Chissà cosa direbbe il nonno…
1 Agosto 2019I progressisti odiano la realtà in nome dell’ideologia
2 Agosto 2019Chi ha detto che l’Unione Sovietica si è sciolta e che ha cessato di esistere una trentina d’anni fa? Ciò non corrisponde al vero. Esiste ancora, invece, e in un Paese europeo che non ha mai conosciuto, ufficialmente, un vero governo comunista, ma la cui cultura è stata egemonizzata dal comunismo, visto che il partito cattolico di maggioranza relativa è stato così stupido, o così criminale, da lasciarla tutta quanta ai "colleghi" marxisti e filosovietici: e quel Paese è il nostro, è la nostra Italia. L’Italia, infatti, dalla fine della Seconda guerra mondiale (e della sua guerra civile, lo si tenga sempre a mente) al principio degli anni Novanta del XIX secolo, ha ospitato il più grosso partito marxista di tutto l’Occidente. Poi, con la fine della Guerra Fredda e con il crollo della Democrazia Cristiana, smantellata dai giudici di Mani Pulite insieme al di lei alleato-rivale, il PSI di Bettino Craxi, anche il PCI si è sciolto: era il 3 febbraio 1991, in ritardo di un anno e mezzo rispetto alla caduta del Muro di Berlino e perfino più tardi dell’annuncio dello scioglimento dell’URSS da part di Gorbaciov. Ma il PCI non è morto in quella data, ha semplicemente cambiato nome e cercato di cambiar pelle; è diventato il Partito Democratico della Sinistra, ha raccattato cospicui avanzi della scomparsa DC, ovviamente della sua componente di sinistra, e soprattutto ha cambiato ragione sociale, mantenendo però gli stessi uomini, la stessa prospettiva, la stessa analisi della società e dello Stato, e — a parole – gli stessi obiettivi che aveva prima. Ha cambiato la ragione sociale perché, in accordo con le dimaniche della globalizzazione, da partito dei lavoratori è diventato il partito della finanza e della borghesia capitalista: basta vedere chi sono i nuovi iscritti, come De Benedetti, e chi sono le ultime leve della leadership, come Calenda: tutta gente con patrimoni a parecchi zeri e sulle cui mani non è mai spuntato un callo, se non forse quand’erano ragazzi e facevamo i boy-scout. L’ex PCI è diventato, come aveva pronosticato il filosofo Norberto Bobbio, un partito radicale di massa, ha raccolto l’eredità del PR e ripreso le sue battaglie per i diritti civili: divorzio più rapido e più facile, aborto, eutanasia, unioni di fatto, matrimoni omosessuali, adozioni di bambini da parte delle coppie omofile, libertà di drogarsi a piacimento. E, inoltre, più Europa, più Stati Uniti d’America, più Israele, più memoria dell’Olocausto, più austerità, più massoneria, più statalismo, più clientelismo, più migranti, e più in fretta il diritto di voto agli stranieri, anzi magari cittadinanza automatica per chiunque nasca in Italia, da qualsiasi luogo dell’orbe terracqueo provengano i suoi genitori e per qualsiasi ragione essi abbiano deciso di darlo al mondo sotto il nostro cielo.
Però, nello stesso tempo, quello che era il PCI ha raccolto anche l’eredità della DC di sinistra, di Dossetti e Lazzati, di La Pira e don Milani, di padre Turoldo e di don Gallo; e dunque, teoricamente, una serie di valori che, con quelli radicali, ci stanno come i cavoli a merenda. Però anche per quest’arduo problema l’ex PCI ha trovato la soluzione giusta, mescolando, agitando e ridistribuendo gli ingredienti, col risultato di esser divenuto la bandiera sia dei diritti civili in chiave anticristiana, sia la punta avanzata dell’ideologia cattolica di sinistra, perfino più in là dei sogni di don Gallo e don Milani. Il diavolo e l’acqua santa felicemente mescolati e confluiti in una nuova realtà, dove c’è posto, come voleva Pier Paolo Pasolini, sia per Cristo che per Marx, ma anche, come vuole la signora Cirinnà, sempre meno posto per la famiglia formata da uomo e donna, considerata troppo conservatrice e potenzialmente fascista, e sempre più spazio per ogni altro tipo di architettura "familiare". Peccato che il Cristo dei Democratici non abbia niente che fare con il Cristo del cristianesimo, e che il Marx che ancora forma lo zoccolo duro della loro Weltaschauung non rifletta minimamente l’attuale ragione sociale, né quella radical-libertina ora salita in auge: bensì quella di Soros, Lehman Brothers e Rotschild, non certo quella dei metalmeccanici o dei pensionati con 300 euro al mese. E quando diciamo che l’ex PCI ha pesato sulla società italiana come il comunismo in Unione Sovietica, intendiamo fare, sì, una provocazione, ma anche dire, al nocciolo, una cosa reale: che nulla si poteva fare senza che lo Stato mettesse il suo placet su qualsiasi atto della vita sociale. Una strada in costruzione resta interrotta per degli anni e, alla fine, i cittadini, a spese loro e tassandosi da se stessi, si danno da fare per portarla a termine, guidati dal loro sindaco? Niente e da fare: lo Stato, quello stesso Stato che ha lasciato la strada interrotta per anni ed anni, interviene; e una sua emanazione-fantasma, la regione (Sicilia, in questo caso) resuscita dal limbo per ammonire e querelare quel sindaco: nessuno ha il diritto di terminare la strada, neppure (o magari proprio per quello) gratis et amore Dei. Altrimenti, gli imprenditori amici della mafia che ci stanno a fare? I grandi lavori pubblici, in Italia, sono la sinecura delle aziende che hanno gli amici degli amici nei gangli vitali dello Stato e delle amministrazioni locali: dall’Expo di Milano allo smaltimento dei rifiuti domestici: chi ha dei santi in paradiso può accaparrarsi quei lavori e spassarsela alla grande; poi, dopo aver prosciugato le casse della pubblica amministrazione facendo raddoppiare, triplicare o quadruplicare le spese preventivate, i lavori si possono anche lasciare interrotti a metà. Tanto – chi se ne frega? — dieci o cento milioni di euro in più o in meno, che differenza volete che faccia? Dopotutto, non siamo mica in Svizzera, qui, dove tutto è preciso come un orologio; qui lo Stato esiste non per servire i cittadini ma per farsi servire in cambio di voti e illeciti favori.
Oppure prendiamo il caso, apparentemente semplicissimo, di un cittadino che voglia cambiare il proprio medico della mutua, perché non è soddisfatto delle prestazioni che riceve e, viceversa, conosce un bravo medico che ha l’ambulatorio a breve distanza dalla sua residenza: credete che basti fare una normalissima domanda? Niente affatto; prima lo Stato, per mezzo dei suoi organi sanitari locali, deve controllare se si tratti di una richiesta legittima, e alla fine, se per caso il nuovo medico indicato ha l’ambulatorio fuori anche solo di dieci metri dai confini comunali, quella richiesta verrà quasi certamente respinta. Eh, che diamine: dove si andrà mai a finire, se si lascia passare il principio che chiunque è libero di curarsi da chi vuole e come vuole? Poniamo che voi non abbiate troppa fiducia nella medicina chimica e che vogliate curarvi dall’erborista, o dall’iridologo, o dal naturopata, insomma facendo ricorso a persone e strutture che sono al di fuori della medicina accademica, quella "ufficiale, adottata dallo Stato nelle forme più estreme (come la gragnola di vaccini obbligatori per i bambini che, altrimenti, non potranno iscriversi alla scuola elementare e media). Niente da fare, lo Stato non riconoscerà la vostra scelta e vi terrà legati alla sanità pubblica fino al (vostro) ultimo soffio di vita. Non sia mai che il medico della mutua si veda snobbato da un suo paziente, e che i medici del servizio sanitario nazionale, tutti di formazione strettamente accademica, si vedano soffiare i pazienti da pseudo medici che, dal loro punto di vista, sono solo impostori e ciarlatani; se passa un tale principio, dove mai andremo a finire? Quindi, se in Francia o in Svizzera voi potete curarvi con le medicine naturali acquistate in erboristeria, e poi scaricarle dalla dichiarazione del reddito, proprio come da noi si fa con i medicinali acquistati in farmacia, questo non è possibile in Italia, perché lo Stato (sovietico) ha deciso che esiste una sola maniera lecita e corretta di curare le malattie, altre non ce ne sono; e se proprio volte farvi del male, lo farete interamente a spese vostre. Commovente sollecitudine etica, non è vero? Ci consola il pensiero che qualcuno abbia così tanto a cuore la nostra salute e il nostro benessere, da far di tutto affinché noi, se malati, ci affidiamo alle mani più qualificate, e ci dissuada dal fidarci di praticoni e imbonitori da strapazzo. Alla faccia della laicità dello Stato, però. Lo Stato si ricorda di esser laico se un genitore, contro il sentimento di tutti gli altri, protesta per la presenza di un Crocifisso nell’aula scolastica dove studia il suo pargoletto; anzi, perfino la chiesa (laica) del signor Bergoglio non vuol neanche sentir dire che il cattolicesimo è la sola religione vera: sono buone tutte quante, invece, e Dio le ha volute perché gli uomini possano godere della più ampia offerta religiosa di mercato; però, se volete curarvi il raffreddore o le verruche con dei farmaci naturali, reperibili in erboristeria e non in farmacia (ogni gelosia di casta è fuori discussione, non bisogna mica pensar male perché si fa peccato!), allora lo Stato si dimentica di essere laico e pretende che voi restiate sui binari, o, per dirla più volgarmente, che non la facciate fuori dal vaso. E lo stesso Stato che, sotto la forma delle amministrazioni locali, permette che ogni anno le strade delle vostre città si intasino di montagne d’immondizie in decomposizione, puzzolenti e foriere di possibili epidemie, si preoccupa a tal punto della salute dei vostri bambini da decidere che voi dovete sottoporli a una raffica di vaccinazioni, non prive di effetti collaterali anche pericolosi, pena l’esclusione dal percorso scolastico. Ostacolo peraltro aggirabile dietro pagamento di un balzello, cioè, volevamo dire di una multa: a proposito di onesta e trasparente preoccupazione per la salute dei cittadini e tanto per fugare ogni sospetto d’interessi venali.
Oppure prendiamo un altro caso ancora: poniamo che un ragazzo brilli talmente negli studi, da meritare una raffica di "nove" o "dieci" in pagella. Ebbene: maestre e professori, molto spesso, invece d’incoraggiarlo a sviluppare al massimo le sue capacità, gli solleveranno difficoltà d’ogni tipo e finiranno per spegnere in lui ogni entusiasmo: il tutto in nome dell’egualitarismo, della lotta contro il merito e per un appiattimento orizzontale di tutti quanti, dall’asilo all’università e anche oltre. L’obiettivo è sempre lo stesso: coerente, rigido, implacabile: nessuno deve emergere, deve spiccare. Spiccare sul gregge è cosa inaccettabile, perché diametralmente opposta al sogno di tutti i comunisti e i catto-comunisti: veder realizzato il Regno dell’Eguaglianza qui, ora, sulla terra. Infatti, se un bambino si fa notare per esser molto bravo in italiano, o in matematica, o magari nella ginnastica, ciò metterebbe in crisi l’idea che siamo tutti uguali; ma quell’idea è giusta, perché deve essere giusta; quindi, quel ragazzo non può, non deve esser così bravo, non deve spiccare sugli altri. Spiccare è un concetto egoista, mette a disagio quelli meno bravi; e siccome i meno bravi, lo diceva sempre anche don Milani, sono i figli dei lavoratori, mentre i più bravi sono i figli dei medici, degli avvocati, ecc., bisogna eliminare lo sfruttamento di classe, così non ci saranno più né sfruttatori né sfruttati, infatti i più bravi non hanno alcun merito di essere bravi, e i non bravi non hanno la minima colpa o responsabilità per il fatto di essere cattivi studenti e d’imparare poco e male. In base a questa idea, i risultati scolastici dipendono al 100% dalle condizioni sociali del bambino: non esistono la pigrizia, la svogliatezza, il menefreghismo, meno che meno diversi gradi d’intelligenza: chi non ottiene buoni risultati, è perché vittima di una sistema scolastico classista, voluto dalla bieca borghesia sfruttatrice. Il concetto si è poi esteso a tutti gli altri bambini che non raggiungono risultati ottimali per le cause più diverse: i figli degli immigrati, gli handicappati, i figli dei rom. Rimedio escogitato dalla scuola sovietica italiana: mortificare i bravi, gli studiosi, i meritevoli, farli sentire in colpa perché "avvantaggiati" e "più fortunati" rispetto ai loro compagni, che non hanno altra colpa al mondo se non quella di essere nati in Paesi poveri, o di avere delle disabilità. Anche quest’ultima affermazione, peraltro, deve esser fatta con tutte le debite cautele: perché l’handicap, come la condizione della donna per le femministe, è da un lato motivo di tacito rimprovero verso gli altri (i sani, i maschi), per poter rivendicare diritti speciali; dall’altro qualcosa che viene negato in nome del fatto che "siamo tutti uguali". E questa idea, assurda e contraddittoria, viene ribadita continuamente nella testa dei bambini dalle zelanti maestre e dagli esperti chiamati a pontificare in merito. Si assiste così agli incontri dei bambini, a scuola, con un signore in carrozzella che chiede loro, enfaticamente: Chi vedete qui davanti a voi, una persona o un handicappato?, salvo poi snocciolare tutta una serie di diritti che spettano agli handicappati, come quello di avere le loro olimpiadi e di ricevere i premi dalle mani del Presidente della Repubblica, insieme e non separatamente agli atleti delle squadre, diciamo così, normali. Se poi si passa dalle scuole elementari alle medie e alle superiori, si capirà quale selezione all’incontrario venga portata avanti, scientemente e deliberatamente, da anni e da decenni, con la costante mortificazione dei bravi studenti e la costante giustificazione di quelli che non giungono neppur alle soglie della sufficienza. Risultato: diplomi senza valore e studenti universitari che si iscrivono alla facoltà, poniamo, di lettere, senza essere in grado, non diciamo di tradurre un brano di Cesare o Cicerone, ma neppure di scrivere un testo in italiano senza accumular meno d’una dozzina di errori di orografia, grammatica e sintassi. Tutto in nome dell’uguaglianza, cioè dell’ideale sovietico. Anzi, vogliamo proprio dirla tutta? Ormai non sono l’eccezione nemmeno i professori universitari che non sanno scrivere un testo alla lavagna, senza infilarci uno, due o tre errori, più o meno marchiani, di ortografia. Se a tutto ciò si aggiunge l’abnorme presenza dello Stato nell’economia e nei mezzi d’informazione, o l’invadenza con cui esso pretende di regolamentare anche il cibo dei bambini a scuola — ultima trovata: proibito portarsi il panino da casa — si avrà il quadro della perfetta e felice società sovietica.
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