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Un bravo scienziato deve anche essere crudele?

Lo studio della natura comprende lo studio delle forme viventi; e lo studio delle forme viventi implica che, per arrivare a conoscere tutti i segreti della loro fisiologia, è necessario sezionare i cadaveri. Né questo è ancora sufficiente: l’ideale, per comprendere il funzionamento dei singoli organi, sarebbe quello di poter sezionare i corpi ancora viventi: come del resto gli scienziati hanno fatto, per secoli, con gli animali da laboratorio, e come facevano nell’antichità con i gladiatori morenti e in genere con i condannati a morte. È lo stesso principio del trapianto degli organi: per essere espiantato, un organo deve essere ancora perfettamente funzionante; e per essere ancora perfettamente funzionante, bisogna che l’organismo cui appartiene sia ancora vivo. Sgradevole verità, ma pur sempre verità. Per questo la medicina contemporanea ha messo in circolazione la nozione di morte cerebrale: per far credere che, una volta arrestate le funzioni del cervello, il corpo è morto, e si può quindi procedere all’espianto degli organi per salvare altre vite che si trovano in pericolo, o comunque per beneficiare altri individui. Ma è una mezza verità e anche meno di mezza. La morte cerebrale non coincide con la morte dell’individuo, con la morte totale; la morte vera sopraggiunge quando il cuore cessa di pompare il sangue, irradiando l’intero organismo. E infatti, se il cuore smette di pompare, gli organi deperiscono in un tempo rapidissimo e non sono più idonei al trapianto: non servono più a nulla. Abbiamo già affrontato l’argomento della vivisezione, sia umana che animale, in precedenti alcuni articoli (cfr. Celso, la vivisezione umana e le aberrazioni della medicina moderna, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 17/05/2007 e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 16/12/17; La cicala di san Francesco e la cicala di Galilei: due sensibilità e due culture a confronto, rispettivamente il 04/03/13 e il 30/03/18; e Quando Francesco Redi decapitava tartarughe per vedere quanto vivevano senza testa, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 13/11/17). In questa sede vorremmo allargare un po’ il discorso e vedere, in termini più generali, se si richieda a uno scienziato, e particolarmente a un medico o un anatomista, il quale voglia andare sino in fondo nell’indagine dei fatti naturali, di saper esercitare un certo grado di crudeltà nella sua professione.

Definiamo crudeltà il comportamento di chi infligga, intenzionalmente e lucidamente, delle sofferenze ad altri soggetti viventi, pur non essendovi obbligato e non trovandosi in uno stato di vera e propria necessità. Prendiamo il caso delle indagini sulla circolazione del sangue, che furono ritardate per secoli e secoli dall’istintivo rispetto degli anatomisti per la vita: essi ben sapevano che per strappare il segreto di come il sangue irrorasse le vene e le arterie, sarebbe stato necessario aprire il corpo di un animale vivo e osservare direttamente lo scorrimento del liquido ematico, cosa che avrebbe comportato la morte della cavia fra terribili sofferenze. Il prezzo sembrava troppo caro da pagare perfino agli scienziati del Rinascimento, fra i quali si segnalano i nostri Realdo Colombo (1516-1559), cremonese, professore di anatomia a Padova, e Andrea Cesalpino (1519-1603), di Arezzo, direttore dell’Orto Botanico e professore di medicina a Pisa, che si avvalsero, entrambi, quasi certamente, degli studi dello spagnolo Michele Serveto (1511-53), noto al vasto pubblico per essere incorso nell’ira di Cavino, che lo fece bruciare vivo come eretico a Ginevra, ma che era anche un valente scienziato e che aveva gettato, per primo, le basi della moderna ricerca sulla circolazione del sangue. Andrea Cesalpino, in particolare, sembra essersi avvicinato quanto mai allo svelamento dell’ultimo segreto della circolazione sanguigna; ma pare anche che si sia fermato a pochi passi alla meta per una forma di repulsione a fare ciò che, solo, gli avrebbe chiarito gli ultimi lati oscuri del problema: aprire il corpo palpitante di una creatura viva e osservare con i propri occhi il funzionamento del cuore, delle vene e delle arterie. Ciò avrebbe richiesto una dose di fredda crudeltà che egli non sentiva di possedere, ma che avrà, mezzo secolo dopo, l’inglese William Harvey (1578-1657), al quale viene ascritto, specialmente dalla cultura anglosassone, tutto il merito di aver chiarito definitivamente la questione del funzionamento dell’apparato circolatorio e delle proprietà del sangue; anche perché egli si guardò bene dal citare, sia pure di sfuggita, i suoi predecessori, dei quali era geloso: lo stesso modo di fare di Galilei e più tardi, in misura perfino maggiore, di Isaac Newton, con la sua asperrima contesa contro Huygens per affermare la sola validità della sua teoria corpuscolare della luce.

Scrivono Meyer Friedman e Gerald W. Friedland nel libro Le 10 più grandi scoperte della medicina; (titolo originale: Medicine’s 10 Greatest Discoveries, Yale University, 1998; traduzione dall’inglese di Nicoletta Colombi, Milano, Baldini & Castioldi, 2000, pp. 47-49):

Il "De re anatomica", pubblicato da Colombo nel 1559, ebbe ampia diffusione in tutta Europa. Persiste qualche dubbio sul fatto che il botanico e anatomista pisano Andrea Cesalpino fosse a conoscenza dei nuovi argomenti cardiovascolari in esso contenuti prima di pubblicare, nel 1571, l’opera in cui egli forniva la descrizione della circolazione polmonare. Cesalpino non fece menzione è di Serveto né di Colombo, così come quest’ultimo aveva mancato di attribuire a Serveto il merito di tali novità. Gli scienziati dell’epoca post-rinascimentale non andavano tanto per il sottile nei loro tentativi di rivendicare la paternità di quelle che consideravano essere le LORO PERSONALI scoperte, un po’ come fanno oggi i moderni vincitori del premio Nobel.

Cesalpino arricchì il campo con due nuove importanti osservazioni accompagnate da un errore madornale. Dapprima notò che l’occlusione temporanea di una vena nel braccio o nella gamba era sempre seguita dalla sua distensione a valle dell’occlusione. Fu questo particolare specifico, più tardi osservato anche da William Harvey, a costituire la chiave di volta per la scopetta da parte dello scienziato inglese della circolazione sistemica all’interno del corpo. La sua importanza critica sfuggì tuttavia a Cesalpino, il quale, in seconda battuta, rilevò che la vena cava possedeva un diametro maggiore mentre si riversava nell’auricola destra rispetto a quando lasciava il fegato. Erroneamente egli ritenne questa differenza prova del fatto che tale vaso trasportasse il sangue DAL e non AL cuore.

È virtualmente impossibile comprendere per quale motivo lo studioso italiano, così brillante sotto tanti altri aspetti, fosse incappato in un simile errore pur avendo osservato come il sangue venoso presente negli arti del corpo viaggiasse sempre in direzione del cuore. è nostra opinione che questo botanico dall’animo gentile non sia arrivato a realizzare la scoperta più importante nel campo della medicina perché non poteva sopportare la macabra idea di squarciare il petto ad animali vivi e sofferenti per prendere visione del cuore ancora palpitante. Se avesse posseduto la sfrontata crudeltà scientifica di Galeno o di Colombo, oppure di Harvey, mezzo secolo più tardi, tutti e tre attivi praticanti della vivisezione, avrebbe dato ragione agli storici italiani dell’arte medica che lo hanno acclamato come vero svelatore del segreto della circolazione. Ma dal momento che egli esitò a utilizzare questa procedura, la loro attribuzione di un simile primato al proprio connazionale era e resta una mera vanteria sciovinistica.

La constatazione, dura e tutt’altro che piacevole, che uno scienziato, per raggiungere il massimo dei risultati nelle sue ricerche, deve essere in grado di esercitare un certo grado di crudeltà, ci porta su un terreno simile a quello che Machiavelli definì per la sfera dell’azione politica, laddove scrisse che il principe, se necessitato, deve saper entrare anche nel male. E specificava che questo principio, se gli uomini fossero tutti buoni, non sarebbe buono; ma poiché sono tristi (malvagi o inclinati alla malvagità), allora bisogna che il principe si conformi alla loro mentalità e al loro modo di agire, a meno che voglia soccombere. Il che ci fa riflettere che il secondo ramo della ricerca e dell’attività umana a emanciparsi dai legacci della morale, dopo la politica, è stata la scienza, e in particolare la medicina; e che come Machiavelli ha rivendicato allo scienziato la libertà di non sottomettersi ad alcuna legge al di fuori di quelle della politica stessa, così gli scienziati del XVIII secolo, rendendo lecita la dissezione dei cadaveri e la vivisezione degli animali, e rifiutando di sottomettersi ad alcun altro principio che non sia la scienza stessa, hanno ritagliato per sé altrettanta indipendenza. Il senso di colpa dei cattolici per il processo Galilei ha fatto il resto.

In effetti, vi è un tratto brutale nel carattere di molti dei maggiori scienziati moderni; una brutalità che giunge a colpire anche se stessi e i propri cari, come nel caso di Edward Jenner che esperimenta il vaccino contro il vaiolo inoculandolo prima a un bambino di otto anni, poi al suo stesso figlioletto di pochi mesi. È una brutalità che accomuna Galilei, Harvey, Newton; ne abbiano già parlato a suo tempo e non vogliamo ripeterci. Non si tratta solo della vivisezione degli animali, è tutto uno stile nei rapporti umani che denota arroganza, presunzione, disprezzo dell’altro e adorazione narcisistica della propria personalità. Si direbbe che a quelle persone mancasse la dote della sensibilità: erano menti rigorose, logiche, capaci di escursioni temerarie, ma del tutto prive di quella empatia nei confronti del prossimo che rende affascinanti gli uomini dotati di grande intelligenza. Non pensiamo che ciò dipenda solo dal fattore del carattere individuale. Il fatto che in Galilei, Harvey, Newton, vi siano molti tratti tipici del carattere collerico, invidioso, malevolo, vanaglorioso, non può dipendere solo da predisposizioni soggettive; crediamo che sia la struttura stessa della scienza moderna a favorire, anzi a render necessaria, la presenza di uomini con quelle caratteristiche, con quel tipo di’intelligenza e con quella caratteristica mancanza di sensibilità. Solo un bruto può strappare le cartilagini a un animale vivo, come la cicala di Galilei, senza provare il minino senso di pietà per le sofferenze inflitte alla povera bestia; così come lo scienziato fiorentino non provava il minimo scrupolo ad assalire qualunque avversario con la tecnica dell’ironia, del sarcasmo, del ridicolo e del disprezzo: e mai che gli sia venuto il dubbio che, dopotutto, per confutare le idee di un altro scienziato, forse non è necessario distruggerlo e ridicolizzarlo sul piani personale. E che dire di Harvey, un tipo talmente iracondo da girare sempre armato di pugnale e da esser pronto a tirarlo fuori alla prima occasione, in una qualsiasi rissa da osteria? O di Newton, che pur di screditar un rivale e di svalutare la sua opera, non si tirava indietro neppure se doveva far ricorso alla calunnia, alla maldicenza e all’intrigo?

Ciò che rende pericolosa e inumana la scienza moderna è la valorizzazione esclusiva della ragione logico-matematica e la totale indifferenza per l’affettività e quella forma di saggezza che nasce dalla comprensione della sofferenza. Ma la ragione privata sia dell’intelligenza, nel senso più umano del termine, sia della pietà, è uno strumento, sì, molto efficace per realizzare conquiste di tipo materiale, non però per fare in modo che tali conquiste si risolvano nel portare la condizione umana su un piano più alto di consapevolezza. È solo uno strumento estremamente affilato: serve per tagliare, non per costruire. Riduce qualsiasi questione umana a un problema aritmetico. Così, ad esempio, fa la scienza medica moderna, bravissima nel diagnosticare le malattie e nel formulare le relative terapie, quasi mai, però, chiedendosi perché in quel certo individuo insorga quella certa malattia, e, inoltre, indifferente all’individuo in quanto totalità di corpo, anima e spirito, ma interessata solo ai risultati clinici e alla regressione dei stintomi, restando ignorate le cause profonde. Tale impostazione dei problemi coi quali si confronta rende la scienza moderna fredda e priva di ogni spiritualità, qualcosa che sfiora soltanto la sostanza della realtà umana, protesa perennemente verso la soluzione di problemi tecnici. Ma l’uomo non è un problema tecnico, o un insieme di problemi tecnici; è soprattutto una domanda di senso. La scienza moderna, viceversa, non si pone mai domande di senso: ciò esula completamente dalla sua prospettiva e dalle sue finalità; anzi, a ben guardare essa non ha alcuna finalità. E proprio per questo il grande potere di cui dispongono gli scienziati, oggi, costituisce un pericolo. Il potere non dovrebbe mai essere nelle mani di chi non si pone alcuna finalità, ma è capace soltanto di risolvere problemi tecnici. Clonazione di esseri viventi, fecondazione eterologa, anche servendosi del seme congelato di persone decedute, intervento sul DNA al fine di modificare i caratteri genetici, creazione di esseri ibridi, con geni animali e umani, sono solo alcune delle capacità mostruose, in gran parte già divenute realtà, sviluppate dalla scienza biologica negli ultimi anni. A questo puto manca solo l’unione della biologia con l’informatica e la meccanica e avremo la creazione di una dimensione intermedia tra il vivente e il non vivente, ad esempio con la fabbricazione in serie di cyborg. Anche la psichiatria potrà diventare, come potenzialmente lo è già ora, una supertecnica di controllo mentale delle persone. Tutto questo sottintende una grossa carica di crudeltà, cioè d’indifferenza per le sofferenze inflitte agli esseri umani in nome di un non meglio specificato progresso della civiltà…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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