I cattivi maestri del ’68 e i loro odierni frutti velenosi
6 Agosto 2019È giusto condannare le stragi, ma i problemi restano
7 Agosto 2019Il viaggiatore che, tornando dal centro di Udine, si avvia verso la stazione ferroviaria, giunto all’altezza di Piazza della Repubblica, quasi di fronte al vasto edifico della scuola elementare Dante Alighieri – la scuola della nostra infanzia – resta colpito da un condominio dall’aspetto un po’ particolare, che spicca di una spanna al di sopra dei soliti caseggiati moderni, dall’aria anonima e intercambiabile; e che infatti è familiarmente chiamato dagli udinesi il Palazzo di vetro per la fuga prospettica delle finestre che formano come una serie di anelli continui lungo tutta la facciata, che gli conferiscono trasparenza, sveltezza ed eleganza. Noi, allora, ovviamente non lo sapevamo, né alcun insegnante ce l’ha mai spiegato, ma quel particolare edificio segna l’inizio, a Udine, nella modernità nell’ambito architettonico, precisamente l’anno 1935. L’ideatore dell’edificio, che è più esattamente noto agli studiosi come Palazzo Piussi Levi, è l’architetto Ermes Midena, di San Daniele del Friuli (1895-1972), il quale ha legato il suo nome anche a diversi altri edifici, tutti caratterizzati da un’impronta originale, come le casette a schiera in via Di Toppo, o il sorprendente palazzo del grande magazzino Il lavoratore, con la facciata tutta in cristallo e acciaio, e la sottostante Galleria Bardelli, o ancora la villa Brunetti Caisutti, in Via Antonio Caccia, quella che noi preferiamo, nella sua funzionale semplicità, col suo piccolo giardino, il basso muretto di recinzione e le superfici coperte da mattonelle smaltate color terra di Siena. Ma il Palazzo di vetro spicca fra le altre opere sia per la posizione centrale, sia per l’originalità dell’impianto costruttivo: essa esprime i concetti chiave del razionalismo architettonico, anche se, contemporaneamente, l’eclettico Midena rendeva omaggio al regime fascista costruendo, in perfetto stile fascista, cioè "romano", la Casa della G.I.L. femminile e il Collegio dell’Opera Nazionale Balilla, sempre a Udine, nonché la Casa dell’Opera nazionale Balilla a Codroipo; e progettava, a Tarvisio, la Colonia Alpina dell’Opera Nazionale Balilla.
Diamo queste ultime notizie perché Midena, a guerra finita, si iscrisse al Partito Comunista, fu eletto e divenne assessore comunale nelle file di quel partito, e fu membro della commissione edilizia; e quando si ammalò di ulcera, cui si aggiunsero poi l’enfisema polmonare e l’asma, andò a curarsi in Unione Sovietica. E ogni volta che, in seguito, passavamo davanti al Palazzo di vetro, ci accadeva di ripensare all’itinerario professionale e umano di questo notevole concittadino — si era stabilito in una delle sue case a schiera in Via Di Toppo, e a Udine si spense il 19 ottobre 1972 — e di metterlo in relazione con quello di altri stimati professionisti e intellettuali, dei quali potremmo fare un lungo elenco, compreso il nostro professore di lettere delle scuole medie, che fu partigiano e tra i fondatori dell’A.N.P.I. di Udine, e che noi abbiamo ricordato con gratitudine in un’altra occasione (cfr. l’articolo: "Cena a Talmassons", di Rino Domenicali, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia 10/10/17). E quel che vale per la nostra città, Udine, vale per tutte le città e i paesi d’Italia, anzi vale per tutta l’Europa e per tutto il mondo. La domanda insistente, molesta, come una zanzara che non se ne va, che non vuol andarsene, è sempre la stessa: va bene esser stati comunisti fino alla Seconda guerra mondiale; va bene aver creduto nel mito di Stalin prima del XX Congresso del P.C.U.S.; ma come è possibile che fior fiore di scrittori, architetti, registi, critici, filologi, artisti e filosofi, uomini di studio e di pensiero e non uomini del popolo, illetterati e facilmente suggestionabili, abbiano continuato a soggiacere a quel mito anche dopo la denuncia dei suoi crimini del suo lato mostruoso; che anche dopo il formidabile e inoppugnabile atto d’accusa di un gigante come Soleženitsyn abbiano continuato a rifiutarsi di ammettere la realtà del comunismo, la realtà dell’Unione Sovietica, e seguitato a cantare Bandiera Rossa e Bella ciao e a credere fermamente, incrollabilmente, che il verbo di Marx e Lenin avrebbe rifatto il mondo e ne avrebbe costruito uno migliore, più giusto e più umano? E da quella scomodo domanda, subito ne sgorgava una seconda, ancor più radicale, ancora più imbarazzante: che cosa deve succedere, che cosa si deve fare o dire, per mostrare agli uomini la verità delle cose, se essi, accecati da un’ingannevole ideologia, non sono assolutamente disposti ad accettarla?
Questa situazione psicologica è stata ben descritta da un altro friulano, lo scrittore Carlo Sgorlon nel suo romanzo La carrozza di rame, in cui descrive il ritorno a casa di Ettore, un vecchio comunista espatriato in Unione Sovietica durante il fascismo, e tornato a casa solo dopo tre decenni e infiniti patimenti, povero vecchio in un mondo ormai cambiato, il quale cerca di raccontare agli amici, compagni dalla fede incrollabile, quel che gli era accaduto, ma va a sbattere contro un muro d’incredulità preconcetta, perché in Unione Sovietica, secondo loro, le cose non possono essere come lui le descrive, anche se le ha viste coi sui occhi e vissuti sulla propria pelle (da: C. Sgorlon, La carrozza di rame, Milano, Mondadori, 1979, pp.269-271):
In Russia, anziché come un profugo, che aveva combattuto contro il fascismo, l’avevano guardato con mille sospetti e oblique diffidenze, e avevano finito per sbatterlo prima in un campo di concentramento e poi in una miniera d’oro, tra e montagne de Grande Altai. Là sotto faceva sempre un caldo soffocante, quaranta gradi e passa. Come tutti gli altri, veniva buttato di qua e di là come un oggetto. Era diventato una pratica polverosa negli scaffali di qualche archivio di polizia, senza nessun diritto, cancellato dal mondo, senza alcuna speranza, se non quella di lavorare nella miniera fino alla morte. Nessuno aveva mai dato il minimo ascolto alle sue proteste, e presto aveva dovuto smetterle perché ottenevano l’effetto contrario. Ciò che lo aveva tenuto in vita, che l’aveva indurito nella sopportazione, era soltanto la speranza remotissima di riuscire un giorno a tornare, per raccontare la verità.
"Il paradiso sovietico è un inferno" concluse.
"Forse c’è stato qualche errore. Vi hanno scambiato per un altro" disse Teodoro, che sentiva vacillare molte sue convinzioni.
"Nessun errore. Fu per pura diffidenza".
Stalin non era il binario patriarca del popolo, come centinaia di milioni di comunisti credevamo in tutto il mondo, ma un paranoico che vedeva spie, traditori e minacce al suo potere dappertutto. Ettore su questo punto aveva idee ferissime come diamante, Aveva lavorato nelle miniere accanto a dissidenti politici, con gente che era tata torturata e perseguitata, e che per un pelo non era finita davanti al plotone d’esecuzione. Aveva parlato con loro quando i sorveglianti non li stavano a sentire, e si era fatto un’idea paurosamente chiara della Russia staliniana.
Adesso sentiva di avere un solo compito, quello di rintracciar e vecchi compagni, gli amici, i ferrovieri in pensione, e raccertare loro come stanno le cose. Nonostante tutto ciò che aveva provato, si sentiva ancora investito di una imperiosa missione, perché spogliarsi di essa voleva dire togliere ogni senso e ogni sapore al rottame della sua esistenza.
Ma i suoi antichi compagni non gli cedettero. Lo ritennero un traditore o un pazzo. Ciò che raccontava era tutta un’invenzione, una infame calunnia, una farneticazione da visionario, o peggio il frutto di una macchinazione capitalistica. Misero in dubbio perfino il fatto che fosse stato un Russia. Ettore per convincerli cominciò a parlare in russo e a descrivere tutto ciò che aveva visto in quel Paese. Si trattava del resto soltanto di cose vedute nel viaggio di andate e di ritorno La Russia per lui era soprattutto una miniera d’oro, tra montagne remotissime di una Siberia spopolata.
I compagni ammisero che sì, forse era stato in Russia, ma non erano del tutto convinti neppure di questo. Nei loro sguardi Ettore sentiva pesare su di sé il ricordo dello stesso sospetto che in Russia l’aveva avvolto per trent’anni, un bozzolo che neppure la scure o la dinamite avrebbero potuto sfondare. Quanto al resto, lo considerarono la farneticazione di un pazzo o l’invenzione di un traditore. Cercarono di isolarlo, di farlo tacere. Loro erano arcisicuri che mentisse, ma forse non tutti avevano la stessa fede. Lo intimidirono, lo minacciarono, inventarono arcigni ricatti contro di lui. Ettore non tacque. Niente poteva spaventarlo. Aveva visto il diavolo, nelle miniere d’oro, sapeva che nulla di peggio vi poteva essere, e non aveva paura di niente. Persino la sua vita non valeva per lui più di un fico secco, e contava soltanto la verità da raccontare. Tuttavia la sua testimonianza naufragava contro la roccia solidissima dei compagni, per i quali Stalin e la Russia continuavamo a essere stelle polari in una notte profonda del mondo.
Ettore si affannava. Contava e tornava a contare la sua storia, aggiungeva nuovi particolari, ma andava sempre a cozzare contro un’incredulità di granito. Cominciò a dubitare di poter mai smantellare la fortezza della mistificazione, In fondo li capiva. Lui stesso aveva posseduto quella fede, e non avrebbe creduto a nessuno che gli avesse raccontato le sue esperienze, trent’anni prima, se non fossero incise sulla sua pelle. Chiese di entrare nelle case di molti vecchi compagni, ma nessuno lo volle. Si sentì come l’uomo con la gamba fasciata di fetidi stracci, che svegliava la gente col campanaccio di mucca, nel pieno della notte, gridando che era scoppiata la peste, e che tutti cacciavano come un cane rognoso, Era un fantasma che tornava dall’altro mondo. Il suo primo torto era quello di essere tornato. Il secondo, molto più grave, era quello di tentare di distruggere un mito, e per lui non poteva esservi che la lapidazione o la croce.
È proprio così. Se gli uomini abbracciano una fede in maniera fanatica, non accetteranno mai di prenderne le distanze, non ammetteranno mai il suo lato aberrante, neppure se si offrissero loro le prove incontrovertibili che la loro fede poggiava sul vuoto, sul nulla, o peggio, sull’inganno e sulla falsificazione sistematica della realtà. Si è mai visto un ex comunista fare autocritica e ammettere, con franca lingua: Sì, mi sono sbagliato, e sbagliato della grossa; sono stato ingannato, e come me sono state ingannate centinaia di milioni di persone. Niente affatto: sono transitati verso altri lidi, verso altri ideali, verso altri interessi, senza nulla rinnegare delle loro convinzioni di allora, e perciò portando nel nuovo itinerario un fardello di menzogne in putrefazione, che ammorba l’aria e getta un’ombra sinistra anche sul futuro. Come potrà venire qualcosa di buono da una generazione che non vuol riconoscere i propri errori, che non vuol ammettere la superiorità del principio di realtà su tutte le ideologie di questo mondo? È inevitabile che questo tipo umano torni a ripetere, senza pace, sempre lo stesso errore: negare la realtà per dar ragione alla propria ideologia, con conseguenze catastrofiche sul piano storico. E siccome agli ex comunisti era venuta a mancare la loro stella polare, il loro punto di riferimento, la loro giustificazione ideale, almeno dopo la caduta del Muro di Berlino, ecco che essi astutamente si sono stretti in un pestifero abbraccio coi cattolici progressisti, i quali hanno offerto loro, generosamente, l’ombrello del Vangelo di Gesù Cristo, con il bel risultato che gli ex comunisti si son presi l’ombrello e tutto il resto, e hanno comunistizzato il cristianesimo, e inquinati profondamente, con la lotta di classe e la teologia della liberazione, la Chiesa cattolica, sino al punto da spingerla – insieme ad altri fattori e ad altri soggetti — a diventare tutt’altra cosa da ciò che essa era ed è stata per millenovecento anni, e soprattutto da ciò che dovrebbe essere, che deve essere, se vuol essere la vera e fedele Sposa di Gesù Cristo.
Oggi assistiamo a un accecamento che, per molti aspetti, ricorda quello dei vecchi comunisti, così ben descritto da Carlo Sgorlon (e da alcuni altri scrittori non comunisti, come Leonardo Sciascia): quello appunto dei cattolici progressisti, che si sono impadroniti della Chiesa a partire dal Concilio Vaticano II e che ora, sotto il falso pontificato del signor Bergoglio, stanno assaporando l’ora del trionfo, letteralmente cacciando via tutti quelli che non ci stanno. L’ultima documentazione, in ordine di tempo, di tale degrado e di tale travisamento, ma non la più grave, né la più sorprendente, è di poche ore fa e riguarda un fatto accaduto nel 2017, ma che ora è visibile su Youtube: la signora Emma Bonino è stata invitata da un parroco di Biella a parlare dentro la sua chiesa; la detta signora, in quella sede, ha rivendicato, coerentemente con tutta la sua vita, la perfetta liceità e legittimità morale dell’aborto; e alla fine è stata calorosamente applaudita dal pubblico e dallo stesso sacerdote, mentre un fedele che ha osato protestare contro una simile enormità, è stato cacciato fuori in malo modo, come un distributore da strapazzo. C’è un elemento, però, che rende assai più grave l’accecamento dei cattolici dei nostri giorni, rispetto a quello dei vecchi comunisti di due generazioni fa. Il comunismo non ha mai preteso di essere una fede religiosa (anche se poi, in un certo senso, lo era), non ha mai chiamato Dio a testimonio della sua verità; il cristianesimo, invece, nasce dall’Incarnazione e dalla Redenzione di Gesù Cristo, venuto in terra apposta per mostrare agli uomini la via, la verità e la vita. Gli uomini non devono far altro che lasciarsi guidare e illuminare…
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione