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La storia si ripete: è l’8 settembre che non passa

Il 9 settembre 1943 cadeva presso Macomer, in Sardegna, sotto una raffica di fucile mitragliatore, il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna, veterano della Seconda guerra mondiale, eroe di El Alamein, dove aveva comandato il 187° battaglione paracadutisti della Folgore: quattro medaglie di bronzo, più una medaglia d’oro alla memoria. Il dramma è che quella raffica fu sparata da un soldato italiano: ed è per questo motivo che gli storici politicamente coretti non amano molto soffermarsi su quell’episodio, uno dei tanti verificatisi all’indomani della proclamazione, via radio, dell’armistizio di Cassibile fra l’Italia e quelli che fino a ieri erano stati i suoi nemici mortali, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti (e Bechi Luserna, che era anche uno scrittore, aveva pubblicato nel 1941 un libro molto lucido, La falsa democrazia della Gran Bretagna). A spegnere la sua vita, al culmine di un violento alterco, era stato un paracadutista del XII battaglione della divisione Nembo, presso il quale si era recato per convincere i soldati ad obbedire all’ordine del Comando dell’isola di ottemperare all’armistizio Badoglio, annunciato il giorno prima. Quel battaglione era comandato da un friulano tutto d’un pezzo, il maggiore (poi colonnello) Mario Rizzatti, il quale, come del resto anche i suoi uomini, non poteva capacitarsi che i camerati del giorno prima, i tedeschi, fossero diventati i prossimi nemici, e i nemici del giorno prima, che bombardavano spietatamente le città italiane e che avevano iniziato l’invasione del suolo patrio, fossero diventati i prossimi alleati, ai quali bisognava, intanto, arrendersi a discrezione, armi e bagagli, flotta compresa. Quegli uomini non si sentivamo battuti e soprattutto non avevano alcuna intenzione di cedere le armi; nonostante l’enorme disparità di mezzi, avevano incominciato quella guerra e l’avevano combattuto sul serio, a differenza dei pezzi grossi del Comando supremo e dei politici romani; ed erano profondamente persuasi, sulla base incrollabile dell’onore militare, che a metà di una guerra di quelle proporzioni non si può cambiare sia il nemico, sia l’alleato, così, da un giorno all’altro, come ci si toglie una camicia per indossarne un’altra. Erano dei valorosi, rimasti improvvisamente abbandonati a se stessi: il re e il generale Badoglio, con la loro fuga vergognosa da Roma, all’alba del 9 settembre, senza lasciare ordini o disposizioni per i reparti dislocati in Patria e all’esterno, avevano mostrato di non meritare la fedeltà di soldati come quelli. Di Mario Rizzatti abbiamo già parlato un’altra volta (cfr. l’articolo: Uno, almeno, c’era: ricordo di Mario Rizzatti, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 09/12/17): era un valoroso e cadde da prode, combattendo strenuamente, quasi a mani nude contro i carri armati, per contrastare l’avanzata angloamericana su Roma, il 4 giugno 1944: fu l’ultimo caduto italiano prima che la capitale venisse gloriosamente "liberata" dagli Alleati. Ma anche Bechi di Luserna era un valoroso: aveva partecipato a tutte le campagne militari, dalla riconquista della Libia all’Etiopia, alle sabbie infuocate di El Alamein. Ed erano sia l’uno che l’altro dei grandi patrioti, con un altissimo senso del dovere e un ammirevole spirito di sacrifico. Entrambi lo dimostrarono sul campo: Rizzatti affrontando con mitra e bombe a mano i giganteschi Sherman, Bechi di Luserna presentandosi solo, con due carabinieri di scorta, per indurre all’obbedienza i paracadutisti della Nembo, quando avrebbe potuto fare come tanti altri, a cominciare dai suoi superiori: lasciare che alla patata bollente ci pensasse qualcun altro. Ma loro, no; loro non erano ufficiali da tavolino e tanto meno da scaricabarile: erano uomini che si prendevano sino in fondo le proprie responsabilità e che erano animati da un immenso amor di Patria. Anche Rizzatti ebbe la medaglia d’oro alla memoria, ovviamente dalla Repubblica Sociale Italiana, e i suoi resti, dopo varie traversie, trovarono pace nel cimitero del Verano. Il corpo di Bechi di Luserna invece non ebbe sepoltura: i frati di un vicino convento rifiutarono di ricevere la salma e perciò essa venne gettata in mare nelle Bocche di Bonifacio, presso Santa Teresa di Gallura, ove più tardi venne eretto un monumento. Erano entrambi uomini di cui l’Italia può andar fiera: solo la totale assenza di classe dirigente fece sì che si trovassero su fronti opposti.

L’Italia democratica e repubblicana, questo è un dato di fatto sul quale si è bellamente sorvolato per settant’anni, è nata dalla tragedia di una guerra civile: una guerra civile nella quale si batterono, su fronti opposti, uomini come Mario Rizzatti e Alberto Bechi Luserna. Non tutti, purtroppo, erano nobili idealisti come loro; ci furono anche i violenti, i criminali, gli opportunisti, da entrambe le parti. Però, a guerra finita, si è voluto caricare l’intero fardello del male sulla parte sconfitta, e attribuire a quella vittoriosa (vittoriosa non per merito proprio, ma perché giunta al seguito dei veri vincitori, gli angloamericani) tutte le virtù possibili e immaginabili. Generazioni di studenti sono cresciute leggendo a scuola, oltre al Diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Primo Levi, le Lettere di condannati a morte della Resistenza; nessuno o quasi nessuno ha avuto l’occasione di leggere le lettere dei caduti della Repubblica Sociale. Così, agli italiani è stata sottratta la memoria e ed è stata rifilata loro una versione di comodo: silenzio di tomba sulle foibe, sui delitti del 25 aprile 1945, sulla criminale insensatezza di certi attentati partigiani forieri d’inevitabili rappresaglie; massima pubblicità ai crimini di uomini dello schieramento fascista, come i torturatori della banda Koch, quasi che i combattenti di Salò fossero stati tutti di quel livello. Ai giovani nati dopo il 1945 è stato fatto credere che il fascismo sia stato una meteora, una invasione degli Hiksos, come diceva Benedetto Croce; che il popolo italiano l’avesse subito mai rassegnato, mordendo il freno, e che dopo il 25 luglio 1943 fosse insorto come un sol uomo per riconquistare libertà e dignità; che nel 1944-45 non ci fu una guerra civile, ma una lotta di liberazione, una pagina gloriosa e anzi forse la più gloriosa di tutta la nostra storia nazionale.

L’ignoranza del passato è alla radice della inconsapevolezza del presente. Le storie si ripetono, con tremenda monotonia. Anche oggi ci sono italiani che interpretano in maniera opposta le leggi e il perseguimento del bene comune. Ci sono italiani che ritengono sacri i confini della Patria e prioritaria la sua sovranità; e ce ne sono che antepongono a tutto un generico filantropismo, in base al quale la difesa dei confini diventa una specie di crimine contro l’umanità, e l’ingresso in Italia per qualsiasi massa d’immigrati un diritto evidente, sia secondo la morale laica che secondo quella cristiana (dei preti di sinistra, beninteso). Pertanto, un ministro dell’Interno che ordina la chiusura dei porti agli sbarchi di navi non autorizzate può essere messo sotto inchiesta per sequestro di persona, mentre una ragazza straniera che disobbedisce agli ordini della Guardia di Finanza, che viola le acque territoriali e sperona, addirittura, una unità guardacoste, può venir rimessa in libertà da un magistrato italiano con la motivazione che ha agito nel superiore interesse delle vite da salvare (benché non ci fosse alcuna vita in pericolo). In altre parole: come l’8 settembre del 1943, non si capisce più cosa si debba fare, quale sia la condotta da tenere; le forze dell’ordine sono abbandonate a se stesse; la magistratura fa quel che vuole; l’opinione pubblica è suggestionata dal monopolio dei mass-media da parte della sinistra. Si presenta Salvini come un mostro e si stende una cortina di silenzio davanti ai veri mostri, quelli dei servizi sociali della Val d’Enza, che rapivano legalmente i bambini ai loro genitori naturali, con dei vili pretesti, e li affidavano, a pagamento, a delle famiglie amiche o a delle associazioni con le quali erano cointeressati, o magari a se stessi, o a coppie omosessuali bramose di mostrare la superiorità delle famiglie arcobaleno rispetto alla famiglia tradizionale, che, come dice la signora Cirinnà, è una cosa brutta e fascista. E se un delinquente nigeriano, fermato dalle forze dell’ordine, prende a calci e morsi i carabinieri o gli agente di polizia, strappa loro la pelle del petto, spezza le dita, sempre a morsi, la cosa non è poi tanto grave, visto che i provvedimenti della magistratura risultano sempre incomprensibilmente blandi, qualche volta addirittura nulli, cioè con la scarcerazione immediata, o vista la facilità con cui un soggetto di quel genere riesce a evadere dal carcere. Le cronache sono ormai piene di simili fatti quotidiani, non passa giorno senza che se ne verifichi uno; eppure l’intellighenzia, tutta o quasi tutta di sinistra, chiesa compresa, continua a dire e ripetere che abbiamo il dovere dell’accoglienza, che bisogna lasciar venire tutti i poveretti che fuggono da guerre e carestie (più o meno immaginarie) e che se qualcuno non è d’accordo, non può trattarsi che di un fascista, un razzista o comunque di una brutta persona, egoista e senza cuore. Così, il terreno dello scontro si sposta ancora una volta fra italiani, diventa un focolaio di guerra civile. E le massime autorità, ancora una volta, sono come quelle del 9 settembre 1943: latitanti e dedite allo scaricabarile.

In un certo senso, oggi la situazione è ancor peggiore che nel 1943. A parte il generale scadimento dei valori morali, del senso della famiglia e dell’amor di Patria, per non parlare della fede religiosa; a parte tutto ciò, oggi il partito anti Italia è arrivato saldamente al potere, controlla tutti i giornali, le televisioni e gran parte del Parlamento, della magistratura e delle pubbliche amministrazioni; prende ordini dai finanzieri di Bruxelles e dal governo di Washington, e intanto s’inventa oscure manovre di Mosca per mettere in difficoltà il primo e unico governo italiano, democraticamente eletto, che dal 1945 in poi abbia mai cercato di far qualcosa nell’interesse del nostro Paese, e non di qualcun altro. Uomini politici e giornali attizzano campagne d’odio contro chi vorrebbe difendere l’Italia e i suoi interessi vitali: la sua sovranità, la sua moneta (ormai perduta), i suoi confini, le sue forze dell’ordine, le sue famiglie. Costoro si riempiono la bocca di belle frasi sull’umanità, sulla solidarietà, sull’accoglienza e sulla lotta contro la discriminazione di genere, l’omofobia e il razzismo, e intanto predicano l’intolleranza più spinta, sino al limite della violenza fisica, nei confronti di chi non la pensa come loro e ha avuto il torto di eleggere, in maniera perfettamente democratica, un governo che a loro non va a genio, specie per quel che riguarda la sua componente leghista.

Dio non voglia che si debba ripetere la tragedia dell’8 settembre. Da una parte c’è il Paese reale, la gente che lavora, che fa il suo dovere, che rispetta le leggi, che ha il senso morale, che mette su famiglia (quella vera), alleva i figli tra mille sacrifici, insegna loro come comportarsi nella vita, li sostiene fino al conseguimento del diploma o della laurea; ci sono gli uomini e le donne in divisa, che fanno il loro dovere, che rischiano la pelle ogni giorno, e che spesso si vedono beffati dalle decisioni del solito magistrato di sinistra, sempre incline a rimettere in libertà il delinquente, specialmente se straniero, perché essere nullafacenti e senza documenti, a quanto pare, è un’attenuante allorché si spaccia droga, si ruba o si commettono altri reati, in quanto il "vero" responsabile non è il delinquente, ma è la società egoista e cattiva, che produce ingiustizie e sfruttamento, e per le cui colpe dobbiamo pagare noi tutti. Dall’altra parte c’è il Paese legale: il Presidente, gli uomini d’apparato, i grandi manager pubblici, gli intellettuali mainstream, i professori universitari, i proprietari dei giornali e delle televisioni, i cardinali e i vescovi della contro-chiesa bergogliana, i massoni e i sostenitori del Paino Kalergi, quelli che vogliono più Europa e più amicizia con Israele, quelli che prendono soldi da Soros e predicano, ben stipendiati, l’accoglienza dei poveri profughi. Sono questo secondi ad aver voce in tutte le circostanze, sono i loro discorsi e i loro slogan che vengono ripetuti incessantemente dai media, che s’impongono sulla massa recalcitrante del popolo italiano. Spalleggiati dall’Unione Europea, piazzano un loro uomo, grigio e insignificante, alla presidenza del Parlamento di Bruxelles, lasciando a bocca asciutta i parlamentari italiani che hanno vinto clamorosamente le elezioni europee, quelli che sostengono l’attuale governo. E intanto i professori, nelle scuole, fiancheggiano l’opera sistematica di delegittimazione di quest’ultimo, sempre in nome dei principi "superiori" dell’umanità e della fratellanza, e sempre con la benedizione del solito prete di sinistra che ormai ha trasformato l’ambone, in chiesa, nella tribuna da cui attaccare, ad ogni santa Messa, il governo populista e sovranista, imponendo ai suoi fedeli il modello unico voluto da Bergoglio: quello del "cattolico" che non crede più nell’unicità della Verità, che mette ogni religione sullo stesso piano, che si vergogna delle proprie certezze ultraterrene e che si occupa a tempo pieno non delle anime e della vita eterna, ma dei migranti, del clima e dell’ambiente. Dio non voglia che si ripeta la tragedia dell’8 settembre, tuttavia le premesse ci sono. Come allora, gli italiani sono abbandonati a se stessi da chi dovrebbe guidarli e preoccuparsi innanzitutto del loro interesse. Allora fu lo Stato a franare vertiginosamente, ma almeno c’era la Chiesa; c’era — per i credenti — il conforto spirituale che veniva da essa, dalla sua dottrina perenne, dai suoi eterni insegnamenti. Oggi non c’è più neanche quella, il clero ha voltato casacca, predica allegramente il contrario di quel che essa ha sempre insegnato e se ve vanta, come se stesse facendo la cosa più bella del mondo. Molti vescovi sostengono i Gay Pride e considerano le preghiere di riparazione un obbrobrio. Come finirà? Le tensioni si accumulano, le contraddizioni fra Paese reale e Paese legale si avvicinano al livello di guardia. Occorre vegliare e pregare, perché la notte sarà ancora lunga, e la notte è l’ora del diavolo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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