L’uomo è schiavo; ma di che cosa?
25 Luglio 2019La tempesta sedata
27 Luglio 2019Ci siamo già chiesti altra volta se il cristianesimo in quanto tale, e la Chiesa cattolica come sua espressione compiuta e perenne, possa o debba adattarsi a fare propria la prospettiva politica della democrazia, coi sui valori e i suoi ideali, ma anche con le sue aberrazioni e col suo peccato d’origine: esser figlia della Rivoluzione francese, del pensiero di Voltaire e Rousseau, del disegno di scristianizzare la Francia, che ha fatto parlare alcuni storici di una rivoluzione essenzialmente religiosa, o antireligiosa, proprio come quella del protestantesimo di quasi tre secoli prima, ma assai più virulenta e radicale; come, del resto, lo sarebbe divenuto anche il protestantesimo, se la rivolta dei contadini tedeschi e soprattutto movimento pauperisti e livellatori, come quello degli anabattisti, avessero avuto successo (cfr. spec. gli articoli: Ma cristianesimo deve fare rima per forza con democrazia?, e Ma è compito della Chiesa cattolica fare il tifo per la democrazia?, pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia rispettivamente il 16/12/17 e il 27/01/18). Avevamo risposto di no, che né Il cristianesimo né la Chiesa cattolica devono immedesimarsi a tal punto nella cultura moderna, né far proprie a tal punto le ideologie politiche moderne, da considerare la democrazia attuale come la sola possibile forma di governo e pertanto, di riflesso, da dover intraprendere una serie di riforme interne che democratizzino le strutture ecclesiali, partendo dalla Curia romana fino all’ultima parrocchia smarrita in partibus infidelium.
In questa sede, ciò che vogliamo capire è come sia nata l’idea che cristianesimo e democrazia debbano per forza marciare affiancati; come sia nata, cioè, nella mente dei cattolici, dato che nella mente dei democratici non c’è mai stata, essendo il cristianesimo, nell’ottica democratica, un residuo destinato a sparire con l’avanzare del progresso e di tutte le idee e le forme pratiche della vita moderna. Per rispondere a questa domanda, bisogna tornare ai decenni che vanno dalle rivoluzioni del 1848, ove per un momento — ma fu solo una fiammata — sembrò che dovesse emergere prepotentemente alla ribalta un cristianesimo democratico, agli inizi del 1900, quando la Francia ripeté, con le leggi antiecclesiastiche che sopprimevano o espellevano gran parte degli ordini religiosi, il Kulturkampf bismarckiano, anche se l’uno e l’altro tentativo di spazzar via la presenza organizzata dei cattolici dalla società si sarebbero rivelati fallimentari; ed emise i primi vagiti il movimento denominato democrazia cristiana, che, seppur combattuto e represso da san Pio X, costituì la base sperimentale da cui sarebbero più tardi germogliate importanti forme di organizzazione sociale e politica dei cattolici. Semplificando al massimo, per amor di chiarezza, i termini della questione, possiamo porre così il dilemma dei cattolici "sociali": come evitare che, dopo aver perso le classi dirigenti, conquistate dal liberalismo, e la classe operaia, conquistata dal socialismo, ora la democrazia, o il socialismo stesso, si portassero via anche il resto del popolo, il mondo contadino e quello della piccola borghesia urbana, degli artigiani, dei commercianti, degli impiegati? E, d’altra parte, come giocare d’anticipo la carta della democrazia, ovviamente in termini cristiani, per bloccare l’avanzata del socialismo e del liberalismo, pur sapendo che la democrazia stessa era nata dalla Rivoluzione francese, e dunque era viziata da una radice atea e anticristiana che rendeva difficilissimo, se non impossibile, trasformarla in uno strumento di difesa e di affermazione dei valori cattolici in seno alla società? In altre parole: come si poteva combattere l’ateismo, servendosi di uno strumento che era stato forgiato allo scopo di distruggere ciò che di cristiano rimaneva nella società moderna, non certo per reintegrarlo e svilupparlo? Né si trattava di una questione meramente teorica e filosofica. La Repubblica francese del 1792, poi quella del 1870, modello e punto di riferimento per tutte le altre repubbliche europee (a parte gli Stati Uniti, nati ancor prima di essa), era sostanzialmente una creazione della massoneria e aveva la lotta contro il cristianesimo nel suo DNA, anche se ammantato da belle espressioni come libertà religiosa e laicità dello Stato. Ora, come potevano i cattolici collaborare lealmente con tali governi repubblicani; come potevano prenderli a modello della nuova realtà politica; come potevano perdonare ad essi la tenace volontà di sopraffazione, come si vide con le leggi anticattoliche francesi del 1905 (pudicamente denominate leggi di separazione dello Stato e della Chiesa) e con le espulsioni di centinaia di religiosi, al termine di un calvario che li aveva posti giuridicamente nella condizione di stranieri in patria?
Nella sua biografia di padre Dehon, Yves Ledure così rievoca il clima e gli interrogativi che si ponevano alla Chiesa verso gli ultimi anni del XIX secolo (da: Y: Ledure, Un prete con la penna in mano; Leone Dehon; titolo originale: Le Père Léon Dehon, 1843-1925. Entre mystiuque et catholicisme social, Paris, Èditions du Cerf, 2005; traduzione dal francese di Angelo Pedrazzi, Bologna, Centro Editoriale Dehoniano, 2005, pp. 174-176):
Dopo l’enciclica del 1891 e sotto l’influsso dei molteplici circoli di studio delle questioni sociali, ricompare la preoccupazione di situare la Chiesa nella società democratica e repubblicana, perché possa diventare un fermento di giustizia sociale. Per distinguerla dal movimento del 1848, questa nuova iniziativa si chiamerà "la seconda democrazia cristiana". Padre Dehon ne sarà uno dei grandi propagandisti, con la conseguenza che anch’egli sarà chiamato "prete democratico", assieme a Six, Lemire, Gayraud, Garnier e alcuni altri.
Padre Dehon aveva iniziato il suo impegno sociale a San Quintino, iscrivendosi all’Opera dei circoli cattolici di operai. Quel movimento sociale si fondava su una concezione gerarchizzata della società, che sottintendeva la monarchia come modello politico. Esso richiamava élite e dirigenti all’impegno e alla responsabilità per riformare la società e restituirle quelle assemblee e quei principi che aveva prima della rivoluzione del 1789. Il movimento, fondato nel 1871 da René de la Tour du Pin e da Albert Mun, si basava sulla volontà di rompere con la società post-rivoluzionaria. Padre Dehon, pur apprezzando lo zelo e l’impegno di questi cristiani, intuisce subito i risvolti politici del movimento che, ai suoi occhi, ne limitano la portata e l’efficacia. "L’opera ha fatto un bene immenso — scrive. — Ha contribuito fortemente al risveglio della vita cristiana. Se nel 1875 avesse potuto evolversi e accettare la Repubblica, ci avrebbe dato una repubblica cristiana, ma non l’ha potuto, perché aveva reclutato il suo personale dirigente fra i più fedeli sostenitori della monarchia"! (NHV, X, 129).
Del resto, La Tour du Pin, dopo le conferenze romane di Dehon, ardente patrocinatore della democrazia cristiana, gli scrive per manifestargli il suo totale rifiuto a riconoscere la sovranità del popolo, cosa che conferma il giudizio di Dehon. L’Opera dei circoli nonostante la sua incontestabile azione sociale, non ha potuto impedire che la frattura tra il cattolicesimo e la società del XIX secolo e il popolo si aggravasse. Padre Dehon pensa persino che il fatto che una certa élite di cattolici non possa e non voglia accettare le strutture politiche, ovvero repubblicane, del paese, sia una delle ragioni che spinge il popolo nelle braccia del socialismo. Per porre un argine a questa deriva, bisogna quindi ritornare al popolo, riconoscendogli i poteri che gli sono stati attribuiti dalla rivoluzione francese, come preconizzava già nel 1848 la rivista "Ere Nouvelle".Per lui, la seconda democrazia cristiana è lo strumento di questo capovolgimento. Certo, l’evoluzione di Dehon in questo campo sarà lenta e soprattutto selettiva: infatti, se l’accettazione della repubblica in quanto forma di governo non gli pone nessun problema, le cose sono completamente diverse in una certa pratica della libertà che, accordandosi con il liberalismo e il rinascimento, secolarizza la società.
Secondo Dehon, la democrazia cristiana è la leva che consente di andare oltre quel liberalismo nel quale egli vede il "male della società civile" per eccellenza. Ai suoi occhi, il liberalismo perturba le relazioni sociali, escludendo la religione dalla sfera politica La soluzione auspicata da Dehon consiste nel riagganciare direttamente il popolo, esattamente ciò che intende fare la democrazia cristiana. La Chiesa non deve restare sulle sue, non deve più ritenersi come una società strutturata "su" e "per" se stessa, ma deve accettare di essere una componente di questa società democratica."Se non vogliamo essere trattati da paria, è ora di accettare tutto ciò che la società contemporanea ha di accettabile", spiega al suo amici Harmel in una lettera del 28 dicembre 1902. Ecco il senso di "!andare al popolo" che Dehon auspica ancora prima che il congresso di Bpurges ne faccia la sua parola d’ordine. E per convincere i cattolici a compiere questo passo, ad accettare la repubblica e la democrazia, egli osa riprendere come titolo di un articolo per "La Chronique du Sud-Est" (luglio 1900) – proprio per evidenziare la strategia della rottura — la famosa formula attribuita al papa Anastasio II, già ripresa da Ozanam nel 1848, "Passiamo ai Barbari".
Per padre Dehon, spirito ascetico, ma anche dotato di una forte sensibilità sociale (come Frédéric Ozanam e come san Giovanni Bosco) la democrazia cristiana doveva apparire come la quadratura del cerchio e, del resto, come la sola diga che si potesse costruire contro la marea del socialismo, il solo ponte che restasse percorribile in direzione del popolo, col quale la Chiesa aveva visto interrompersi i suoi legami secolari. E tuttavia, l’idea cardine della democrazia, ossia la sovranità popolare, era ed è realmente conciliabile con la visione cattolica della vita e della società, che è, necessariamente, una visione gerarchica? Infatti, tutta la dottrina e tutta la morale cattolica non si basano su qualcosa che è stabilito, o accettato, a maggioranza, secondo ciò che sembra giusto agli uomini, ma su una Legge suprema che scende direttamente da Dio e che gli uomini devono osservare quand’anche risultasse per loro estremamente scomoda. Il Vangelo, checché ne pensino i progressisti di allora e di oggi (e padre Dehon era un progressista, e come tale guardato da moltissimi cattolici, e tenuto d’occhio da vescovi e teologi), non è democratico. Ciò è talmente evidente che non vi sarebbe bisogno di spiegarlo: basti dire che Gesù non cercava l’approvazione degli uomini, non si metteva su un piede di parità con essi, non dialogava con la folla ma la istruiva, non si rimetteva alle decisioni della maggioranza, non era neppure sfiorato dall’idea della libertà religiosa, intesa come libertà di rifiutare scientemente il Vero: in altre parole, e sappiamo di dire qualcosa di scandaloso nel clima odierno, non era democratico. In fondo, oltre alla sovranità popolare, l’anima della democrazia è la tolleranza: e il Vangelo, giova ricordarlo, non è tollerante. Non lo è, perché non ammettere il principio che l’errore e il peccato possano essere tollerati: in quanto offesa fatta a Dio, sono sempre condannabili e mai potranno essere considerati una forma legittima di comportamento. Inoltre, per fornire un’immagine del mondo pacificato nel Padre, Gesù parla sempre del Regno di Dio, non certo della Repubblica di Dio. E c’è una ragione per questo; come esiste una gerarchia che va dalla terra al Cielo, così la Chiesa da Lui fondata sui ispira a quella gerarchia, e fa di san Pietro il suo successore e degli apostoli i suoi sacerdoti. E a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; e a chi non li rimetterete, non saranno rimessi (Gv, 20,23): dunque gli apostoli sono stato dotati di ampi poteri e non invitati a mettersi su un piano di parità con i convertiti. Tutti i Padri della Chiesa e i grandi teologi sono d’accordo su questo: la condizione sacerdotale è superiore a quella matrimoniale; il clero è superiore ai laici, perché solo il clero ha la facoltà di celebrare il Sacrificio eucaristico.
C’è poi un altro pericolo nel fatto di voler agganciare il popolo a ogni costo, ponendo il messaggio cristiano sul terreno sociale: quello della perdita progressiva della spiritualità e della trasformazione del prete in un agente sociale o in un attivista ecologista, ambientalista ecc. Tale pericolo è insito fin dall’inizio nell’opzione del cristianesimo democratico: prendete padre Dehon senza il suo tratto mistico e avrete il tipico prete bergogliano dei nostri giorni, immigrazionista, gay-friendly e che quasi si vergogna a parlare di Dio e dell’anima. Anche da questo lato, perciò, giungiamo alla logica conclusione che concentrare i propri sforzi su una certa cosa porta alla prevalenza di essa: per la Chiesa, investire gran parte del proprio messaggio sul terreno sociale equivale a farsi prendere la mano dalle questioni materiali, allontanandosi inevitabilmente dalla dimensione spirituale e cioè dal cuore del Vangelo (cfr. il nostro articolo: A proposito della dottrina sociale della Chiesa e del rapporto dei cristiani con la società, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 23/03/18). Arrivati a questo punto ci si può chiedere quale sia la nostra proposta, se un totale disinteresse della Chiesa verso le questioni sociali o un ritorno puro e semplice al corporativismo di stampo medievale quale rimedio ai mali del capitalismo e del comunismo. Rispondiamo, ma torneremo sulla importante questione, che Gesù non è venuto in terra a insegnare una dottrina sociale, ma religiosa e morale. Se si perde di vista ciò, anche con le migliori intenzioni e solo per un attimo, si smarrisce il Vangelo…
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI