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I cattivi maestri del ’68 e i loro odierni frutti velenosi

Francesco Saba Sardi (Trieste, 1922-Milano, 2012), nipote del poeta Umberto Saba, è stato un intellettuale non di prima fila, ma indubbiamente di un certo peso nella cultura progressista italiana della seconda metà del Novecento. Anzitutto come traduttore: poliglotta, traduceva da sette lingue e chi ha divorato i classici inglesi, americani, francesi, tedeschi, spagnoli, danesi, serbo-croati, portoghesi, negli anni fra i ’70 e i primi del terzo millennio, si è imbattuto decine e decine di volte nel suo nome quale autore della loro versione in lingua italiana. Una cosa sorprendente: ci si chiede dove trovasse il tempo per condurre un’opera così ciclopica. Poi, come autore di viaggi: sempre in movimento, ha visitato una quantità di Paesi di tutto il mondo, dall’India al Brasile, dall’Egitto al Marocco, dalla Turchia alla Corea, senza tralasciare la vecchia Europa, specialmente la Gran Bretagna e la Francia, e ha raccontato quelle sue esperienze in una serie di pubblicazioni a cura del Touring Club Italiano. Poi, la serie dei libri di saggistica che gli hanno dato, in maniera più specifica e personale, una certa notorietà: libri sugli argomenti più disparati, ma con una certa preferenza per la storia delle religioni, il mito, il sesso, il contro-potere, la critica al cristianesimo (Il Natale ha 5.000 anni), con uno speciale interesse per la psicanalisi junghiana, il surrealismo (specialmente Cocteau), il buddismo, l’antipsichiatria, ecc. Questi libri, insieme ai romanzi, ai racconti e alle poesia, formano un corpus di quasi sessanta titoli; e di nuovo sorge spontanea la domanda: come trovava il tempo di scrivere così tanto? Sia come sia, è questo aspetto della sua produzione che maggiormente rivela le sue inclinazioni culturali: quelle di un inesausto demistificatore, tanto radicale quanto rozzo, di tutto ciò che è morale "tradizionale", ordine, famiglia, patria, fede cattolica. In altre parole, questo letterato prodigioso è stato uno dei tanti cattivi maestri della pessima stagione culturale post-sessantottina: quando chiunque negasse la malattia mentale, o accusasse la Chiesa di reprimere le coscienze al solo scopo di esercitare un potere, e chiunque predicasse la liberazione sessuale fino ai limiti estremi, passava per un grande illuminato, per un guru, specie agli occhi delle giovani generazioni, più che mai impegnate a contestare e rifiutare i genitori e i professori (ma non altrettanto, rispettivamente, i loro soldi e i loro diplomi di laurea), e nondimeno più che mai impegnate a ricercare il surrogato d’un padre freudiano, un Marcuse, un Adorno, un Sartre, o anche un Saba Sardi, in mancanza d’altro e di meglio; o magari, nel caso dei cattolici di sinistra, un don Milani che sparava a zero sulle professoresse, o un Turoldo che spezzava in pubblico la corona del Rosario.

Una cosa colpisce in maniera particolare, nel confrontarsi con la sterminata produzione di questo scrittore indubbiamente poliedrico: la sua ripetitività, la sua mancanza di originalità, la sua ossessiva ripetizione di un unico punto di vista, che vorrebbe essere libertario — o libertino — ed emancipato da ogni pastoia e da ogni condizionamento, mentre soggiace al più furioso dei bigottismi e alla più irredimibile delle preclusioni mentali: quella di chi è sempre pronto a scoprire e denunciare l’ipocrisia, il complotto, la manipolazione, l’inganno, la perfidia del "sistema", ma non applica mai altrettanto senso critico nei confronti di se stesso e delle proprie idee. Saba Sardi è stato il tipico esempio dell’intellettuale organico, non tanto nel senso gramsciano del termine, ma nel senso ben diverso, per non dire opposto, di organico al sistema che aspramente e instancabilmente denunciava. Possibile che non si sia mai chiesto come mai, se da ogni sua pagina traboccava l’avversione implacabile per quel sistema, per quella borghesia, per quella falsità culturale, egli era corteggiato dalle maggiori case dì editrici e poteva pubblicare con esse decine di titoli? E come mai fosse stato candidato al Nobel per la letteratura per ben quattro volte? Possibile che non gli sia mai venuto il dubbio, quand’anche fosse stato il più geniale e il più originale dei nostri intellettuali, che l’intellettuale veramente scomodo, veramente anticonformista, veramente irriducibile al sistema, non è mai apprezzato, non è mai ricercato, non è mai corteggiato, tanto meno dalle grandi case editrici? E che se invece gli capita di esserlo, forse dovrebbe farsi qualche domanda sulla propria effettiva carica rivoluzionaria? Nel caso specifico, quel che possiamo dire è che Francesco Saba Sardi ha seminato abbondantemente in vista di quella sovversione cultuale che si è poi, effettivamente, realizzata negli anni successivi, al punto che quasi tutti i suoi libri, che allora potevano apparire estremamente audaci e di rottura, oggi, in tempi di matrimonio gay e di utero in affitto, fanno quasi sorridere per la loro timidezza e la loro cautela; e tuttavia, anche se i fatti gli hanno dato ragione, non c’era nulla di irresistibile e nulla di particolarmente acuto, onesto e veritiero nelle sue violentissime tirate contro il "sistema": della Chiesa, della scuola, della psicologia, delle carceri, della polizia, ecc., ma quella era semplicemente la moda culturale di allora, che soffiava impetuosa in tale direzione. In questo senso egli è stato un piccolo intellettuale, un Sade in sedicesimo, un Foucault in miniatura, un Wilhelm Reich d’acque basse, privo della originalità dei modelli originali e dotato solo della forza d’inerzia di un pensiero "sovversivo" che allora piaceva tanto ai giovani, ma piaceva anche a larghi settori del "potere": quelli, per intenderci, specializzati nel trasformare i fenomeni della contestazioni in occasioni per ampliare il mercato e quindi per rafforzare il sistema capitalista in ciò che esso ha di peggiore, la moltiplicazione dei profitti mediante l’istupidimento delle masse.

Prendiamo quasi a caso uno dei suoi numerosissimi volumi di saggistica "contro", che ci sembra anche uno dei più rappresentativi: La perversione inesistente, ovvero il fantasma del potere (Milano, La Salamandra, 1977), apparso sulla stessa collana "storica" I campi magnetici, in cui apparvero, sempre negli anni ’70, una quantità di libri sulla cosiddetta liberazione sessuale, di denuncia del maschilismo, di apologia del femminismo, dell’inversione sodomitica e di molte altre forme di "irregolarità" sessuale, vista come la quintessenza della liberazione umana e della demistificazione del potere; libri che oggi appaiono quasi patetici, tanto si è spostato in avanti il quadro complessivo di riferimento e tanto è "progredita" la società sulla via annunciata dai tanti Saba Sardi di allora. Per farsi un’idea del contenuto di questo libro di formato tascabile, ma di quasi 400 pagine fitte, è utile leggere la presentazione in quarta di copertina, ripresa dalla Prefazione dell’Autore:

In questo libro si afferma che la perversione sessuale è un fantasma creato da una norma arbitraria di continuo variabile, la quale fissa i mutevoli limiti del proibito. Per definire la perversione, come per definire la follia, occorrono infatti due polarità: chi fa propri, impersonandoli, certi atteggiamenti, e chi li giudica e li condanna, li classifica, li inserisce nei modelli conoscitivi della società gerarchica.

Psichiatra e poliziotto sono incaricati di perseguitare la perversione al pari della follia, due entità inesistenti la cui presunta esistenza serve a tranquillizzare la società. Quella che è oggi la "perversione", mostro relegato nei manicomi, minotauro decretato intollerabile rispetto alla "norma", che è poi il modello di comportamento imposto dalla società, non è che una delle tante versioni , sia pure alienate e deformate, del fondamentale bisogno, dell’uscir-da-sé, dell’accesso al poter-essere, all’estasi unica forma di effettiva libertà. La perversione ha dunque una storia, che è quella del potere. Risalire alla sua origine, significa rifarsi all’origine del potere. Rivendicarne l’originalità, la ricchezza, la potenza rivelatrice (rivendicare cioè la sovranità dell’erotismo) significa quindi proporre il rifiuto al potere (non a un potere), significa insinuare il sospetto nei confronti della Storia intesa come svolgimento del gioco del potere, significa opporre un deciso "no" alla riduzione dei valori esistenziali, all’universo monodimensionale, il mondo scientistico del "furore logicizzato".

È molto triste pensare che un simile concentrato di pie banalità pseudo libertarie e di simili luoghi comuni della cosiddetta controcultura del ’68 abbiano trovato un vasto pubblico, e acceso la fantasia di tanti giovani e offerto loro, servito su un piatto d’argento, quel surrogato di cultura "nobile", ma rivoluzionaria, che essi non erano assolutamente in grado di produrre da soli, da opporre alla cultura vecchia, ipocrita e decadente della borghesia, cioè dei loro padri e dei loro professori, contribuendo non poco a far diventare la società quel che è diventata in questo ultimi anni: una bolgia dantesca di perversioni legalizzate e di orridi riti di blasfema irrisione trasformati in pane quotidiano. E si noti anche la piatta, semplicistica insistenza nel proporre il parallelismo fra psichiatria e morale sessuale: così come la pazzia è stata inventata dagli psichiatri al servizio del potere, così i moralisti hanno inventato la perversione, in entrambi i casi negando un fondamentale bisogno di libertà della persona, che si esplica andando "oltre", infrangendo limiti arbitrari, e protendendosi verso l’estasi dell’erotismo, unica vera forma di liberazione e concentrato di tutte le battaglie per l’emancipazione dell’uomo dal Potere. Il quale Potere è sempre lì a creare mostri inesistenti al solo scopo di reprimere: per questo abbiamo definito Saba Sardi un Foucault in formato ridotto; per lui, come per il filosofo francese, vale sempre e comunque il principio che l’essenza del Potere è una sola: sorvegliare e punire. Un Potere, peraltro, che resta alquanto vago e fumoso, buono, si sarebbe portati a credere, per tutte le stagioni (e per tutte le spiegazioni); forse, se costoro si fossero presi il disturbo di esaminarlo un po’ meglio, si sarebbero accorti che stavano servendo proprio uno dei volti del Potere prossimo venturo: quello della società permissiva e libertina, fase avanzata del dominio universale del capitale finanziario. Frasi come questa: Psichiatra e poliziotto sono incaricati di perseguitare la perversione al pari della follia, due entità inesistenti la cui presunta esistenza serve a tranquillizzare la società, sono veramente un monumento al conformismo e alla superficialità intellettuale, forse anche alla disonestà; perché è difficile essere onesti e allo stesso tempo considerare la malattia mentale e la perversione come inesistenti, come creazioni arbitrarie del potere, il cui solo scopo è quello di sorvegliare e reprimere lo slancio degli uomini verso la libertà. Queste cose le poteva credere in buona fede un ragazzo di diciassette o diciotto anni, viziato e pieno di "astratti furori" (per dirla con Vittorini), nonché del tutto digiuno di esperienza della vita vera, dal lavoro ai sentimenti; già a vent’anni avrebbe dovuto svegliarsi e a venticinque avrebbe dovuto farsi una bella risata di fronte a una interpretazione così banalmente riduttiva di due realtà terribilmente serie, come la malattia mentale e la perversione sessuale. Ma appunto il fatto che i ragazzi di allora, e non solo i ventenni e i venticinquenni, ma anche i trentenni e i quarantenni, non si siano accorti delle enormi sciocchezze che il Potere (editoriale e cinematografico, in questo caso) rifilava loro, il fatto che non si siano ribellati alle teorie di Franco Basaglia, che la malattia mentale è sostanzialmente un prodotto delle ingiustizie sociali, e che non abbiano accolto con fischi e pernacchie i film di Pier Paolo Pasolini o di Bernardo Bertolucci e di molti altri, che erano tutti delle variazioni sullo stesso tema, quanto sono puliti e spontanei i giovani con la loro ansia di autenticità e felicità, anche sessuale, e quanto sono sporchi e ipocriti gi adulti, nel loro perbenismo repressivo, la dice lunga su come la società di allora abbia vissuto una gigantesca fase di rimbambimento intellettuale e d’impoverimento culturale, al punto da scambiare per oro zecchino le perle di qualunquismo di un Marcuse, di un Cohn-Bendit, di un Capanna e di un Toni Negri.

E che dire della Storia ridotta a "gioco di potere", e il "no" a questo gioco di potere ridotto a un "sì" alla ricerca della liberazione sessuale estrema, anche nelle forme che la società perbenista definisce perverse? È solo una rielaborazione dello slogan sessantottino: Fate l’amore, non fate la guerra; slogan che poteva e può sembrare solamente sciocco e vuoto, ma che oggi, arrivato nelle stanze del potere, rivela il suo volto inquietante, perfino mostruoso. Che altro è la mafia psichiatrica di Bibbiano, se non l’antipsichiatria giunta al potere, con la pretesa di erigere la perversione a norma e di dichiarare la norma, perversione? Strappare i figli a delle coppie normali per darli in affido a coppie omofile o comunque a soggetti che odiano la famiglia tradizionale, al preciso scopo, oltre che di guadagnarci sopra un po’ di soldi — il che non guasta mai – di dimostrare la "superiorità" delle forme alternative di sessualità, di educazione, di famiglia: non sono queste le idee dei tanti Pasolini, Bertolucci, Capanna, Moravia, Saba Sardi, Foucault, Marcuse, giunte al potere e sostenute da un robusto partito democratico e progressista, nonché da una chiesa dei poveri, degli ultimi, dei migranti, degli emarginati, insomma di tutti, tranne che dei normali, della gente che suda, che lavora, che tira su i figli con mille sacrifici: figli nati dall’unione di un uomo e una donna e non ottenuti con orrende pratiche genetiche o con ancor peggiori pratiche legali? E dunque, complimenti a tutti quelli che a suo tempo hanno seminato queste magnifiche idee: la messe è oggi ricchissima…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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