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Perché abbiamo disimparato a difenderci?

Cerciello Rega, il carabiniere ucciso con undici coltellate da un ragazzo americano in vena di sballo, che si era portato dagli Stati Uniti un coltello da guerra con la lama di diciotto centimetri, come ormai è di pubblico dominio non aveva con sé la pistola d’ordinanza. L’aveva lasciata in caserma, nel suo armadietto, chi lo sa il perché: e questo è un mistero che resterà tale fino a quando la gente non capirà in che situazioni versino i tutori dell’ordine. Un po’ meno misterioso è il fatto che il suo collega, che gli era accanto nel corso dell’operazione di fermo e di controllo dei due sospettati, la pistola ce l’aveva, ma non l’ha usata. Dicono i portavoce dell’Arma che la tragedia si è consumata talmente in fretta che Varriale, sotto shock per la fulminea brutalità dell’aggressione, non ha fatto in tempo a estrarla; e che poi, quando il collega si è accasciato a terra, ha dato la priorità al suo soccorso, anziché all’inseguimento dei due ragazzi american in fuga. Sarà. Tuttavia, per quanto fulminea sia stata la reazione dell’assassino, undici coltellate, non una o due, ma undici, alcune penetrate nel corpo fino all’impugnatura, non si danno in un lampo: ci vuole un certo tempo per farlo. E, shock a parte, è strano che il carabiniere armato non abbia fatto ricorso alla propria arma, neppure per sparare in aria a scopo dissuasivo. E infatti cominciano a filtrare, a mezza bocca, le prima verità: quelle che tutti preferiscono ignorare e che forse non emergeranno pienamente neppure in sede processuale. La prima verità è che i carabinieri, come tutti gli agenti dell’ordine in servizio, sono sconsigliati caldamente dall’usare la pistola, perfino in circostanze drammatiche, come quelle che hanno visto la tragica morte di Cerciello Rega. La seconda è che sono loro stessi a inibirsene l’uso, ben consci dei rischi che corrono se vi fanno ricorso; tanto che non pochi preferiscono non portarla addirittura, come forse ha fatto il povero carabiniere ucciso. Nel quale caso la sua non sarebbe stata una dimenticanza. E quando parliamo di conseguenze, non intendiamo quelle sul piano fisico, ma sul piano giudiziario. In altre parole: un carabiniere che spara, sia pure in servizio, sia pure nel corso di un’operazione rischiosa, sia pure in stato di necessità per la propria difesa, sa che se tira fuori la pistola e preme il grilletto, andrà comunque incontro a una montagna di guai. Sa che se il malvivente venisse colpito, se rimanesse ferito o magari ucciso, dovrebbe rispondere lui, il carabiniere, di reati gravissimi. Sa che verrebbe processato e lasciato solo dallo Stato: quello stesso Stato che lo manda allo sbaraglio contro una criminalità sempre più aggressiva e incattivita, poi lo abbandona nelle aule di giustizia. E il carabiniere dovrà difendersi da solo, pagarsi un avvocato, e affrontare la prospettiva di dover passare il resto della vita a risarcire i danni subiti dal delinquente, oppure a risarcire i suoi parenti.

Lo Stato non proteggere i suoi servitori; non offre loro protezione legale; non si costituisce parte civile (come non si costituisce parte civile la scuola, se un professore viene picchiato da un genitore; anzi, non sporge neanche denuncia): anche se quel servitore stava semplicemente facendo il suo dovere, stava lavorando e rischiando la pelle per assicurare a tutti un po’ di sicurezza sulle strade e nei quartieri. In queste condizioni, molti carabinieri, poliziotti, finanzieri, vigili urbani, preferiscono non estrarre la pistola, anche se ce l’hanno: sono più spaventati dalla prospettiva di un processo a loro carico che da quella di essere accoltellati a morte. E quando vanno in pattuglia, la sera, e girano per i quartieri malfamati, per prima cosa s’informano su chi sia il questore in servizio quel giorno: perché sanno già che se si tratta del questore tal dei tali, notoriamente garantista a senso unico, di sinistra e amico dei migranti, comprensivo verso gli spacciatori, devono stare bene attenti a quel che fanno. Ecco perché non di rado vedono cose che richiederebbero il loro intervento, ma girano la testa dall’altra parte. Hanno le mani legate: la loro non è paura, né menefreghismo, ma è coscienza della situazione impossibile in cui verrebbero a trovarsi se facessero quel che andrebbe fatto. Del resto, in quale altro Stato al mondo una signorina arrogante e viziata che, al comando di una nave, viola le acque territoriali, entra di prepotenza in un porto, disobbedendo alle ingiunzioni della capitaneria, sperona una unità della Guardia di Finanza e mette in pericolo la vita dell’equipaggio, viene rilasciata in ventiquattro ore da un magistrato che le attesta di aver agito bene, nell’interesse superiore della vita dei migranti? La signorina in questione era tedesca. Forse che in Germania la capitaneria di porto avrebbe subito tutto ciò, come è accaduto da noi? Forse che in Germania si sarebbe trovato un giudice disposto a rilasciare un comandante straniero, che avesse agito a quel modo, in ventiquattro ore, ripulito da ogni macchia, da ogni ombra, anzi aureolato di santità? E forse che i giornalisti tedeschi si sarebbero affrettati a schierarsi con chi viola la legge e a descrivere con toni enfatici e strappalacrime la "disperata" situazione dei migranti clandestini a bordo, laddove erano invece pienamente assistiti sotto tutti gli aspetti e non erano in pericolo di nulla?

Del resto, basta vedere il pandemonio che è scoppiato per la foto dell’americano legato alla sedia e imbavagliato. Basta vedere le strilla dei buonisti e dei garantisti, la visita in carcere del parlamentare democratico Scalfarotto, il quale ha voluto sincerarsi delle condizioni in cui è detenuto il poverino. È bastata quella foto per distogliere la commozione e l’interesse di molti dalla vittima al carnefice, il quale miracolosamente è divenuto una vittima, un perseguitato. Questo è il clima in cui lavorano le forze dell’ordine, in Italia. Un clima assurdo, creato dalla magistratura di sinistra e dai giornalisti, quasi tutti al servizio di testate di sinistra. Non sono messi in grado di fare il loro lavoro; sono costretti a rischiare la vita per nulla. Perché arrestare uno spacciatore nigeriano, trovarsi con le mani, le braccia, il volto lacerati dai morsi del delinquente e doversi far mediare all’ospedale, e poi ritrovarsi quello spacciatore a piede libero, per la strada, che ride loro in faccia, è pane quotidiano per i carabinieri e i poliziotti del nostro Paese. C’è sempre un giudice buonista e garantista che prende le parti del delinquente. Siamo arrivati all’assurdo che, nella sentenza di un giudice, uno spacciatore africano è stato rimesso in libertà, fra gli altri motivi, perché non aveva altra fonte di reddito per campare, che quella di spacciare droga. Un altro giudice ha condannato un capotreno che, rimediando qualche schiaffo da parte dell’energumeno di turno, aveva fatto scendere alla prima fermata un viaggiatore africano che viaggiava sprovvisto di biglietto e non voleva pagare la multa: abuso d’ufficio. E poi c’è l’opinione pubblica, imbeccata dai mass-media che fanno il tifo contro lo Stato e sono sempre pronti a schierarsi con i suoi nemici; opinione pubblica formata e modellata, sin dai banchi di scuola, da insegnanti come la professoressa che su Facebook ha così commentato l’assassinio di Cerciello Rega: Uno di meno, e con lo sguardo chiaramente poco intelligente; non ne sentiremo la mancanza.

Questa è la situazione: abbiamo una magistratura che parteggia per i delinquenti, meglio se stranieri, e che denigra, censura e condanna i funzionari dello Stato che tentano di applicare la legge e di far rispettare le regole nel caos imperante; una stampa e un insieme di televisioni nettamente schierati sul versante del buonismo, dell’accoglienza indiscriminata, del garantismo spinto fino all’assurdo, e sempre pronti a scagliarsi contro gli abusi e gli eccessi delle forze dell’ordine, salvo poi versare, pro forma, qualche avara lacrima di coccodrillo allorché ci si trova davanti al cadavere dell’ennesimo uomo in divisa; e una classe insegnante che, spesso, sobilla i giovani a vedere nei tutori dell’ordine non delle persone che rischiano la vita per la sicurezza di tutti, ma dei potenziali bruti, dei bulli, dei personaggi equivoci, dai quali è meglio stare lontani, perché i ragazzi amano la libertà, lo sballo, i rave party, e quelli son sempre lì a rompere le scatole, a limitare questa voglia di libertà, a tirar fuori le manette alla prima occasione. Il risultato di questo fuoco incrociato della magistratura, dei mass-media e della pubblica opinione è che i tutori dell’ordine sono terribilmente soli: sono soli e isolati ancor prima di cadere sul campo del dovere. Sono soli psicologicamente, moralmente, materialmente e giudiziariamente. I magistrati non li difendono volentieri, i giornalisti li spiano per poterli accusare di qualcosa, i professori li insultano, i giovani li aborriscono, e i politici… si affrettano a visitare in carcere quelli che li assassinano, per sincerarsi che godano di tutti i diritti e di tutti i comfort previsti dalla legge. La legge, sempre la legge: che però funziona all’incontrario. Tutela i peggiori e lascia indifesi i buoni. Ne sa qualcosa chi affitta un appartamento a uno straniero e poi non riceve il canone d’affitto per un mese, per sei mesi, per un anno: quale magistrato gli renderà ragione? Quando mai le forze dell’ordine eseguiranno una sentenza di sfratti? Ci sarà sempre un giudice buonista a versare calde lacrime per quei poveri immigrati, per quei bambini innocenti e quelle donne incinte: dove andranno, cosa faranno? No, non li si può sfrattare. E tanto peggio per il cittadino onesto che rispetta le legge, paga le tasse, comprese le tasse su quella casa in affitto, ma che non può né riscuotere quanto gli è dovuto, né rientrare in possesso del suo bene, magari acquistato con tanti sacrifici. L’Italia è diventata la Repubblica dei buonisti, fondata sull’illegalità. E chi cerca di far rispettare la legge viene troppo spesso percepito come un guastafeste, un insensibile, un fascista e un razzista. Così vuole la vulgata del politicamente corretto, e così è agli occhi di tanta gente.

Queste riflessioni ci portano tutte a formulare una sola domanda: quando e come è successo che abbiamo disimparato a difenderci? Quello di difendesi, di difendere la propria vita e quella delle persone care, di difendere i propri valori e i propri beni, il proprio modo di vivere, la propria identità e la propria civiltà, è un istinto primario. Negli animali, la difesa è alla base della sopravvivenza: l’alce aggredito da un branco di lupi lotta strenuamente per difendersi, specialmente se ha i piccoli con sé, ma anche se è da solo: quando smette di difendersi, quando si piega sulle ginocchia e si lascia azzannare e sbranare, è perché ha perso le forze e solo a quel punto si rassegna al suo destino. Una società sana possiede anch’essa un normale istinto di difesa; e poiché nella società le persone, di regola, non si difendono fisicamente da sole, ma pagano le tasse anche per essere difese, in una società sana quelli che devono difendere i cittadini sono tutelati, sostenuti, incoraggiati e guardati con stima e gratitudine. II carabinieri, i poliziotti, i finanzieri sono gli uomini in divisa che tutelano la nostra tranquillità e la nostra sicurezza: se abbiamo un problema, se siamo in difficoltà, ci rivolgiamo a loro. Anche l’intellettuale di sinistra, anche il prete di sinistra, quelli che parlano male delle forze dell’ordine dalla mattina alla sera e che ci spiegano che gli immigrarti sono buoni, sono ottime persone e che non c’è nulla da temere ad accoglierli, anche loro, se subiscono una rapina, un’estorsione, una minaccia, se si vedono svaligiare la casa, se la loro figlia o la loro sorella subisce uno stupro, corrono a chiedere aiuto alle forze dell’ordine. Però poi, di fatto, queste vengono lasciate sole, e devono guardarsi anche dal fuoco amico della magistratura. Tutto ciò indica una cosa sola: che la nostra società ha perso la voglia di difendersi. E come accade che una società perde la volontà di difendersi, cioè non aspetta altro che di essere finita? Non è una cosa normale, al contrario, è una cosa che va contro un istinto primario. Quindi, qualcosa o qualcuno ha fatto in modo di anestetizzare e di sopprimere questo istinto primario, riempiendoci la testa di idee sbagliate, di sentimenti sbagliati, di giudizi sbagliati. Chi può essere stato così perfido e così potente, da fare una cosa del genere: pervertire il normale istinto di sopravvivenza di un intero popolo, ridurlo al punto che non ha più voglia di difendersi, né di essere difeso, anzi fino al punto da fare il tifo per quelli che lo aggrediscono, che violano i confini, che calpestano le leggio, che fanno a pezzo la civile convivenza? La risposta non è poi così difficile come potrebbe sembrare. In una società moderna il potere di orientare l’opinione pubblica è sostanzialmente nella mani del cinema, della televisione e della stampa; in secondo luogo, della chiesa, della scuola e dell’università. Si tratta allora di vedere chi è proprietario dei mass-media e chi controlla la chiesa e la pubblica istruzione. In un modo o nell’altro, si arriva alla sola conclusione possibile: la grande finanza si è impossessata dei gangli vitali della nostra società, dei luoghi ove si forma l’immaginario collettivo, e sta agendo in maniera da narcotizzare il normale istinto di sopravvivenza del popolo italiano. In realtà, un processo analogo è in atto anche negli altri Paesi d’Europa (Russia esclusa); da noi, però, per un insieme di ragioni storiche antiche e recenti, il terreno è particolarmente adatto. In Italia il senso della legge, il senso dello Stato, la coscienza civile, erano già ai livelli minimi prima che avesse inizio l’invasione straniera, specialmente islamica. Soprattutto, erano già ai livelli massimi l’auto-disprezzo e l’auto-denigrazione. In Italia (ma non solo), da anni i cattivi maestri insegnano che la nostra civiltà è cattiva, che noi siamo brutti, che la famiglia è un luogo orribile, che l’idea di patria è fascismo, che la difesa della propria identità è razzismo. Inoltre, c’era già il vuoto spirituale: telefonini ed discoteche riempiono, si fa per dire, il vuoto esistenziale della gente, specie dei giovani. E dunque, ora almeno sappiamo chi è il nemico; e se per caso qualcuno ha ancora voglia di difendersi per sopravvivere, sa da che parte deve guardarsi.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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