marx. Finché la pensionate e le parrucchiere leggono libri rosa e si perdono a seguire le telenovele, non parteciperanno mai alle lotte per la costruzione di un mondo migliore. Come sempre – sono cento anni che quei signori non capiscono nulla dei cambiamenti sociali; e basterebbe già questo per vedere che sono dei morti viventi — hanno completamente sbagliato bersaglio. Il pericolo non è che la gente si rifugi in un immaginario avulso dalla realtà; o meglio, questo pericolo esiste, ma viene da tutt’altra parte: viene da internet, dall’uso smodato del computer e specialmente del telefonino, tanto più quando viene messo in mano a dei ragazzini o a dei bimbetti di sette, otto anni; e, più in generale viene dal consumismo che strappa gradualmente l’anima delle persone, insieme alla loro capacità di discernimento. Il vero pericolo è pertanto che passino, e si insedino definitivamente nelle menti e nei cuori della gente, la stupidità e la volgarità; e il grande modello è rappresentato dalla stupidità e dalla volgarità di certi intellettuali di prestigio, di certi poeti ermetici, di certi critici incomprensibili e di certi filosofi illeggibili (avete mai provato a leggere un libro di Massimo Cacciari?), per non dire di certi registi truculenti e disgustosi (avete mai visto Porcile di Pier Paolo Pasolini?) ma garantiti e magnificati dalla cultura dominante, che è, specie nel nostro Paese, insopportabilmente radical-chic (si veda la sacrosanta parodia della Corazzata Potemkin nel film di Fantozzi). In conclusione: è assai più onesto far sognare le massaie raccontando loro banali storie d’amore, che prendere in giro tutti quanti con una seriosità delirante o incomprensibile ai più…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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