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La letteratura tedesca 1933-45: un dodicennio nero?

Quando gli storici della letteratura tedesca arrivano all’epoca che coincise, per la Germania, con il regime nazista, saltano a pie’ pari, o quasi, tutto ciò che riguarda gli scrittori rimasti a vivere e lavorare in Germania, a meno che non sia stato loro riconosciuto lo status di membri della cosiddetta emigrazione interna. La cultura politically correct, comunque, dà per scontato che gli scrittori tedeschi di valore espatriarono non appena Hitler arrivò al potere, o poco dopo; impossibile, secondo loro, continuare a vivere e a scrivere in un clima come quello imposto dal nazismo, e ciò non solo per un artista o un letterato, ma per qualsiasi galantuomo. Sottinteso: in Germania potevano restare solo i mascalzoni, o i servi del regine, o, peggio di tutti, i nazisti sfegatati e fanatici. Da questa impostazione preliminare discendono una serie di giudizi e soprattutto di pregiudizi, che vedono collocati nel Paradiso dei buoni e dei bravi gli scrittori i quali, come Bertolt Brecht, i fratelli Thomas ed HeinrichMann, Walter Benjamin, Hermann Broch, Erich Maria Remarque, Stefan Zweig, Arnold Zweig, Franz Werfel, Joseph Roth (si noti che più di metà di essi erano ebrei) presero la via dell’esilio; in Purgatorio, o giù di lì, quelli che rimasero, però si fecero notare per la loro disapprovazione verso il regime, e pagarono un certo prezzo in termini di persecuzione, come Ernst Wiechert (del quale abbiamo già parlato altra volta), Hans Fallada, Hans Carossa, Hans Hellmut Kirst, Gregor von Rezzori, Heinrich Böll; all’Inferno, quelli che non solo rimasero in patria, ma mostrarono una maggiore o minore consonanza d’idee col regime hitleriano, almeno su questo o quell’aspetto del suo programma: Guido Erwin Kolbenheyer, Hans Grimm e Hans Friedrich Blunck. Un posto a parte occupano gli scrittori della rivoluzione conservatrice, gli Spengler, gli Jünger, gli Schmitt, i quali non aderirono al nazismo, però ebbero comunque il torto, agli occhi della critica successiva alla Seconda guerra mondiale, di aver sostenuto idee di destra, il che è stato sufficiente per accomunarli, almeno agli effetti pratici, se non a livello teorico, al programma nazionalsocialista. E un posto ancora più particolare spetta di diritto a quegli scrittori, come Günter Grass, i quali si fecero una notevole reputazione sul fronte progressista e di sinistra, salvo poi, in un impeto di sincerità, ma a distanza di moltissimi anni, ammettere di aver fatto parte di organizzazioni giovanili e paramilitari naziste, cosa peraltro allora obbligatoria (anche il giovane Josef Ratzinger era stato arruolato prima nella Hitlerjügend o Gioventù hitleriana, poi, durante la guerra, nella contraerea) e quindi tale che non avrebbe dovuto suscitare particolare scandalo, ma che invece lo suscitò, se non altro per la cura con cui questi trascorsi poco presentabili erano stati occultati per un ampio spazio di tempo.

Cos’è che non quadra, in questo schema concettuale? Tutto. In primo luogo, il fatto che si mescolano allegramente valori ideologici e politici con qualità letterarie e poetiche, cosa già di per sé alquanto scorretta. In secondo luogo, il fatto che questa graduatoria, questa pagella, ovvero questa sentenza da tribunale, risente del clima in cui venne concepita, cioè l’immediato dopoguerra, quando andavano per la maggiore le ideologie dei vincitori, che parevano destinate a conquistare il mondo: la democrazia liberale e il comunismo sovietico (e poi ad affrontarsi in singolar tenzone per la vittoria finale). Ma che quel clima culturale fosse del tutto privo di un minimo d’imparzialità per valutare l’opera degli scrittori tedeschi negli anni ’30 e ’40, lo dimostra quanto si sono rivelate artificiose le valutazioni circa gli scrittori della fascia più alta, quelli assurti in Paradiso. Chi non ricorda la pretestuosa, assurda sopravvalutazione dei meriti artistici e intellettuali di Bertolt Brecht, presentato fino agli anni ’60 e ’70 come uno dei massimi geni della letteratura mondiale, specie del teatro; ma scivolato poi, in seguito alla sconfitta politica del comunismo, verso posizioni decisamente più modeste nel firmamento letterario, un po’ come è successo al nostro Alberto Moravia, passato attraverso un analogo processo di pompaggio e di sgonfiamento, in concomitanza con gli alti e bassi del Verbo comunista? E questo, per fare un solo esempio.

Di conseguenza, viene spontaneo domandarsi se, come la caduta del comunismo ha contribuito ad offuscare non poco la fama degli scrittori di sinistra, e non solo quelli tedeschi, ma di tutto il mondo, non potrebbe esser vero anche il contrario: che la caduta del nazismo ha comportato la condanna totale degli scrittori operanti in Germania in un clima di sintonia col regime Hitler, una condanna che forse, tuttavia, non meritavano, restando sul terreo puramente letterario. E a quanti sono pronti a stracciarsi le vesti di fronte a una simile ipotesi, a un simile sospetto, ricordiamo che scrittori in sintonia con certi aspetti del regime nazista, e più ancora con quello fascista, ce ne furono anche fuori della Germania, dal norvegese Knut Hamsun, al francese Céline, all’americano Ezra Pound, allo svedese esploratore Sven Hedin; ed è difficile sostenere che furono tutti dei mascalzoni e dei cattivi scrittori. Pound, al contrario, è ormai riconosciuto come uno dei massimi poeti del XX secolo; Hamsun, già Premio Nobel per la letteratura, è stato il più puro interprete dell’anima norvegese. Perché dunque bisogna partire dall’idea che Kolbenheyer, Grimm e Blunck furono cattivi scrittori, o perché bisogna permettere che un eventuale giudizio politico sulla loro opera coinvolga necessariamente anche il giudizio letterario? Questione spinosa, specialmente per i signori (ipocriti) del politicamente corretto: si può essere dei validi scrittori e, nello stesso tempo, nutrire e professare delle idee politiche e sociali non troppo lontane da quelle del nazismo? I progressisti vorrebbero rispondere di no, perché tale è la loro esigenza etica e psicologica; ma è evidente che essi pretendono di sovrapporre l’etica e la psicologia all’arte, lasciandosi guidare dalle loro personali simpatie e antipatie.

E allora, diamo un’occhiata più da vicino all’intricata questione. Di Hans Grimm ci eravamo già occupati in un precedente lavoro (cfr. l’articolo: Hans Grimm, lo scrittore che voleva veder tornare alla Germania le sue ex colonie, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 05/11/17); su Kolbenheye e Blunck ci ripromettiamo di tornare quanto prima. Ma cerchiamo di capire che cosa, esattamente, viene loro rimproverato, sul piano letterario. Così Ladislao Mittner (Fiume, 1902-Vebeia, 1975), uno di massimi germanisti italiani contemporanei, ha rievocato quegli anni e quegli autori, in una smilza paginetta della sua monografia La letteratura tedesca del Novecento. Con tre saggi su Goethe (Torino, Einaudi, 1960, 1975, pp. 233-234), intitolando quel paragrafo, appunto, il dodicennio nero:

IL "DODICENNIO NERO".

Il "dodicennio nero" s’iniziò con i roghi dei libri "disfattisti" ed "antinazionali", e si concluse — giustizia della storia — con l’incendio di Berlino e coi suicidi collettivi nei sotterranei del quartier generale nazista. Esso segna un taglio profondo nella letteratura, ma soltanto in senso negativo. È il dodicennio del nulla, della distruzione metodica di ogni valore spirituale. Una rigorosa "pianificazione culturale" impose Guido Erwin Kolbenheyer, Hans Grimm e Hans Friedrich Blunck. Quest’ultimo, indubbiamente il meno originale dei tre, autore di deliziose fiabe popolari e di interminabili cicli di romanzi di conquistatori e colonizzatori mitici e navigatori anseatici, fu eretto a scrittore ufficiale numero uno del Terzo Reich. L’infausto binomio sangue e suolo si scinde nell’opera di Hans Grimm e di Kolbenheyer. Il primo, definito con molta esagerazione il Kipling tedesco, scrisse, dopo le sue magistrali, dense e potenti "Novelle dell’Africa" (1913), l’ampio romanzo "Popolo senza spazio" (1926), bibbia della geopolitica hitleriana, faticosissima lettura, infarcita com’è di discorsi e programmi politico-sociali. Per Kolbenheyer, medico, poeta, romanziere e drammaturgo, lo spirito s’identifica con la realtà biologia del sangue eretto ad entità metafisica, specialmente nella funesta opera teorica "Il capannone nel cantiere" ("Die Blauhütte" (1925). Dopo i romanzi dedicasti a panteista Spinoza ed al mistico Böhme, Kolbenheyer compose un romanzo in tre parti su Paracelso, medico, filosofo e mistico della natura (1917-1925): "Ecce philosophus theutonicus!"; un filosofo teutonico diventa anche Giordano Bruno, figlio di madre tedesca e quindi (!) panteista e nemico del dogma rimano e della Curia romana ("Eroici furori", prima redazione 1903). Nel "Paracelso", molte scene hanno un’immediata potenza narrativa; quanto alla prospettiva storico-religiosa, basti leggere il preludio, in cui il "Mendicante" — Cristo — tropo stanco ormai della sua missione e tropo deluso, incontra durante le sue peregrinazioni un altro viandante, il "Monocolo" (Wotan) che vinto da un senso di quasi fraterna compassione, si propone di aiutarlo… sostituendosi a lui e continuandone l’opera. Il nazismo assorbì i peggiori detriti dell’estetismo nietszschiano e georghiano. Göbbels, ministro della propaganda e giornalista di eccezionalissima abilità, era allievo di un allievo di George, dell’ebreo Gundolf; egli firmava i suoi articoli sempre col titolo "dottore", tralasciando però di far sapere ai sui lettori che la laurea gi era stata conferita da un professore ebreo…

A parte la volgarità di quel commento, giustizia della storia, a proposito della distruzione di Berlino nel 1945, messa in parallelo con i roghi dei libri condannati dal regime nazista, come se vi fosse un’equa proporzione fra l’aver bruciato dei libri e l’aver bruciato vive decine di migliaia di persone sotto le bombe dei "liberatori" angloamericani, più quelle assassinate, brutalizzate, stuprate dall’Armata Rossa sopraggiunta via terra, resta il giudizio pre-confezionato, cioè ideologico, sugli scrittori tedeschi che ebbero il torto, se così lo vogliamo chiamare, di non emigrare quando Hitler prese il potere e di non rinchiudersi neppure nella cosiddetta (e francamente un po’ risibile) "emigrazione interna": un giudizio totalmente negativo, senza sfumature ma anche senza una adeguata argomentazione. Ma siamo sicuri che tutto ciò che scrissero gli autori tedeschi, non diciamo nazisti, ma neppure contrari al nazismo, fra il 1933 e il 1945, cioè fra l’andata al potere (democratica) di Hitler e il crollo rovinoso della Germania alla fine della Seconda guerra mondiale, sia stato insignificante, ininfluente e piattamente banale? Oppure questa conclusione è già inscritta nella premessa ideologica, che il nazismo essendo stato il Male Assoluto, tutto ciò che non vi si oppose apertamente risulta inquinato dallo stesso male, e quindi non può aver prodotto niente di buono, neppure in ambiti che nulla hanno a che fare con la politica? Il cinema, per esempio: siamo sicuri che il cinema tedesco di quei dodici anni sia stato del tutto insignificante o, peggio, una semplice forma di propaganda del regime hitleriano: bellicista, imperialista e antisemita? Abbiamo trattato di alcuni film usciti in quel periodo, anzi proprio negli ultimi anni della guerra, e ci è parso che un simile giudizio sia a dir poco ingiusto e frettoloso (cfr. i nostri articoli: Munchhausen: il canto del cigno della nostra civiltà e Chi è padrone dell’immaginario è padrone del futuro, quest’ultimo dedicato al film Kolberg, del 1945, pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia rispettivamente il 18/05/18 e il 08/06/19).

Il punto è che la storia viene scritta sempre dai vincitori; e che ciò vale anche per la storia letteraria (e filosofica, artistica, cinematografica, ecc.). I critici e gli storici letterari dopo il 1945 non vollero avere alcuna comprensione per gli scrittori che erano rimasti in Germania dopo il ’33, come se espatriare fosse la sola cosa possibile da fare per chi non fosse nazista, e come se restare in patria dopo l’avvento di Hitler equivalesse ad una ammissione di piena corresponsabilità col regime, il che implicherebbe il corollario che uno scrittore con simpatie naziste non può che essere un mediocre scrittore. Si noti come Ladislao Mittner riconosca a denti stretti i meriti giornalistici di Göbbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich; e con quanta fatica gli esca di bocca il riconoscimento che le novelle africane di Grimm sono magistrali, dense e potenti. Se solo non fosse stato così sgradevolmente impregnato d’idee pangermaniste e colonialiste… Un’altra deduzione erronea e preconcetta degli storici politicamente corretti è che, in un regime totalitario, è impossibile che sopravvivano degli scrittori di merito, perché la mancanza di libertà fa morire la pianticella della poesia. Il che, però, è falso; e basti pensare a come, nel tetro clima dell’Unione Sovietica staliniana, siano sboccati capolavori assoluti come Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, Il dottor Živago di Boris Pasternak e Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženitsyn, per capire che un grande scrittore, sia pur fra mille difficoltà, non permette ad alcun regime politico di soffocare la sua arte, anche se questo ha il potere di eliminare le persone fisiche. Ma qui si va a sbattere contro un’altra ipocrisia: perché ciò che gli storici e i critici sono disposti ad ammettere, con qualche fatica, per l’ex Unione Sovietica, non sono assolutamente disposti a concederlo per la Germania nazista, a motivo del fatto che, secondo loro, il comunismo era, sì, un’ideologia velleitaria e traballante (anche se fino agli anni ’70 molti di loro erano pronti a scommettere che avrebbe vinto), ma in fin dei conti umana e simpatica, mentre il nazismo è stato semplicemente il Male Assoluto, l’orrore degli orrori. Giusto?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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