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Dobbiamo imparare un po’ di durezza

Ogni volta che le cronache ci riferiscono di un delitto particolarmente esecrabile, di una violenza particolarmente odiosa, subito scatta una sorta di riflesso condizionato che spinge una quantità di persone, giornalisti, intellettuali, politici, sacerdoti, a puntualizzare: Vogliamo giustizia sì, ma senza perdere la nostra umanità! Ed è un ritornello ormai talmente familiare, talmente pervasivo, talmente scontato, che quasi non facciamo più caso che giustizia ce n’è sempre meno, giustizia nei confronti delle vittime innanzitutto, e poi giustizia in quanto tale, nei confronti di tutta la società, malfattori compresi (che è infliggere loro il dovuto castigo); in compenso, resta la seconda parte del ritornello, e s’incide profondamente nel nostro immaginario: Stiamo attenti a non perdere la nostra umanità! Stiamo attenti a non allontanarci dalla civiltà del diritto, dalla civiltà dell’amore! Come se "amore" e "diritto" non facessero rima con "giustizia" e come se applicare la giustizia implicasse una certa qual caduta della tensione etica, del rispetto del diritto e della capacità di amare ed, eventualmente, di perdonare. E non ci rendiamo conto che così facendo, ci stiamo progressivamente allontanando sia dalla giustizia, sia dal diritto, sia dall’amore stesso: se amore è capacità di coltivare il bene, e se il bene si misura dalla capacità di rendere a ciascuno ciò che è dovuto, nell’ordine delle proprie responsabilità e delle proprie competenze.

Qui siamo in presenza di una enorme confusione concettuale, che degenera in un vero e proprio relativismo etico. Se qualcuno s’immagina che l’amore possa prescindere dal bene, e se costui s’immagina che il bene possa prescindere dal giusto, sbaglia di grosso; e poiché in una simile confusione può incappare l’uomo della strada, ma non colui che dovrebbe semplicemente fare informazione, e a maggior ragione colui che si fregia del titolo d’intellettuale, allora bisogna dedurne che non si tratta di un errore, ma di una voluta e deliberata mistificazione, originata da intenti oscuri e inconfessabili. Ora, vediamo che in questa deliberata opera di mistificazione si segnalano proprio quelli dai quali più di ogni altro, in questo momento storico, ci aspetteremmo che conservassero onestà intellettuale, chiarezza e trasparenza d’intenzioni; gli ultimi che, in teoria, ancora s’interessano alle problematiche morali in maniera del tutto spassionata e senza secondi fini, siano essi di tipo elettorale, o mediatico, o economico: i sacerdoti. E invece, da alcuni anni a questa parte vediamo che sono proprio loro alla testa del movimento — poiché di un vero movimento si tratta, e animato da una ben precisa strategia — per abituare l’opinione pubblica e a rivedere, però in maniera inconsapevole e quasi spontanea, mentre spontanea non lo è affatto, bensì manipolata ad arte, il proprio codice di valori e il proprio metro di giudizio. Da alcuni anni essi predicano un "amore" staccato dalla giustizia, e una "giustizia" staccata dal bene; e promettono perfino, a nome di Dio stesso, un "perdono" che non abbisogna di pentimento, né di proponimento di cambiare vita, da parte del peccatore.

E sono stati così tenaci, così insinuanti, così abili, se vogliamo, da aver spinto le cose fino quasi al puto di non ritorno, cioè fino quasi al mutamento radicale e irreversibile del senso morale di milioni e milioni di persone. Grazie a loro, l’idea di chiedere a un robusto giovanotto africano, il quale pretende di essere "accolto" in Italia senza documenti, e magari con i polpastrelli delle dita abrasi per non farsi rilevare nemmeno le impronte digitali, per quale ragione chiede, o meglio pretende, di esser fatto sbarcare nei nostri porti, chi è, da dove viene, quali intenzioni ha, sarebbe un segno di tremenda insensibilità, una forma di sevizia psicologica. E poco importa che non si tratta di un giovanotto, ma di decine e centinaia di migliaia di giovanotti, e, in prospettiva, di milioni di baldi e robusti giovanotti, i quali tutto sembrano, tranne che denutriti; come sarebbe somma indelicatezza chiedergli come mai, per fuggire dalla miseria e dalla fame, sia riuscito a pagare ai trafficanti di uomini un pedaggio che va dai quattro ai seimila dollari. Così come sarebbe indelicatezza e peggio chiedergli perché mai, se il suo barcone era in procinto di affondare, non abbia fatto rotta verso il porto più vicino, che è in Tunisia, come farebbe in verità qualsiasi vero naufrago, o qualsiasi navigante che si veda a rischio di fare naufragio; e posto che in Tunisia non ci sono né guerre, né carestie, né polizie violente e sadiche nei confronti dei naufraghi soccorsi in mare di fronte alle sue coste (o addirittura partiti dalle sue coste). Tralasciando, infine, il dettaglio secondario che questo stabiliscono le leggi internazionali sui rifugiati in fuga dal proprio Paese: il diritto a essere accolti, se ne hanno diritto, nel Paese più vicino che sono in grado di raggiungere per mettersi in salvo, e non nel Paese più lontano, che però è maggiormente di loro gusto. Ché se, poi, uno di questi baldi giovanotti, accolti con tanta sollecitudine e con tanto spirito di accoglienza, se ne va in giro a rapinare, spacciare droga, stuprare donne o ammazzare il primo malcapitato che gli capita sotto mano (qualcuno si ricorda ancora la strage dei due anziani coniugi di Catania, massacrati da uno di questi giovanotti usciti dal C.A.R.A. di Mineo, nell’agosto de 2015? e qualcuno si ricorda ancora dei tre passanti milanesi ammazzarti a colpi di piccone dal ghanese Kabobo, nel 2014: triplice omicidio che gli è valso una condanna a soli vent’anni di carcere?), ebbene, si tratta di effetti collaterali, spiacevoli sì, ma non tali da incrinare minimamente la bontà dell’assunto: che bisogna essere accoglienti verso tutti, non fare domande indiscrete, non porre condizioni, ma accogliere, accogliere e ancora accogliere, come ci ripete tutti i santi giorni il signore biancovestito che si spaccia per papa ma che papa non è, né in via di diritto, né di fatto.

Ora siamo davanti al cadavere dell’ennesimo servitore dello Stato, il vicebrigadiere Mario Cerciello Rega, ammazzato con undici (undici) coltellate da un ragazzo americano venuto a Roma in cerca di droga e divertimento; e già ci sono molti che si preoccupano più della tutela dell’assassino che della giustizia dovuta alla vittima e alla società tutta. È circolata una foto che lo ritrae legato a una sedia e con gli occhi bendati, in una stanza della caserma, scattata non si sa da chi durante o prima del suo interrogatorio: un grosso regalo alla difesa, uno di quei regali che raramente si fanno gratis. Sia come sia, e al di là del fatto che ogni volta che in ballo c’è un sacrosanto principio di giustizia da far rispettare, saltano fuori strani e imprevisti favori ai delinquenti, ciò che conta è che subito le anime belle, i garantisti, i buonisti, i misericordiosi, indottrinati da anni e anni di cattiva teologia morale e di pessime abitudini civili, si sono messi a starnazzare all’unisono: Ma come, legato e bendato! È mai possibile? Siamo in un Paese civile o in una scalcinata dittatura sudamericana?, e intanto il povero carabiniere passa in seconda linea, non gli avevano ancora fatto il funerale e già un fiume fangoso di opinionisti da strapazzo strepitava perché all’americano fosse resa giustizia, e non vendetta. Forte di quella foto, il suo pio e timorato genitore, da San Francisco, si è affrettato a far sapere che suo figlio "è un bravo ragazzo": a dispetto del fatto che testimonianze firmate e incontestabili degli ex compagni di scuola del baldo giovanotto lo abbiamo descritto come un gran pezzo di delinquente, un bullo, un violento, un drogato e un prevaricatore arrogante, che si sentiva certo della propria impunità perché l’aveva fatta franca ogni volta. E mentre i buonisti sono scattati a difendere il diritto dell’assassino a ricevere un trattamento umano e inappuntabile, parecchi di codesti buonisti a senso unico (il sinistro) non avevano saputo trattenere un sorrisetto di compiacimento alla notizia che un altro carabiniere ci aveva lasciato la pelle; come quella professoressa (una professoressa in servizio in un istituto statale superiore!) che aveva creduto cosa buona e giusta mettere in rete un post, a caldo, con il seguente commento: Uno di meno, e chiaramente con uno sguardo poco intelligente; non ne sentiremo la mancanza. Oh sì che ne sentiremo la mancanza, invece: fra le altre cose, era un carabiniere estremamente umano e, nei momenti liberi, trovava pure il tempo e la voglia di andare a far volontariato a favore dei poveri. È dei chiacchieroni pretenziosi e resi cinici dalla loro disumana ideologia, che non si sente la mancanza, se per caso tacciono qualche volta.

Il problema dell’Italia è parte di un problema globale, l’incattivirsi della criminalità e la facilità con cui persone "normali" diventano criminali, unita alla difficoltà materiale di controllare centinaia di migliaia di clandestini che se ne vanno a spasso senza fissa dimora, sopravvivendo di reati grandi e piccoli; ma ci si aggiunge un altro problema, tutto o quasi tutto italiano: il buonismo, l’eccesso di garantismo, la tacita solidarietà coi delinquenti e la tacita (ma a volte anche esplicita) antipatia per chi si prodiga a difendere quel minimo di sicurezza collettiva che ancora ci resta. L’Italia è l’unico Paese al mondo dove si versano più lacrime per un delinquente maltrattato che per un poliziotto ucciso in servizio. È l’unico Paese al mondo dove gli intellettuali, i preti, i vescovi, i rappresentanti delle istituzioni civili, si sprecano in lunghissimi discorsi a favore della tutela dei diritti di chiunque, anche del peggiore assassino, ma dove ci si dimentica subito, dopo aver versato qualche lacrima di coccodrillo, di chi è morto per difendere anche la nostra tranquillità e la nostra sicurezza. L’unico Paese al mondo dove assassini o mandanti di omicidi politici diventano giornalisti, opinionisti, scrittori, rinomati e autorevoli intellettuali, pontificano sul giusto e sull’ingiusto, sulla pace e sulla guerra, e piazzano anche i loro figli nei posti importanti del giornalismo nostrano: a tener lezioni di civiltà e di umanità al popolo bue, dall’alto della loro encomiabile saggezza e della loro invidiabile esperienza di vita. E un altro problema ancora è che in Italia comandano le mamme, e le mamme italiane si commuovono più per i diritti negati dei delinquenti che per la sorte dei cittadini onesti trucidati, violentati, rapinati in casa propria o nel proprio esercizio commerciale, tutti i santi giorni. A causa di questo governo occulto delle mamme, sarà cosa estremamente difficile far passare quella riforma del codice morale, prima ancora che del codice penale, che le nuove situazioni determinate dalla globalizzazione rendono improcrastinabile. Detto in parole semplici: a fronte di una delinquenza più aggressiva, anche le forze dell’ordine devono essere più aggressive, la magistratura deve essere più severa nell’applicare le leggi, e il parlamento deve essere più rigoroso nel promulgarle. Non si affrontano gli spacciatori nigeriani a mani nude; non si ferma un sospettato lasciandosi cogliere di sorpresa (e ciò sia detto senza minimamente intaccare la professionalità del carabiniere ucciso). Ma in Italia è difficile, perché comandano le mamme. Negli altri Paesi, prima si mettono le manette al sospettato e poi gli si chiedono i documenti. Negli altri Paesi, una nave che viola gli ordini della capitaneria di porto ed entra abusivamente, speronando una unità della Guardia di Finanza e mettendo a rischio la vita degli agenti, sarebbe fermata a raffiche di mitra. E nessuno lo troverebbe scandaloso: altro che rilasciare in meno di ventiquattrore il comandante, riconoscendogli di aver agito nell’interesse superiore dell’umanità. Qualcuno si ricorda, per caso, come si comportò la polizia olandese a Rotterdam, nel luglio del 2000, nei confronti di una comitiva di 140 disabili italiani, venuti ad assister alla finale di calcio con la Francia? Questi italiani di merda e senza gambe possono anche tornarsene a casa!, esclamò educatamente uno stewart, mentre i poliziotti picchiavano i poveretti di santa ragione, rovesciandoli a terra dalle loro carrozzine e provocando ad alcuni di loro traumi e lussazioni, perché avevano osato protestare per un disservizio degli ascensori allo stadio; e già che c’erano, i poliziotti manganellarono anche i giornalisti della Rai, presenti al fatto. Ma l’Olanda è un paese civile; mentre l’Italia, se un assassino reo confesso viene bendato su una sedia, è un Paese incivile; e i primi a dirlo siamo noi, per la precisione sono le nostre mamme. Le mamme stanno sempre dalla parte del più debole. Forse qualcuno si è dimenticato di spiegare loro che il più debole è chi si è preso undici coltellate, nel giuro di pochi istanti, mentre stava facendo il suo dovere per assicurare la sicurezza di noi tutti.

Il nostro problema attuale, quindi, è imparare un po’ di durezza. Anni e decenni di buonismo ci hanno infiacchiti, ci hanno resi un po’ troppo morbidi. Abbiamo imparato a tollerare un po’ troppo, magari con danno dell’intera comunità. Abbiamo predicato agli alunni di una classe scolastica di aver pazienza col compagno violento e caratteriale, che picchia e terrorizza tutti quanti, perché così vuole l’inclusione. Abbiamo insegnato alla gente a pazientare se per strada, nei parcheggi, nei locali pubblici, gli stranieri diventano arroganti, minacciano e tirano fuori il coltello: poverini, chissà quanto hanno sofferto nei loro Paesi, bisogna capirli. E ci siamo abituati a non prendercela troppo se in molti Paesi islamici i cristiani sono perseguitati a morte, e se ogni tanto anche qui da noi sgozzano qualche prete durante la santa Messa, mentre in Italia e in Europa gli islamici avanzano solo diritti, prima di tutto a costruire le loro moschee, nelle quali non si capisce bene se vadano a pregare o a farsi indottrinare come futuri terroristi. Una società sana deve sapersi difendere; deve riconoscere alle forze dell’ordine il diritto di usare la maniera forte, se necessario; e deve sostenere il parlamento nel varare leggi severe, qualora le circostanze lo richiedano. Anzi, deve pretendere ciò dai suoi parlamentari; se non lo fanno, deve mandarli a casa, perché hanno usato male della fiducia ricevuta dagli elettori. Una società che non vuol difendersi sarà preda del primo venuto: è evidente.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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